Appendice 1 - Artemis
Nuova Città di Domino; dieci anni prima
Ex quartiere Satellite
Pioveva a dirotto, grossi fulmini squarciavano il cielo illuminandolo di una luce inquietante, mentre i tuoni rimbombavano nella notte senza sosta.
-Io e tuo padre ne abbiamo abbastanza di te, sei solamente stata un peso da quando ti ho messa al mondo. Sei anni d'inferno, in cui sperperavamo soldi per sfamarti, soldi che sarebbero serviti per le dosi.
Sei stata una perdita di tempo, avrei dovuto abortirti.-
Due perle nere, annebbiate da un alone di stanchezza, identiche a quelle della bambina seduta sul sedile del passeggero, le mani strette sulle minuscole ginocchia e la schiena inarcata, la guardavano con odio, come se davanti a sé vi fosse l'essere più disgustoso del pianeta.
-Mamma...-
La castana parlò con un filo di voce, esitando anche solo a pronunciare quella parola che tanto avrebbe dovuto amare, gli occhi arrossati e stretti in due fessure.
L'autovettura venne frenata bruscamente e la donna alla guida scese, raggiungendo la portiera opposta; poco importava della pioggia, slacciò la cintura alla bambina e la strattonò fuori tirandola per un braccio.
-Io non sono più tua madre. Ti odio, ...
Tch. Non ti ho nemmeno dato un nome da pronunciare nel momento in cui ti avrei urlato contro degli insulti. Perchè non te ne sei dato uno da sola? Mi fai schifo.
Tu mi hai rovinato la vita ed io ora rovinerò la tua.-
Dopo quelle orribili parole, la giovane spinse a terra la figlia e risalì in macchina, partendo con una sgommata. Non si preoccupò nemmeno di richiudere la portiera a lato del passeggero, voleva solamente fuggire lasciando lì la, a detta sua, causa di ogni suo problema da quando era solamente poco più che una bambina, abbandonandola a notte fonda, sotto una pioggia torrenziale, in uno dei quartieri del Satellite in cui vi erano ancora tracce di criminalità.
La castana, trovandosi improvvisamente sola, non andò sorprendentemente nel panico, ma si apprestò a correre sotto la tettoia a lato di un ristorante per ripararsi ed evitare di bagnarsi troppo... solo in quel momento si concesse il lusso di un pianto, scoppiato improvvisamente come quel temporale che stava imperversando ormai da ore.
Non sapeva che fare, né se sarebbe sopravvissuta alla notte; faceva davvero freddo ed i vestiti che indossava, oltre ad essere lerci e di minimo due taglie in meno, erano anche rotti e tipici della stagione estiva.
La donna appena scappata, biologicamente sua madre, aveva solamente vent'anni nel momento in cui l'abbandonò al suo destino.
Figlia di nullafacenti nati nei bassifondi del Satellite, già a quattordici anni si ritrovò incinta del fidanzato, anche lui di famiglia poco raccomandabile. I due, prima bevitori e fumatori accaniti già dalla tenera età di dieci anni, dopo che nacque la bambina, passarono dalla marijuana a droghe sempre più pesanti perché incapaci di gestire un figlio da così giovani. Entrambi poveri, si guadagnavano da vivere lei rubando e prostituendosi e lui spacciando, eppure i soldi non bastavano quasi mai sia per mangiare che per comprare altra droga; di questo davano interamente la colpa a quella figlia trascurata, venuta al mondo grazie all'ignoranza di due ragazzini impreparati.
Dopo una vasta serie di maltrattamenti fisici e psicologici durata sei anni, i due decisero di sbarazzarsene prima o poi e quella notte avvenne ancor prima del loro accordo; irritata dal suo pianto e dalla paura della tempesta, la madre decise di commettere quell'atto disumano con tre giorni di anticipo, abbandonandola e scappando via.
Il mattino dopo arrivò fin troppo lentamente e la piccola, sfinita dal pianto, era crollata in un sonno leggero solamente all'alba, appoggiata ad un bidone della spazzatura. Fu quando un tiepido raggio di sole le colpì il viso che riaprì gli occhioni arrossati e persi, facendola sorprendere del fatto che fosse ancora viva. Aveva sì passato la notte, ma sentiva che sarebbe morta di lì a poco, dato che stava già digiunando da un giorno.
Si portò le gambe al petto e le avvolse con le braccia, strizzando gli occhi neri; stava per piangere di nuovo, ma voleva trattenersi. In fondo, dentro di sé poteva dirsi felice di essere stata finalmente separata dai suoi due aguzzini...
Non aveva mai conosciuto né la felicità, né il mondo esterno e per questo non aveva intenzione di morire. Sarebbe sopravvissuta, anche se non sapeva affatto come. Se ci era riuscita per sei anni in balia di due mostri, pensava di poter fare qualunque cosa, confidava in sé stessa e nella sua intelligenza che era perfettamente consapevole di possedere.
Sforzandosi e con lo stomaco richiedente attenzioni, riuscì a mettersi in piedi aggrappandosi al muro. Appoggiò le manine sul bidone della spazzatura accanto a lei e si sporse per osservarne il contenuto. Saliva un odore nauseabondo, ma i morsi della fame surclassavano il senso dell'olfatto; con riluttanza allungò una mano ed iniziò a rovistare, finché il suo sguardo non si posò su qualcosa avvolto nella carta stagnola, quando lo prese e ne scartò il contenuto, fu contentissima nel vedere che si trattava di un hamburger quasi intero che non sembrava nemmeno troppo vecchio o maleodorante...
Avvicinò il panino alla bocca e ci mise un po' per decidersi a morderlo, quando lo stomaco chiamò nuovamente chiuse gli occhi e lo addentò. Il pane era secco e la carne dura, mentre l'insalata si era afflosciata, ma era sopportabile, si ripeté che aveva mangiato decisamente di peggio nella sua vecchia casa e sicuramente il rischio di prendere malattie era minore.
Divorò il pasto in pochissimo tempo ed anche se non bastò a saziarla completamente, congiunse le mani e ringraziò. Solo dopo si rese conto di avere una gran sete; sapeva che non molto lontano c'era un parco con delle fontane dalle quali si poteva bere, ma non sapeva affatto come trovarlo. L'andare a tentativi fu la migliore nonché unica scelta per lei, quindi si mise in cammino.
Passarono ore e la stanchezza cominciava a farsi sentire, ma niente, tanto che iniziò a pensare di essersi sognata tutto. E le uniche persone che vide in lontananza facevano troppa paura perché ci andasse a parlare.
Fu dopo altri venti minuti che, a folle velocità, un'auto passò su una pozzanghera e la inondò di acqua gelata. La bambina cadde a terra e scoppiò a piangere, tremando per il freddo e disperandosi. Che fosse finita dalla padella alla brace? Non ci voleva credere, niente poteva essere peggio della sua vecchia vita.
Passò meno di un minuto quando alle sue orecchie giunse un secondo rombo, stavolta più potente, che andò a scemare scomparendo totalmente. Voltò la testa in direzione del rumore, ma un po' per le lacrime, un po' per il fango finitole negli occhi, non riuscì a vedere nulla.
-Stai bene...? Ci sono persone in giro che non hanno riguardo per niente e nessuno!-
La voce che sentí aveva un tono gentile, con una punta di rabbia. Chi poteva essere?
-Non ci vedo.-
Disse lei, a bassa voce, con la testa china. Subito dopo un fazzoletto le stava pulendo viso ed occhi, riuscendo nel tentativo di farle riprendere la vista.
La castana sbatté le palpebre più volte prima di riuscire a mettere a fuoco chi si trovava davanti a lei.
Si trattava di un uomo, più grande dei suoi genitori. Gli arruffati capelli arancioni erano tenuti più o meno fermi da una fascia sulla fronte, aveva il corpo avvolto in una tuta da motociclista e gli occhi grigi puntati su di lei, arricchiti da un sorriso sulle labbra.
Fu quando notò i vari segni sul suo viso che scattò in piedi ed indietreggiò, terrorizzata. Li aveva anche suo padre, quei marchi, ed erano aumentati quando era tornato a casa dopo mesi che non l'aveva visto. E se si conoscevano?
Le avrebbe fatto del male?
-Hey, aspetta! Voglio solo aiutarti.-
Lo sconosciuto agitò le braccia, rimanendo però fermo in quel punto. Sapeva che, se avesse tentato di avvicinarsi, lei si sarebbe impaurita ancor di più, cosa che voleva evitare.
Non rispose, fissandolo con sguardo terrorizzato, non riusciva a staccare gli occhi neri da quei disegni dorati.
-... Se hai paura di me per via dei marchi sul mio viso non posso biasimarti, ma è una cosa di tanto tempo fa. Tutto ciò che ti chiedo è di parlare, non voglio farti alcun male.
Ho deciso di fermarmi perché mi sei sembrata in difficoltà... sei sola?-
-Mi hanno abbandonata sul ciglio della strada ieri notte. Mia mamma mi ha detto che era stanca di me e che gli ho rovinato la vita.-* si strinse nelle spalle, rimanendo comunque ferma al suo posto e non staccandogli gli occhi di dosso.
L'uomo la guardò con un'espressione di rabbia mescolata a sconforto ed immensa pena. Quale genitore si libererebbe della propria figlia mollandola in un quartiere malfamato, di notte e con un temporale da far accapponare la pelle? Se li avesse avuti davanti, probabilmente avrebbe tentato di pestarli a sangue. Sarebbe stata una di quelle situazioni in cui un duello avrebbe fatto poco o nulla.
-Come ti chiami?- le domandò, osservandola. Quei vestiti, oltre ad essere lerci e rotti, le erano evidentemente troppo piccoli.
-Non ne ho uno. Nessuno mi ha mai chiamato per nome.- rispose lei. Vedendo l'espressione del suo interlocutore cambiare così drasticamente a quelle parole, i suoi muscoli, prima irrigiditi, si rilassarono lentamente, nonostante esprimesse evidente rabbia. Ma non era verso di lei... lo percepiva bene ed era per quel motivo che si stava tranquillizzando, sembrava una persona tutt'altro che cattiva.
-Non- non hai un nome? Quale essere ignobile non ha dato nemmeno un appellativo alla propria figlia? Va contro ogni cosa che mi viene in mente! Cavolo, non posso sopportare di vedere che al Satellite le cose non si sono ancora sistemate nemmeno dopo vent'anni e che i bambini vengono ancora abbandonati.- fece un passo avanti, stringendo i pugni. -Quindi, per favore, fidati di me. Conosco qualcuno pronto a darti un tetto sopra la testa e cibo a volontà, se vorrai seguirmi ti ci porterò subito.-
-Mhh...- mugolò, dondolandosi sul posto. -il mio cuore mi dice che non può andare peggio di così, quindi vengo con te.-
Sul volto del rosso comparve un gran sorriso, era davvero contento di quelle parole. Si chinò, allungando una mano in sua direzione, aspettando che si avvicinasse.
-Il mio nome è Crow, comunque. Ti prometto che ne troverò uno anche a te, che sia perfetto.-
-...Crow. Crow!- Ne pronunciò il nome sorridendo, prima di fare una corsa ed afferrargli la mano.
Fu abbastanza complicato trasportarla sulla Duel Runner senza farla morire di paura, ma fortunatamente casa di Martha non era lontana dal punto dove si erano incontrati. Durante tutto il tragitto, era rimasta avvinghiata alla schiena con un tale impeto da togliergli il respiro, ma al contempo quella reazione lo fece sorridere. Sembrava così diversa dai bambini di cui si prendeva cura tanti anni prima, nonostante una storia pressoché simile; la vedeva... matura, per la sua età, voleva saperne di più, cosa nascondevano quegli occhi scurissimi?
La moto frenò, rallentando fino a fermarsi. Si trovarono davanti ad una casa di medie dimensioni, con un piccolo giardino, ma lo sguardo di lei si posò su una statua raffigurante un drago.
-Ti piace? Lui è Drago Polvere di Stelle; quand'ero bambino, rappresentava la speranza in un futuro migliore... e Yusei ne é il fidato compagno.-
-Yusei?-
-È un mio carissimo amico, magari un giorno te lo farò conoscere.-
-Disturbo?- una voce femminile si introdusse nel discorso -eheh... caro Crow, non vieni a trovarmi per un sacco di tempo e non mi dici nemmeno di avere una figlia? Ingrato!-
Disse scherzosamente la donna dalla carnagione scura; i capelli grigi erano tenuti sciolti, mentre negli occhi neri la piú giovane scorgeva tanta bontà.
Subito, mosse dei passi verso di lui e lo afferrò per un orecchio, suscitando una risata da parte della bambina.
-Ahia, mi fai male, Martha! Lei non è mia figlia, è una bambina che è stata abbandonata dai suoi genitori ed io l'ho trovata...-
-Perché non me lo hai detto subito?!-
-Non mi hai dato il tempo di fini- ... vabbe, sono qui perchè volevo chiederti se potevi darle un tetto sopra la testa.-
-Ma certo, sai benissimo che qui tutti i bambini sono i benvenuti, e poi mi farà compagnia.- rise, per poi avvicinarsi all'interessata, porgendole la mano. -Allora, come ti chiami? L'hai già sentito, ma il mio nome è Martha.-
Silenzio. Gli occhietti si chiusero e riaprirono.
-Non ho nessun nome, io.-
-Cielo! Dobbiamo trovartene uno, in questo caso. Che ne dici di... uhm...-
-Aspetta.- sopraggiunse Crow. -Penso che prima dovremmo conoscerla bene, per poter trovare qualcosa che le si adatti alla perfezione.-
-Per una volta devo darti ragione.-
-Come sarebbe a dire "per una volta"?! Hey, non ignoratemi!-
Mentre il rosso era intento a sbraitare, le due, mano nella mano, entrarono in casa ignorandolo completamente.
-Hai fame, piccola?-
-Per adesso solo sete...-
La donna posò sul tavolo un bicchiere d'acqua e la invitò a sedersi, cosa che lei fece. In quel momento, entrò in casa anche Crow.
-Ti va di raccontare la tua storia e come sei finita per strada?-
Annuì.
Si mise a raccontare il suo passato fin nei minimi dettagli, nei limiti di ció che poteva sapere come bambina. Entrambi gli adulti rimasero in un misto di shock e rabbia, a sentirla; non importava se era per strada da relativamente poco, perché poteva già dire di essere nata all'inferno.
Si guardarono, con gli occhi spalancati, chiedendosi come avesse fatto a sopravvivere tutto quel tempo in una famiglia del genere.
-Tesoro... ma è terribile! Devi avere un animo davvero forte per stare così bene nonostante la tua situazione fosse... tragica. Non posso far altro che ammirarti.- le guance magre della bambina si colorarono di un tenue rosa pesca e sorrise, forse per la prima volta dopo tanto tempo.
-G-grazie...- balbettò, abbassando la testa, mentre alcune ciocche castane le scivolarono sul viso.
Il rosso le si avvicinò e, delicatamente, posò una mano sulla sua testolina.
-Sai... non è affatto giusto che qualcuno di cosí forte come te non possieda nemmeno un nome. Non sopporto questa cosa, quindi ora rimaniamo qui finché non te ne troviamo uno.-
-I nomi sono così importanti...?-
-Certo! Se ti rappresenta, non c'è bisogno di troppe parole per far capire agli altri chi si ha davanti. E poi... come dovrei chiamarti? "Piccola" prima o poi non andrà più bene e sembrerà imbarazzante.-
-Capisco... credo.- alzò la testa, osservandolo con gli occhi scuri. -Se i nomi sono così importanti... come dovrei chiamarmi?-
Crow ritirò la mano e se la portò al mento, afferrandolo con due dita; il viso assunse un'espressione pensierosa.
-...Artemis.-
-Cosa vuol dire "Artemis"?-
-Artemide, o Artemis, è il nome di una dea greca; della caccia, del tiro con l'arco e degli animali selvatici. È anche definita come la personificazione della Luna Crescente.
Tu sei come un animale selvatico che, per crescere, è costretto a cacciare. Hai detto che sei stata costretta a cercare cibo nella spazzatura, no? Quella si può considerare "caccia", se proprio vogliamo forzare la cosa.
Inoltre penso che ti si adatti anche solo per come suona, è un nome aggraziato.-
La piccola sbatté le palpebre piú volte, in un'iniziale confusione, ma poi le labbra si curvarono in un grande sorriso.
-Mi piace! Da adesso mi chiamo Artemis, quindi? Artemis... A...rte...mis... eheh.-
-Sono contento che ti piaccia, ora sei completa al cento per cento.-
Sopraggiunse Martha battendo le mani, entusiasta anche lei per quel nome.
-Conoscendoti, avrei giurato che le avresti affibbiato un nome da volatile, caro Crow.-
-Solo perché la mia moto si chiama Blackbird, io mi chiamo "Corvo" ed uso un deck Alanera, non significa che io sia un fissato!-
Sbuffò, posandosi nervosamente le mani sui fianchi, in un falso segno di scocciatura.
Nei seguenti giorni, durante la sua temporanea permanenza a Nuova Domino, Crow era andato a trovare Artemis ogni volta che poteva, passando parecchio tempo con lei. La trovava davvero incredibile; in pochissimo tempo si era ambientata a casa di Martha ed andava d'accordo con gli altri bambini presenti, seppur gli avesse confessato di preferire la sua compagnia. Piú volte, l'aveva colta in flagrante mentre ballava, sola in una stanza, con gli occhi chiusi.
Le piaceva davvero ballare, anche se a casaccio, sosteneva che farlo scacciava via i brutti pensieri e ricordi dalla sua testa.
Da quelle parole, il rosso capí il motivo per il quale non si trovasse completamente a suo agio con i bambini: semplicemente era dovuta crescere e maturare troppo in fretta e questo le faceva vedere tutto come "infantile", noioso.
-Crow... dove vai?-
Una manina gli afferró la manica del giubbotto, facendolo voltare. Doveva immaginare che l'avrebbe capito, dall'espressione quasi rattristata che le aveva mostrato tutto il tempo. Non era riuscito a trattenersi.
-...Tornerò, Artemis. Come tutti i giorni.-
-Stai andando lontano, vero? Domani non verrai. Mi lasci sola?-
Crow si morse il labbro e lanciò un'occhiata al casco che portava sottobraccio.
-Ho ragione, vero?-
Quella bambina... come poteva essere cosí empatica? Doveva essere un dono, il suo comprendere le emozioni con il solo sguardo. Si chinò, davanti a lei.
-Non posso nasconderti nulla, a quanto pare, eheh.
E forse non posso celare nemmeno l'affetto che ho per te, ammetto che mi mancheresti tantissimo.
Quindi... ti va di venire con me? Gireremo il mondo per partecipare ai tornei di duelli turbo più disparati e, dato che ti piace tanto, ti manderò anche a scuola di danza.-
-D-davvero...?-
-Ti ho mai mentito, in questi giorni?-
-Esattamente un minuto fa.-
Crow sospiró, chinando il capo, sconfitto nell'orgoglio.
-Vengo con te, comunque!
Sarai il mio papà! Uno vero, però.-
L'uomo avvampó per l'imbarazzo, ma poi si alzó in fretta ed afferrò la mano alla bambina, portandosela con sé.
Non si sarebbero mai più separati.
*Per dare più realismo, ho deciso di farla parlare in questo modo, accentuando il suo essere una bambina piccola che non ha mai studiato né nulla.
In sintesi, gli errori da parte sua sono completamente voluti, spero che possiate apprezzare la mia scelta. :>
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