00.
Sull'altura della Baia c'è una casa.
È una casa grande. Una casa da cartolina vintage, quasi. Le sue fondamenta scricchiolano come le ossa di un vecchio e i vetri delle finestre vibrano notte e giorno a causa del vento che proviene dal mare. Al suo interno, al centro dell'ingresso, c'è una larga scalinata; ai lati di essa, i due divanetti hanno un cuscino a testa, ma non accolgono mai nessun ospite - tranne lei che, con calcolata pazienza, siede a giorni alterni sia sul divano di destra che sul divano di sinistra, lo sguardo rivolto alla porta d'ingresso che per anni resta sigillata.
Sulla parete centrale è appeso un quadro. O meglio: il quadro è stato lì sino al millenovecento quattro circa. Poi qualcuno l'ha tolto. A dire il vero, negli anni a seguire, quel qualcuno ha tolto e cambiato un po' di cose, stravolgendo l'antica intimità della casa: la tappezzeria dei divanetti, i cuscini, la carta da parati. Sono state sostituite le lampadine, aggiunto un nuovo generatore per l'impianto elettrico, sistemate delle piante accanto al portone d'ingresso, montato un appendiabiti, srotolato un tappeto con le frange davanti l'uscio - lei ha sempre storto il muso di fronte a quelle piccole migliorie, ma non ha parlato. Non può parlare. Se apre la bocca per protestare tutti quei microscopici cambiamenti che le fanno male alla testa ogni volta che li guarda, ne esce fuori solamente un mugolio strozzato e dell'acqua di mare. Perciò sta zitta e si limita a guardare, incassare, sopportare.
Il corridoio di destra al primo piano, che ha cinque stanze per lato, è stato lasciato aperto, ma solo tre di esse vengono regolarmente usate. Su quello di sinistra, invece, è stata montata una grata a scorrimento. Nessuno vi entra mai - tranne lei.
Sull'altura della Baia c'è una casa e sta lì da un bel po' d'anni.
È ancora una casa grande, forse un po' troppo per una famiglia composta da tre mocciosi, un padre in galera, una mamma che nega di avere un problemuccio con l'alcool e lei. Qualche raro ospite della tenuta ha persino detto che sembra una di quelle case che vedi stampate su un libro d'epoca.
Ma Gaël -il secondo dei tre mocciosi per l'appunto, col padre in galera e la mamma che alza un po' troppo il gomito col bere- pensa che quella casa faccia semplicemente schifo. Fa schifo perché puzza di muffa e salsedine tutto l'anno, la TV via cavo fa spesso i capricci e la manutenzione della caldaia va fatta una settimana sì e l'altra pure.
Perciò Gaël cerca di passare il tempo in casa come meglio può. Si arrampica sugli scaffali e fa cadere a terra le datate enciclopedie, poi trascorre tutto il pomeriggio a sfogliarle tra uno starnuto e l'altro. S'infila i rollerblade ai piedi e immagina di gareggiare in compagnia, percorrendo in circolo sempre lo stesso percorso -androne, corridoio, cucina, corridoio, sala da pranzo, corridoio, salotto, corridoio e poi di nuovo androne- fino ad avere il fiatone. Quando il meteo porta burrasca e il cielo è nero, osserva il temporale infuriare dalla stanza di vetro che sta nel lato opposto della casa, quello che da sul mare - dove lei si rifugia per cercare di un po' di pace.
Ma la cosa che più gli piace fare, anche se la mamma s'incazza ogni volta che ce lo trova davanti, è cercare di vedere cosa conserva il corridoio di sinistra, quello bloccato.
L'ha osservato a lungo. Prima da lontano con sospetto, poi da vicino con genuina curiosità. Una volta ha scosso l'intreccio di ferro che ne vieta l'accesso e l'ha sentito mollo sotto le dita. Allora l'ha tirato di lato, ma un lucchetto ha minacciosamente tintinnato sopra la sua testa.
Gaël ha storto il muso e, ficcate le mani nelle tasche, è tornato alla stanza di vetro a guardare il mare - ed è proprio lì che lei ha scoperto di poter essere vista dal moccioso.
Gaël l'ha guardata con gli occhi strabuzzati, lei ha ricambiato con pura e innaturale apatia, tipica di un morto. Per attimi interminabili si è solamente udito lo scricchiolare dei vetri sottili e il respiro del bambino accorciarsi fino a diventare inudibile.
Le pupille di Gaël si sono fatte piccole come la punta di uno spillo nel contare i vistosi buchi che si aprono sul corpo di lei. Tre in totale. Un primo sulla fronte a sinistra, poco sopra il sopracciglio sottile, un secondo le scava la spalla destra e un ultimo poco più sotto dello sterno. Non sanguinano. Non più.
Lei vorrebbe parlare, ma non può; lo sa, ma lo desidera con tutta sé stessa. Perciò schiude le labbra screpolate e gesticola un poco per aiutarsi. Scandisce a fatica qualche sillaba. Stringe i pugni mentre l'acqua riprende a sgorgare debolmente dalla sua bocca. Quello che sta per dire le viene lavato via dalla lingua. Tenta un'ultima volta e Gaël fa un passo indietro.
Una rabbia incontrollabile le si fa largo dentro. Sbatte i pugni chiusi sui fianchi e le sillabe mugolate convergono in un unico grido, l'acqua di mare che ormai bagna il pavimento come una cascata. Non poter comunicare la manda fuori di testa! Vorrebbe poter dire il suo nome, soltanto quello, sono anni che nessuno lo ricorda e questo la fa impazzire di dolore.
Gaël si volta e corre via che lei ancora si lamenta ad alta voce. Le grida si affievoliscono e presto si tramutano in un pianto sommesso.
Mi chiamo...
Ethel.
Questo vorrebbe poter ricordare alle persone che abitano la sua casa.
Ma neanche il moccioso l'ha ascoltata, e va bene così. Tanto moriranno comunque, pensa.
Tutti moriranno, perché così deve essere.
Difatti, qualche sera dopo, lo osserva infilarsi nel corridoio proibito senza neanche provare a fermarlo.
Sull'altura della Baia c'è una casa.
È il duemila e Gaël non è più tornato nel corridoio con l'undicesima stanza sul fondo. Di quel giorno gli sono rimasti una cicatrice da quattro punti sul mento e lo spettro di una curiosità che l'ha quasi ucciso. Ha borbottato una mezza bugia sull'accaduto, ma anche una parte di verità: è vero, sì, è scivolato perché ha questa brutta abitudine di portare le infradito coi calzini. Può capitare. Ma è bugiardo, però, perché non ha detto che l'hanno spintonato fino a farlo inciampare di proposito, e chiuso la botola per attutirne le grida - la botola che lei ha chiuso.
Sull'altura della Baia c'è una casa ed è tuttora abitata dalla famiglia Eliasson - o da quel che ne rimane.
È il duemila dodici e Gaël non riesce a dormire. Da un anno sono cambiate molte cose, cose di cui lui ancora ignora l'esistenza e la veridicità.
La Cerchia si è fatta più aggressiva da quando il seiðmaðr si è rivelato. Elias e Bríanna sono stati interrogati più e più volte sulla questione, ma hanno sempre smentito qualsiasi coinvolgimento diretto nella faccenda.
Gaël sa che i suoi mentono alla Cerchia e mentono a lui. Non sa, però, a che tipo di gioco stiano giocando: le visite di Portia si sono fatte più sporadiche, ma comunque incisive. Quando la donna viene a trovarli con un'altra pelle addosso, Bríanna lo avverte di non tornare a casa per nessun motivo al mondo. Allora Gaël vagabonda per la capitale assieme a sua sorella. Perdono tempo al Prikid, vanno a lanciare i ciottoli in spiaggia, fanno un salto in ospedale per andare a trovare Lars.
Purtroppo Lars non può salutarli a dovere. Certo che no: è in coma da quattro anni, più precisamente dalla sera dell'incidente che ha strappato a Gaël la vista, Dísella e... lui stesso.
Ma Ísmey e Gaël continuano a fingere che Lars sia vigile e che abbia bisogno di compagnia, una volta tanto.
Anche ora che non riesce a dormire a causa dell'ansia, Gaël vorrebbe fare visita a Lars per scaricare la tensione. Ma lui non potrebbe rispondere alle sue domande - anche i suoi genitori rifiutano di farlo.
C'è qualcuno, però, che con molta probabilità può.
Allora si fa coraggio e come da manuale mette le infradito e si inoltra nelle viscere della casa sulla Baia. Ripiega la grata, scavalca i mobili d'intralcio, s'infila nell'undicesima porta dopo anni passati a tentare di scordare la brutta disavventura.
Ma è invece giunto il momento di ricordare. Allora guarda il quadro, scosta il tappeto, apre la botola, scadendo quelle azioni come se fossero una sorta di rituale necessario. La discesa inizia che vorrebbe scoppiare a piangere. Ed effettivamente cede quando è davanti la parete ornata di teste.
Per tutti quegli anni, lui e la sua famiglia hanno vissuto calpestando i resti di quelli che un tempo erano stati essere umani. Non si sono mai azzardati a chiedersi il come e il perché. Dove li hanno trovati li hanno lasciati, modificando e cambiando lo strato superficiale della casa senza però intaccare quell'oscura intimità custodita gelosamente nelle fondamenta.
Gaël piange e fa la prima domanda. Sa che lo stanno ascoltando.
"È stato il seiðmaðr a farvi questo?"
Un attimo e lo scantinato si popola quel tanto da costringere Gaël a retrocedere sulle scale di pietra. Una voce dal basso, quella di una donna -lei-, risponde a nome di tutti gli apparsi.
"Sì".
Gaël deglutisce e chiede ancora: "Perché?"
"Perché il seiðmaðr vuole vivere" civetta un bambino. "Allora ha preso noi".
Gaël si asciuga lo zigomo col dorso della mano e si perde nella contemplazione del muschio che rende scivolosi i gradini.
D'un tratto e senza apparente motivo, ripensa a Lóreley e alla conversazione più stupida che abbiano mai avuto.
"Perché hai il setto nasale deviato?"
"Da bambina sono caduta dalle scale, niente di tanto emozionante".
"Anche a me è successa una cosa simile: combo scale bagnate e infradito. Sono scivolato sul terzultimo gradino e mi sono spaccato il mento. Quattro punti. Da quel momento ho come sviluppato una fobia".
"E perché stavi correndo?"
"Ma che domanda è? I bambini corrono sempre, sulle scale e non".
"Parla per te: se lo avessi fatto io mia madre mi avrebbe riempita di schiaffi".
"Fatto sta che sei caduta ugualmente".
"Sono caduta perché ho sceso le scale a luci spente".
"... Al buio, quindi?"
"Sì... al buio".
"Chi mai scenderebbe delle scale al buio, mi domando..."
"Io sì, okay? Perché..."
"Allora?"
"Allora niente. I bambini combinano un sacco di stronzate".
"Come darti torto".
Gaël non fa altre domande. Da averne mille a sentirsi sazio con solo due bocconi di risposte.
Torna in superficie e sigilla l'undicesima porta.
Mentre ritorna in camera strascicando le infradito, lei si fa trovare di proposito sulla cima della scalinata.
Il pianto di Gaël continua, ma in maniera silenziosa. Non piange ad alta voce dal ritrovamento della testa di Dí. Le lacrime non smettono di bagnargli il viso e il nodo che ha alla gola sembra stringersi sempre di più, come il cappio legato attorno al collo di un condannato a morte.
A Gaël sembra d'esser tornato indietro di una decina d'anni circa quando, nella stanza di vetro, lei gli aveva inveito contro, terrorizzandolo a morte. Ma adesso che sa qual è il suo nome, la paura lascia definitivamente spazio alla compassione.
"Ethel" dice. "Ti chiami Ethel, giusto?"
Lei reagisce in maniera ambigua nell'udire il suo nome dopo così tanto tempo. Le sue labbra si schiudono all'improvviso e un rivolo d'acqua salata le bagna il mento. Sembra stupita, quasi sollevata, tanto da emulare un sospiro di sollievo. Altri rivoli bagnati fuoriescono dai tre fori di proiettile. Istintivamente si gratta la prima ferita circolare, quella sulla fronte, e per un istante le pare di avvertire una fitta lì dove è stata colpita.
"Sei la signora del quadro. Ti ho riconosciuta" continua. "So che sei stata tu a chiudere la botola, anni fa".
Ethel chiude la bocca.
Tanto moriranno tutti. In ogni caso. Volevo solo accelerare le cose. Una preda facile. Tutto qua. Ci ho provato.
"Non ce l'ho con te" Gaël tira su col naso. "Non fa niente, davvero. Non fa niente".
"No?" gorgoglia lei. L'acqua salata torna a scorrerle sul petto.
Gaël si guarda i piedi, poi ricomincia a camminare.
Quando le è accanto, mormora: "Va bene così. Il mio undici ottobre arriverà comunque. A quanto pare arriverà per tutti".
Gaël
Dopo aver elaborato minuziose riflessioni che a lungo lo avevano lasciato in balia dell'insonnia, Gaël aveva infine ceduto all'idea di avere tutto il cosmo contro. Qualcosa di più forte della vita stessa lo aveva trascinato indietro, quell'undici ottobre di appena due anni prima, costringendo il destino a rimescolare le carte in tavola. Di nuovo.
Ci pensava e ripensava di continuo, anche in quel momento che era il più sbagliato di tutti, mentre a tentoni procedeva al fianco di Gíta in quello che sembrò essere molto più che un semplice scantinato.
Proseguirono in silenzio lungo tutto il primo -e all'apparenza unico- corridoio. Ci vollero una manciata di minuti prima di giungere sul suo tratto finale, abbastanza stretto da costringerli a procedere l'uno dietro l'altra.
Gaël camminò per tutto il tempo con l'attizzatoio basso. Erano zuppi di sudore quando Gíta si fermò di colpo e una fiamma del candelabro si spense.
Gaël frenò in tempo la smania di sollevare l'arma improvvisata. L'alone giallastro sprigionato dalle ultime due fiammelle rimaste gli faceva male agli occhi, rendendogli impossibile investigare più a fondo.
"Che c'è?"
Gíta allungò entrambe le braccia e le dita della mano libera incontrarono una parete rocciosa. Gaël si sporse in avanti e constatò si trattasse di un muro.
Quello davanti a loro era un vicolo cieco.
"No..." Gíta lasciò scivolare via la mano guantata. "Oddio, no..."
Gaël non parlò e gli occhi rotolarono istintivamente verso l'alto. Un gancio penzolava nel vuoto a una decina di centimetri dalla sua testa e un quadrato fatto di legno era incastonato nel soffitto. Perché la sua vita era un nauseante susseguirsi di botole e maniglie da aprire?
"Spostati, provo a tirarlo giù" disse e si schiacciò verso il muro di destra per permettere a Gíta di retrocedere.
"Prendi a calci anche questa?" ironizzò Gíta, la voce che tremava un poco.
Gaël non rispose. Agganciò alla maniglia la parte uncinata dell'attizzatoio e, senza fare complimenti, cominciò a tirare più forte che poté. Lo sforzo gli contrasse la faccia e la ferita aperta sullo zigomo riprese a pizzicare: qualche secondo più tardi un una linea di sangue gli tagliava in due la guancia e la tumefazione ricominciò a pulsare. Tenne duro fino all'ultimo quando, con uno scricchiolio greve, la botola venne giù di scatto e una scala di legno marcio quasi non lo colpì in pieno. Per sua fortuna rimase bloccata a qualche centimetro dal suo naso. La maniglia, invece, si schiantò a terra, producendo un fastidioso riverbero metallico.
Tirata giù la scala, Gaël fece per voltarsi. Il respiro di Gíta si era fatto più pesante e frenetico.
"Non voglio salire" la sentì mormorare a denti stretti. "Torniamo indietro. Non voglio salire".
Anche Gaël cominciò a respirare a bocca aperta. L'afa scaturita dall'umidità che impregnava le pareti iniziava ad affaticarlo.
"Gíta... per favore".
"N-non" la vide abbassarsi sulle ginocchia, quasi fosse stata colta da un malore. "Ho paura" e cominciò a singhiozzare come una bambina, abbandonando il candelabro a terra.
Gaël puntò gli occhi in avanti prima di decidersi ad accucciarsi a sua volta. Nero. Alzò il capo in direzione della botola ormai spalancata, unica via di fuga. Nero. Si gettò un'occhiata alle spalle, scrutando attentamente il vicolo cieco, e trattenne a stento un sospiro.
Nel frattempo Gíta cercava di controllare i singhiozzi e il respiro, senza però riuscirci. Si passò furiosamente le nocche sul viso per cancellare via le lacrime e gli schizzi di sangue rappreso che le macchiavano la pelle vennero via in parte. Quello che l'aveva colta in flagrante era burnout senza precedenti.
Gaël focalizzò la sua attenzione su una sottile linea rossa che, nella furia del pianto, ora le appariva annacquata sul naso. Concentrarsi su quel particolare lo avrebbe aiutato a rimanere calmo. Forse.
"Mi hai mentito. Tu sai quello che sta succedendo, vero?"
Gíta tenne gli occhi bassi e l'ennesimo singhiozzo le fece tremare la bocca, colpevole. "Sì che lo so".
"E..."
"Non chiedermi altro, ti prego. So solo che stiamo facendo una cazzata madornale a tentare di uscire da qui. Ascoltami" mugolò lei tutto d'un fiato. "So chi è entrato in casa mia e so chi mi ha ammazzato il cane e tagliato la testa a mia madre. So perché siamo qui e... non ci voglio stare. Ma non possiamo andarcene".
Gaël raggelò sul posto. Per svariati secondi, nella mente annebbiata dalla confusione e il calore, si susseguirono ripetutamente le parole cazzata madornale-ammazzato-cane-madre. Un formicolio anomalo s'impossessò delle sue gambe e la testa gli parve più leggera, come se gliela stessero gonfiando forzatamente con dell'elio. Aveva quasi dimenticato cosa potesse scatenare a livello fisico un sentore come quello: si trattava di paura; primordiale, genuino e naturale terrore. In non poche occasioni, soprattutto da bambino, si era ritrovato a dover fare i conti con quella sensazione. L'ultima volta che ne era stato vittima in modo violento, la testa di Dí era stata sepolta ai piedi di una betulla e il suo corpo ridotto a uno scempio durante un macabro rituale di ricerca.
Una parte di lui, seppur allo scuro delle attuali circostanze, si trovò d'accordo con Gíta - tornare allo scantinato e aspettare. L'altra bilanciata dalla frustrazione e dalla rabbia, invece, gli infuse la forza necessaria a sollevare una mano e a poggiarla sulla spalla di lei.
Gaël serrò le dita quel tanto da costringere Gíta a un contatto visivo. La scosse un poco quando lei ancora rifiutava di concedeglierlo.
"Troverò un modo per uscire, d'accordo? Ci provo".
Gíta scosse la testa e chiuse gli occhi per frenare lo scorrere di altre lacrime. "Non possiamo andarcene, Gaël".
"Ti ho detto che ci provo. Non ti lascio tornare indietro, sarebbe da stronzi".
"Ma tu lo sei di default. Stronzo, dico".
Lui volle controbattere, ma preferì lasciarsi andare a una breve risata nervosa. "Mi era quasi mancato sentirmelo dire".
Gíta si chiuse in una silenziosa contemplazione del pavimento e lui rispettò i suoi tempi di ripresa.
Ritirò la mano solo quando fu sicuro che i suoi singhiozzi si fossero affievoliti. Non era mai stato una persona paziente, anzi; ma gli anni passati lontano da tutto e tutti avevano quanto meno rafforzato in lui il senso di sopportazione. E poi... Gita sapeva. Sapeva più di lui. Volente o nolente, stare con lei gli avrebbe garantito maggiori chance di trovare sua sorella sana e salva.
Probabile sapesse anche il motivo del loro... sequestro.
"Va meglio?"
Gíta tentennò un momento. "Sì" rispose poi con un filo di voce. "Grazie".
"Non mi dirai altro?"
Lei finse di pensarci su. "Solo se riesci a portarmi fuori di qui".
Gaël tornò lentamente in piedi, lei indugiò a terra per qualche attimo ancora. Accartocciata su se stessa appariva ancora più minuta e indifesa. "Ti ho già detto che lo faccio" la incalzò, cercando di non apparire infastidito. "Andiamo, dai".
Lei non si mosse, non subito, almeno. Qualcosa, tra le fughe del mattonato sconnesso, aveva catturato la sua attenzione. La vide allungare distrattamente una mano a terra, ai suoi piedi, e infilare un dito in una crepa più profonda scavata nel pavimento. Subito dopo lo portò sotto la luce del candelabro per esaminare la melma nera che imbrattava il tessuto del guanto.
Sembrava... Gelatina. No. Al tatto, la consistenza oscillava tra il vischioso e l'unto.
Gíta sollevò la testa e tese il braccio, ferma in attesa. Lui aggrottò le sopracciglia.
"Cos'è?" domandò e, prima che potesse chinarsi per osservarlo meglio, Gíta lo prese allo sprovvista tornando subito ritta. Un attimo e Gaël realizzò l'impensabile: in un batter d'occhio, lo strano liquido nero aveva cominciato ad emergere dalle fughe del mattonato e ad espandersi a una velocità considerevole.
"Che cosa...?"
Il debole latrato di un animale -perché solo una bestia poteva riprodurre un suono tanto gutturale- si diffuse dall'oscurità alle spalle di Gíta. Susseguì istantaneo un secondo, già più vicino del precedente, accompagnato dallo stridere di qualcosa di innaturalmente affilato contro la parete, come un oggetto appuntito premuto con forza sulla lavagna.
"Sali" boccheggiò Gaël, spostando gli occhi dalla melma nera a un punto indefinito, oltre il buio.
Gíta deglutì rumorosamente e il terzo latrato esplose infine in un ringhio. Entrambi credettero di morire lì e subito.
"Sali!"
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Ohibò, chi non muore si rivede!
... Pessime battute a parte, lo so, potete linciarmi! Non solo questo prologo ve l'avevo promesso a febbraio, ma a sorpresa tratta pure il pov di Gaël *coff coff*
Ebbene sì: per come è strutturata la storia, Lamb avrà punti di vista diversi per forze di causa maggiore. Uno dei principali sarà proprio quello del nostro beniamino della Baia. Mi sto divertendo un sacco a descrivere situazioni varie ed eventuali dal suo punto di vista! No spoiler, però, per quanto riguarda i pov successivi. Li scoprirete man mano!
Per quanto riguarda la pubblicazione, vi dirò: tra università e lavoro, sto ancora cercando una costante. Non mi sento ancora di fissare una data precisa per la pubblicazione, ma sappiate che almeno 3-4 capitoli al mese mi sforzerò di farli uscire. Devo tornare in regola con tutto, la scrittura in primis. Ragion per cui, pregate per me e la mia sanità mentale.
Ovviamente non poteva non essere un prologo criptico (come mio solito!) e la situazione di Gaël e Gíta non sembra essere delle migliori (e che te lo dico a fà?)
Il primo ed effettivo capitolo uscirà a breve. Perciò stay tuned e... bentornati!
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