7. Are you scared of monster?

Rimasi ferma, con gli occhi chiusi. Esattamente come Cole mi aveva duramente ordinato. Il tono perentorio che aveva usato per scandire ogni singola lettera era stato tanto inquietante quanto impossibile da ignorare, anche per una testarda ostinata come me.

Mi sentivo tramortita. Nei miei occhi, l'immagine del suo sguardo gelido, privo di qualsiasi emozione, era impressa come uno schiaffo sulla pelle. Vedevo ancora la tensione che il suo corpo irradiava, i muscoli tesi delle spalle, lo sbiancare delle sue nocche, nell'istante preciso in cui la bocca velenosa di quel miserabile aveva sputato fuori quel terribile insulto.

Cole si era scagliato contro di lui senza esitazione. Ed io non riuscii ad evitarlo. Il mio corpo si era cristallizzato, raggelato dal rumore agghiacciante dei suoi colpi impetuosi e lo scricchiolio deciso dei suoi irrefrenabili pugni.

Le mie orecchie erano tempestate dalle urla strazianti di quel ragazzo, che diventavano ad ogni secondo che trascorreva, sempre più brutali. Nell'atrocità folle di quel momento, in quel groviglio di carne contro ossa, nocche spaccate e respiri strozzati, pensai che se non avesse smesso di strillare così, da lì a poco, qualcuno sarebbe intervenuto per soccorrerlo. Poi mi ricordai dell'esistenza della festa e mi resi conto della drammatica realtà. Le sue grida stavano esplodendo in un caos tremendo solo nella mia testa, nessun'altro oltre me e Cole lo poteva sentire, perché la sua dolorosissima richiesta di aiuto si confondeva con la musica assordante. Il frastuono sovrastava la sua voce, annientandola nel silenzio della notte. Bastò quel pensiero raccapricciante per riattivare la mia coscienza.

Fu allora che scattai fulminea e aprii gli occhi.

Quando fissai davanti a me quello spettacolo crudele, barcollai scossa indietro, reggendomi a stento sulle gambe. Cole stava stritolando con le mani imbrattate di sangue la gola ansante di quel ragazzo, tanto era disperato che tentava in tutti i modi possibili di divincolarsi, ma la rabbia ferina e la presa possente del suo avversario sulla sua giugulare glielo impediva. Avanzai senza esitare, posizionandomi dietro le spalle, prima che Cole potesse non rispondere più delle sue azioni.

«Fermati, basta!» buttai fuori con tutto il coraggio che avevo e Cole mi guardò assente. Aveva le pupille dilatate, i vasi sanguigni gonfi sul punto di esplodere e la fronte aggrottata, madida di sudore. Non sembrava più lui. Pensai che in quel momento non fosse in grado di agire o pensare in maniera lucida perché pareva di ghiaccio. Il respiro irregolare e affannato gli usciva fuori dalle narici aperte, come quelle di un toro infuriato. Il petto si sollevava e abbassava a ritmo con il battito frenetico del cuore che pompava incontrollato un mix pericoloso di emozioni indecifrabili.

«Cole, ti prego, lascialo andare» insistei con più convinzione mentre lui assottigliava gli occhi, fissandomi freddo. Stavo per temere il peggio quando...fu un attimo, tanto che non feci in tempo a chiedermi perché un istante prima quel ragazzo fosse in piedi barcollante e quello dopo a terra, rannicchiato su stesso, agonizzante dal dolore. Mi voltai verso Cole e dall'espressione torbida, minacciosa del suo viso, capii che era ancora distaccato dal mondo.

Era preoccupante, dissociato, e perso nelle ombre più scure della sua mente. Tutto il suo corpo irradiava un sentimento d'odio tanto intenso quanto violento. Tuttavia, non mi lasciai intimidire e così senza indugiare troppo, mi avvicinai alla sua figura. Sollevai il mento per guardarlo, sovrastata dalla sua altezza imponente e tentai di afferrargli la mano, ma lui non si lasciò toccare. Si allontanò di scatto ed io sobbalzai per lo spavento. Arretrai un passo, ferita per il rifiuto inaspettato, mentre lo scorsi camminare, diretto chissà dove.

«Dove stai andando?» sbottai scossa, ma non ci fu risposta. Lanciai un'ultima occhiata al ragazzo con il viso tumefatto, stordito per i colpi ricevuti, prima di incamminarmi per dirigermi verso Cole.

Ormai a divederci c'era una certa distanza, dovevo recuperare. Tentai di raggiungerlo, ma faticavo a stargli dietro.

«Aspettami!», dissi, ma non mi diede ascolto.

«Per favore, rallenta» lo pregai, ma niente. Continuò ad ignorarmi, marciando a passo svelto verso il parcheggio adiacente la festa.

Perché mi stava evitando? Avevo bisogno di parlargli.

«Ehi!» ritentai, ma fu un altro buco nell'acqua.

Corsi a perdifiato con tutta la forza che mi rimaneva nelle gambe, fino a quando finalmente riuscii a raggiungerlo. Lo affiancai e lo superai in maniera prepotente, sbarrandogli la strada per impedirgli di proseguire. Lui mi guardò furibondo, il suo sguardo infuocato mi incenerì seduta stante, ma io replicai lanciandogli un'occhiata ammonitoria, altrettanto potente. Mi avvicinai, ancora, sfidando la sua arroganza.

«Che cosa vuoi?!» chiese con timbro aggressivo e austero, sobbalzai.

«Ma che diavolo di problema hai?!» gridai.

«Come scusa?» chiese sorpreso e indispettito.

«Che ti prende? Sei impazzito per caso? Hai appena preso a pugni in faccia una persona e te ne vai così, come se niente fosse?» conclusi, ormai sfinita. Cole mi guardò esterrefatto, poi sospirò, passandosi una mano sulla fronte.

«È questo il modo in cui mi stai ringraziando per averti aiutata? Farmi la morale e ricordarmi quanto sia sbagliato pestare la gente?» eruppe sul punto di esplodere.

«Stava per morire strangolato. L'hai quasi ucciso! Maledizione, come fai a non renderti conto della gravità della situazione?» sbraitai incredula mentre lui si avvicinava, sempre di più. Con una sola falcata, azzerò la distanza tra di noi e mi afferrò un braccio. Lo strinse forte, facendomi male e mi fissò intensamente.

«Quella feccia rivoltante ha cercato di molestarti. Se non fossi intervenuto Dio solo sa cosa ti sarebbe accaduto» gridò e mi ritornò in mente il coro di urla di terrore del ragazzo.

«Probabilmente a quest'ora sarebbe già dietro di te, eccitato dal profumo dei tuoi capelli e dal calore delle tue cosce. Che cazzo..» sospirò, sorridendo maligno «...Tu osi perfino difenderlo? Forse sei tu ad avere qualche rotella fuori posto, ragazzina, non io!» sibilò lapidario a un centimetro dalla mia faccia. Mi squadrò dal basso verso l'alto, quasi disgustato dalla mia vergogna.

La sua risposta mi lasciò basita. Riflettei per un istante sulla verità di quelle parole pronunciate con una tale crudeltà. Lo stomaco mi si contorse dalla paura quando mi immaginai le dita sudice di quello sconosciuto impresse sui miei fianchi, o i suoi palmi macchiati, stretti attorno ai miei seni. Tentai di non piangere, pensando al suo corpo schiacciato contro il mio in una morsa di puro terrore. Poi un flashback improvviso mi trapassò la mente e ricordai la sensazione di panico che avevo provato sentendo l'odore nauseabondo del suo fiato, mentre mi alitava lascivio fantasticherie indecenti sul collo.

Fu sufficiente quell'immagine raccapricciante per farmi chiudere la gola e accapponare la pelle. Cole aveva ragione. Tuttavia, anziché controbattere, in un gesto deciso arpionai con le unghie la sua mano e la scrollai via, infastidita persino dal suo tocco.

«Non lo sto difendendo! Sto solo dicendo che non dovresti perdere il controllo così tanto facilmente o ti metterai nei guai» risposi caparbia «Guai grossi...» aggiunsi poco dopo, massaggiandomi la pelle dolente. Lui aggrottò la fronte e inclinò la testa di lato.

«La mia vita non ti riguarda» mi intimò lentamente e a muso duro.

«Sì invece, si dia il caso che sei intervenuto per difendermi. Dimmi perché ti importa di quello che pensa uno sconosciuto?» mormorai con sincerità e lui mi guardò confuso. Dentro di me sapevo bene che non aveva perso il lume della ragione solamente per proteggermi; il suo corpo era scattato all'assalto nel preciso istante in cui quel ragazzo aveva offeso sua madre. Il controllo gli era scivolato via dalle mani con una naturalezza tale da poter lasciare di stucco chiunque fosse capitato dinanzi quella violenza spaventosa, a cui lui stesso aveva dato inizio. La rabbia gli era esplosa dentro le vene con un potente impatto e lo scoppio devastante aveva accidentalmente liberato dalle antiche catene, un mostro infernale, inquieto e temibile. Una fiera violenta, in grado di spaventare persino sé stessa allo specchio. Quel suo lato impulsivo, aggressivo, incontrollabile che tanto faceva fatica a nascondere.

«Cos'è credi sia cieca? O stupida? So che non l'hai fatto solo per me. Quel tizio ha insultato tua madre e tu hai reagito come se..» tentai di finire il discorso, ma lui scosse la testa, bloccando il flusso delle parole. Avevo parlato troppo, senza permesso.

L'istante dopo, tornò a guardarmi da sotto le ciglia lunghe. Mi si gelò il sangue quando vidi due pupille dense e profonde, nere come fuliggine. Le sclere macchiate da sottilissimi fili rosso fuoco. Non c'era più traccia delle sue iridi smeraldine.

«Ti ho salvato da una situazione spiacevole. Non puoi semplicemente ringraziarmi e dimenticare tutto?» mi redarguì truce. Lo guardai sconvolta, scuotendo la testa in segno di diniego. Lui si voltò, inspirando profondamente e mi lasciò lì. Si incamminò verso il parcheggio con nonchalance.

Se ne stava andando via, di nuovo, come se avessimo fatto due chiacchiere davanti a un caffè. Capii che urlargli contro quanto fosse stato imprudente il suo modo di agire non mi avrebbe condotto da nessun parte. Tentai allora la strada più difficile, costellata di assoluta comprensione, intrisa di profonda pazienza. Così dissi all'improvviso: «Grazie!» la mia voce sferzò il silenzio che ci avvolgeva.

Lui si fermò nella penombra, voltato di schiena. Il mio piano sembrò funzionare. Mi scoccò un'occhiata furtiva che mi permise di concentrarmi sul suo profilo perfetto: il ventaglio di ciglia nere al di sotto delle quali mezzelune abissate mi osservavano attente, l'arco di Cupido pareva un bocciolo di rosa purpurea.

«Cosa?» assestò serio ed io tremai.

«Hai ragione. Avresti potuto fregartene, lasciandomi sola ad affrontare tutto, ma non l'hai fatto, mi hai difeso perciò...grazie» ammisi, osservandolo con timidezza mentre si voltava. Se non ci fosse stato lui...non volevo neppure pensarci. Dovevo essere indulgente, sorvolare al di sopra lo strato superficiale di freddezza minacciosa e intima arroganza, concedergli la mia totale gratitudine e mostrarmi riconoscente. Era il minimo che potessi fare.

Cole mosse un passo avanti torreggiando su di me con la sua figura. Sembrava il diavolo incarnato, ma aveva occhi troppo belli per provare paura.

«Così va meglio...figurati» replicò sottovoce. Sollevai il mento facendogli cenno. Mi avvicinai impettita e mi fermai proprio davanti a lui per guardarlo un'ultima volta. Le sue iridi penetranti luccicarono nel buio, indugiando su di me. Sollevò un angolo delle labbra e accennò un lieve, quasi impercettibile, sorrisetto mordace. Nonostante ciò, lo ignorai. Lo superai mostrando indifferenza. Nella mia testa questo significava rispettare gli spazi e sperai fino in fondo che lui avesse capito. Infine, mi diressi verso l'auto.

Sentii i suoi passi risuonare come rintocchi di tenebra dietro di me. Tuttavia, non mi voltai, continuai a camminare imperterrita e così proseguimmo insieme verso il parcheggio. Durante il tragitto nessuno dei due proferì parola. L'attimo silente che avviluppava le nostre anime, era una lama affilata che puntellava la quiete notturna. Al mondo poteva sembrare fossimo due perfetti sconosciuti, vagabondi, sperduti, due che non avevano niente a che vedere l'uno con l'altro. In verità, i nostri respiri intrecciati e la sincronia dei nostri piedi pesanti, esplicitava un legame incrinato già dal principio.

Mi mossi lenta, spavalda, sicura come una pantera, anche se nel petto germogliava l'insicurezza di un minuscolo topolino. A farmi sentire così era la consapevolezza di essere guardata. O meglio, l'idea che forse qualcuno mi stesse guardando il fondoschiena. Non ebbi la certezza ma percepivo i suoi occhi da rapace lungo tutta la schiena, e mi parve indugiare in un punto preciso e non fu difficile per me intuire quale fosse. Il pensiero mi provocò una slavina di brividi sotto pelle.

Basta.

Dovevo fare qualcosa, la situazione era divenuta insopportabile. Racimolai un po' del mio coraggio e con tono risoluto domandai: «Mi stai seguendo per caso?»

«Stiamo andando nella stessa direzione» mi redarguì.

«Sì, certo dicono sempre così..»

«Chi?» chiese volitivo.

«Gli stalker» rivelai e percepii una sua risata echeggiare debole. Stava tentando di trattenersi dal ridere.

Quando finalmente mi trovai di fronte il posto dove mi ricordavo aver parcheggiato, per poco la mandibola non mi cadde a terra.

«Non ci voglio credere..» sussurrai, senza energie. Quando vidi due macchine posteggiate esattamente davanti e dietro la mia, bloccandone il passaggio, persi la ragione. Sbuffai in modo pesante, scompigliandomi i capelli. Cominciai a muovermi su e giù per la strada, masticando improperi e pesanti insulti a chiunque fosse stato così stupido da commettere un tale gesto. Diedi un'occhiata in giro, spostando lo sguardo verso il parcheggio. Era buio, deserto e illuminato solo da alcuni lampioni che irradiavano una luce fioca. Allungai il mento verso l'alto, mettendomi in punta di piedi, osservando ancora, sperando in silenzio di scorgere all'improvviso la sagoma dei proprietari delle rispettive vetture. Mio malgrado, non vidi assolutamente nulla. Il destino mi stava remando contro quella sera e io stavo per avere una crisi di nervi di dimensioni galattiche.

«Oggi non ne va una giusta...» brontolai scocciata; nel frattempo Cole mi affiancò e si mise a guardare afflitto la situazione. Si lasciò sfuggire persino un sospiro profondo. Lo guardai, esasperata quanto lui.

«Presumo che tu non possa andartene, almeno fino a quando i due idioti che hanno parcheggiato, smaltiscano tutto l'alcol che hanno ingurgitato questa notte...» mi disse «Vuoi aspettare qui?» aggiunse.

«Ho alternative?» balbettai, nel tentativo assurdo di mantenere i nervi saldi. Lui scosse la testa, piegandola verso il basso.

«Vuoi un passaggio verso casa?» propose gentile mentre mi guardava intensamente. Ero sospettosa e sorpresa insieme, il suo invito trasudava gentilezza e compassione da tutti i pori. Eppure, c'era qualcosa in quella frase che non mi convinceva...O forse c'era qualcosa in lui che non mi convinceva per niente.

Perché d'un tratto era diventato benevolo nei miei confronti?

Mi aggrappai con artigli d'aquila a dei miseri secondi, graffiai il tempo per capire cosa fare, che direzione prendere. Ma quando incrociai i suoi occhi, balbettai come una sciocca, preda del mio nervosismo. Vidi riflessa una luce diversa, non erano più spenti e nefasti come poc'anzi. Nelle sclere chiare era tornata a brillare la bellezza di un bosco di conifere. Ora il suo animo pareva tranquillo, ed era perfettamente a suo agio in quel costume di glaciale indifferenza.

«Hai paura di me?» mormorò.

La sua voce profonda e cupa spezzò il mio respiro in due, facendomi traballare.

Scossi con prontezza la testa. Diamine. No.

Non avevo paura di lui, semplicemente non mi fidavo di lui. Ed era più che lecito, considerando che lo conoscevo a malapena e avevo appurato fin troppo presto quanto il suo temperamento fosse completamente governato dalla luna. Era un ragazzo scostante, ambiguo, contraddittorio. Vestito di malinconia nera e circondato da un'aura ipnotica, con quell'espressione del viso perennemente adombrata, mi incuteva una certa inquietudine, ma non paura. Qualcosa, dentro di me, sussurrava suggerendomi che, forse, quei dettagli camuffavano il suo vero essere. Nonostante avesse dimostrato fin dove arrivasse la sua crudele natura, l'intima ragione della sua esistenza che tentava di sottrarre alla luce, non riuscivo comunque a provare timore.

Averlo vicino mi faceva sentire strana, disorientata, intimorita, ma inspiegabilmente...riusciva anche a trasmettermi sicurezza. Avevo la sensazione che al suo fianco, niente di brutto, triste, malvagio mi sarebbe più accaduto. Ed era una sensazione maledettamente strana da provare con uno che conoscevo appena. Ciononostante, non avrei comunque accettato un suo passaggio.

Le ragioni del mio diniego erano ben altre.

«Certo che no, non voglio lasciare la macchina incustodita...» replicai decisa e mentii con la stessa credibilità stampata in faccia di una bambina di sei anni con la bocca sporca di cioccolata.

«Tornerai a prenderla domani» disse, poi con un cenno del mento mi invitò a seguirlo, ma non lo feci. Rimasi ferma con i piedi ben piantati a terra.

«Ho detto che aspetto qui» insistei e Cole mi guardò sbigottito. Rubò un lunghissimo respiro, socchiudendo le palpebre e strizzando il naso tra pollice e indice. Spazientito, si scompigliò persino il ciuffo castano. La mia testardaggine sembrava innescare in lui una combinazione letale di bile, sdegno e commiserazione. Come biasimarlo. A volte facevo innervosire persino me stessa.

«Se credi ti lascerò sola in un parcheggio deserto, a quest'ora della notte, sei completamente fuori di testa. Quindi, muovi il culo e smettila di fare i capricci» mi rimproverò e sussultai per il timbro aggressivo. I suoi continui sbalzi d'umore erano davvero insopportabili, oltre che assurdi. Quel ragazzo si trasformava come un camaleonte. Passava da momenti intrisi di trasparente e sgarbata indifferenza ad attimi fuggenti di gentile benevolenza. Cambiava identità con una tale maestria da farmi venire il dubbio che non fosse veramente uno squilibrato.

Un secondo prima era un lupo: vorace, famelico, violento, si nutriva di avanzi di carne avariata e livore nero. L'istante dopo diveniva un tenero agnellino: docile, innocente, ingenuo, cresciuto tra boccioli di rose e fiori dischiusi nella rugiada primaverile.

Come faceva a passare da uno stato all'altro senza impressionarsi lui stesso?

Mi faceva venire il mal di testa e contemporaneamente azionava in me una miccia esplosiva di rabbia.

«Non dirmi cosa devo fare, cazzo!» gridai furiosa e gli puntai contro l'indice. Dovetti sembrargli un pulcino arrabbiato con il guscio ancora attaccato al didietro, perché lui inarcò un sopracciglio, per niente intimorito.

«Cammina» ordinò ancora, imponendosi su di me un'ultima volta prima di voltarsi.

«No!» brontolai infastidita da dietro le sue spalle.

«Ma che diavolo ti prende?» domandò lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Le sue ciglia folte erano aggrottate in un piglio di contrarietà. Era ormai visibilmente e indubbiamente irritato.

«Sei arrogante e prepotente. Non ti sopporto. So badare a me stessa, non ho bisogno del tuo aiuto»

«Ah, sì? Devo forse ricordarti che non meno di un'ora fa ti ho salvata da una tentata aggressione?» mi rimbeccò e il mio sguardo cadde proprio sulle sue labbra carnose, arricciate verso l'alto, in una tipica smorfia da stronzo.

Cavolo. Erano decisamente illegali.

Ma che mi salta in mente? Joy. Trattieniti, per amore del cielo.

«Vaffanculo» dissi ferita e mi allontanai tornando indietro. Camminai inferocita verso la festa.

«Dove stai andando?» domandò alla mia schiena, ma non mi voltai, continuai a muovermi.

«A cercare i proprietari delle auto» risposi, scostando i capelli indietro con una mossa audace.

«Joy» mi chiamò con tono annichilito, come se mi conoscesse da una vita.

Eccolo qui, il lupo travestito da agnello.

Decisi di ignorarlo.

«Fermati» ritentò.

«Fammi un favore, tornatene da dove sei venuto...»

Fu un attimo.

Annebbiata da un odio cieco che mi ribolliva dentro, non vidi una piccola buca a pochi metri di distanza da me ed inciampai. Il piede si piegò, provocandomi una lieve ma dolorosissima storta. Mi sdraiai a terra pigolando e brontolando esasperata.

Gesù. Ero proprio scoordinata, oltre che impacciata. Un elefante imprigionato nella casa degli specchi.

Nel frattempo, Cole mi raggiunse, si abbassò sulle ginocchia e mi afferrò il piede dolente, esaminando la gravità della situazione.

«Ti sei slogata la caviglia, non puoi camminare così...» gli scoccai uno sguardo e la sua mano si strinse attorno al mio piede, facendomi sussultare.

Ero sicura l'avesse fatto apposta.

Lo toccò, ancora, massaggiandolo e mi morsi la lingua per il dolore, socchiudendo gli occhi. Li riaprii l'attimo dopo e scorsi quanto mi fosse vicino.

Il petto ampio e poderoso a pochi centimetri dal mio viso irradiava un profumo irresistibile, intenso e avvolgente come la nebbia novembrina. Il suo respiro caldo soffiava via ciocche dei miei capelli scombinati, facendo salire la mia temperatura corporea a livelli febbrili. Così voltai il viso, tentando disperatamente di non incrociare le sue pupille di bosco e mi allontanai quel tanto che bastava per permettere al mio cuore di calmarsi e soprattutto incamerare ossigeno.

Il modo in cui mi accarezzava e la voce penetrante con cui mi rimproverava, mi avevano riempito lo stomaco di sensazioni strane. Emozioni roventi che non desideravo provare e che tentai a tutti i costi di soffocare sotto una valanga di ghiaccio.

«Ce la faccio, devo solo trovare la forza per rialzarmi» mi sollevai con orgoglio, stringendo i denti tanto da farmi male alle gengive. Feci qualche passo incerto, ma non mi persi d'animo. Zoppicai sotto il suo sguardo sorpreso, ma lo sforzo fu troppo grande da sostenere. Mi fermai per riprendere fiato.

«Sei così ostinata» disse con un pizzico di ironia, ma non lo degnai di risposta, tenni il viso puntato di lato, contrariata. La mia testardaggine doveva proprio divertirlo.

«Vieni qui» mi affiancò e mi afferrò il braccio, sollevandolo appena sopra le sue spalle. Non ebbi nemmeno il tempo di divincolarmi che lui mi strinse a sé, schiacciando il suo fianco contro il mio. Sbattei le palpebre, sbigottita. Tentai di dire qualcosa, ma le parole si attanagliarono in gola, avviluppate in una ragnatela di saliva.

Avevo terminato le forze per contrastarlo, perché ero sul punto di spezzarmi come una corda di violino pizzicata ripetutamente sempre sullo stesso maledetto punto. In quel momento, protetta dal calore intenso che il suo corpo emanava a contatto con il mio, non mi resi conto che stavamo proseguendo verso la sua macchina. Lo lasciai fare, mettendo a tacere ogni mia protesta. Avrei voluto liberarmi, allontanarmi da quel ragazzo che si era dimostrato sempre più contraddittorio, ma non avevo le energie. Mi sentivo esausta. Debole.

Passo dopo passo, guancia a guancia, camminammo insieme nell'oscurità siderale della notte, illuminati dalla luce di una grande luna. Mentre ascoltavo i battiti regolari del suo cuore che mi colpivano il costato, alcuni ricordi, tra i peggiori che avessi, riaffiorarono tutti assieme, esplodendomi in testa in un caos tremendo.

Ripensai a Lui.

E fu sufficiente l'immagine del suo viso a farmi tremare l'anima.

Ricordai la sua pelle nivea, morbida come seta e mi parve di sentirne la dolcezza sotto le dita. Le iridi blu, limpide come l'acqua cristallina di un paradiso terrestre. In cui la grandezza misteriosa dell'oceano si rifletteva attraverso colori intensi, disegnando mille sfumature celesti. Quei maledetti occhi. Ci ero annegata almeno un milione di volte ed ero morta affogata, altrettante. Erano velenosi, magnetici, capaci di ottenebrarti il cervello e stritolarti il cuore.

Il suo ricordo era vivido, doloroso come uno schiaffo sulla pelle e mi causò un sospiro strozzato, proveniente dal fondo dello stomaco. Tentai di non piangere e chiusi le palpebre con un mugolio di sottile dolore. Li riaprii subito dopo e colsi le iridi infuocate di Cole sul mio volto desolato; il suo sguardo addosso fu se possibile più straziante dello stupido pensiero che avevo rivolto, ancora una volta, al mio ex ragazzo.

Mi arrestai di colpo, dimenticandomi persino della storta. Non seppi neanch'io il perché.

Mi sentivo soffocare. L'ossigeno si era bloccato nella cassa toracica e mi mancava il fiato. Poggiai malamente il piede a terra, storcendo la caviglia ancora una volta. La fitta fu immediata e intensa, tanto che vacillai per qualche secondo rischiando di farmi davvero male. Sarei caduta a terra se la mano di Cole non mi avesse prontamente afferrata. Mi aggrappai alla sua felpa, stringendo forte il tessuto tra le dita nel disperato tentativo di tollerare l'intenso bruciore che si stava propagando lungo tutta la gamba.

Cristo, che male.

Ma non era niente, paragonata alla spada dalla punta aguzza che premeva costantemente sul cuore, senza perforarlo mai del tutto. Era più angosciante vivere con la consapevolezza di stare per morire? Oppure era più tragico vedersi strappare l'anima all'improvviso, senza neanche il tempo di pregare per essa.

«Che ti succede?» domandò.

«Non...non riesco a proseguire» balbettai sofferente «Temo sia rotta» aggiunsi con voce strozzata dal pianto. Mentii. Semplicemente, non volevo più camminare attaccata a lui. La sua vicinanza mi riportava alla memoria ricordi che non avrei più vissuto.

«Siamo quasi arrivati, su resisti un altro po'» mi invitò a proseguire, muovendo qualche passo.

«Non ci riesco, ahi, ahi fermo!» lo ammonì, stritolandogli il braccio, ma lui non si arrestò, continuò a camminare.

Razza di bastardo ostinato.

«È solo una storta, smettila di frignare o sarò costretto a tapparti la bocca» sospirò seccato «...Ma a modo mio!» commentò, questa volta più severo.

Se avessi avuto anche solo una minuscola briciola di forza, l'avrei preso a sberle in faccia. Cos'erano quei modi? Come si permetteva di parlarmi così?

«Lasciami, lasciami subito!» mi divincolai dalla sua presa, lo superai con un colpo di spalla che non lo scompose di mezzo centimetro e zoppicai lontano, come un cane ferito. Lui non sembrò d'accordo con la mia decisione. Mi sbarrò la strada e si fece più vicino, non curandosi del mio sguardo minaccioso. All'improvviso, mi prese in braccio come se fossi un uccellino con l'ala ferita e il mio cuore si impennò. Mi strinse a sé, stritolandomi contro il suo torace. Così era persino peggio.

«Mettimi giù» ordinai, ma la voce uscì debole, tradendomi. Lo capii dal ghigno divertito che comparì sulla sua bocca. Continuò a camminare, ignorandomi, neanche fossi una fastidiosa mosca. Raccolsi tutto il mio orgoglio, strappandolo dal profondo del petto e aggiunsi: «Subito, Cole, prima che mi arrabbi sul serio»

«Non mi fai paura, Usignolo» ribatté ed io arrossii per via di quello strano nomignolo.

«Giuro che mi metto ad urlare»

«Gli usignoli non urlano, deliziano la notte con il loro soave canto»

«Smettila di chiamarmi in quel modo» sbottai arrabbiata, mentre lui sorrideva compiaciuto.

«Perché dovrei? Ti si addice, somigli molto a quell'uccellino» aggiunse divertito, con timbro seducente «Sei piccola, fragile, indifesa e non la smetti mai di parlare» mi fece l'occhiolino e fu allora che persi ogni speranza e desistetti, permettendogli di sorreggermi.

«Se io sono un usignolo allora tu sei...sei...» brontolai intestardita «...Sei solo uno stupido tacchino» controbattei seria.

Lui dapprima aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere di gusto. Il suo petto vibrava forte, facendo tremare anche me. Emanava un odore così buono e travolgente da stordire persino la mia collera. Lo ammirai sforzarsi nel trattenere lacrime di felicità e fissai i minuscoli solchi che facevano capolino sulle sue guance ad ogni sincera risata, proprio lì, vicino gli angoli della bocca. I denti erano perfettamente dritti, color bianco perla. Dovetti ammettere che era ancora più bello quando sorrideva. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, tanto che persi perfino la cognizione del tempo. Mi lasciai trasportare dalle sue braccia mentre lo fissavo da vicino. Leggera forse più di una piuma, fluttuante in un cielo d'angoscia.

«Siamo arrivati» pronunciò davanti alla sua auto, un grosso fuoristrada di colore nero. Sorrise prima di sorprendermi a guardargli le labbra piene e sporgenti con occhi incantati. Evitai il suo sguardo, abbassai il mento sul seno. Ero troppo imbarazzata per fronteggiarlo e lui dovette notarlo, perché sghignazzò beffardo.

Stronzo.

Cercai di muovermi, per scendere dalle sue braccia, ma me lo impedì, serrandomi contro il suo torace. Di nuovo.

«Non avere fretta, ti ricordo che non puoi camminare!» mi sbeffeggiò ed io sbuffai. Mi sorresse con una mano sola, mentre con l'altra afferrò la chiave, sbloccò la sicura e aprì la portiera, compiendo ogni singolo gesto con una calma magnetica. Mi circondò il busto con un braccio e mi adagiò sul sedile con estrema delicatezza, facendo attenzione alla caviglia dolente. Prese la cintura e l'allacciò davanti a me, assicurandosi tramite uno strattone fosse ben inserita.

«Ecco fatto...» disse, rimanendo sospeso sopra di me. Cercai di acciuffare un respiro, sollevai il volto e lo trovai vicino, troppo vicino, talmente tanto da poter osservare ogni singolo smeraldo incastonato nei suoi occhi. Le sue braccia erano arenate ai lati del mio corpo, le spalle aperte mi ingabbiavano e la bocca rosea troppo pronunciata per non essere guardata, era ad un soffio dal mio naso. Indubbiamente rosso.

D'istinto, senza ragionare, umettai le labbra con la punta della lingua. Non capii il perché ma il mio corpo stava cercando di flirtare con lui, fregandosene delle volontà testamentarie dettate dalla mia coscienza.

Ad ogni modo, tentai di porre rimedio al gesto avventato e scostai una ciocca dei capelli nel disperato tentativo di mascherare il disagio che correva sotto la pelle. Anzi, fin dentro le ossa, tra frammenti spezzati e organi maciullati.
Era impressionante quanto la sua vicinanza innescasse in me il bisogno impellente di nascondermi, sparire e tornare ad essere invisibile per il mondo, così come lo ero stata fino ad allora.
Se non si fosse allontanato subito dal mio corpo, avrei temuto seriamente per la salute delle mie coronarie.
Tuttavia, lui non mosse un muscolo, mi rimase vicino, ad un palmo dal naso, mentre continuava a sorridermi lascivio come il peggiore tra i demoni infernali.

«Non serve a niente coprirti. Sei troppo bella per passare inosservata ai miei occhi» sussurrò soffiando via un gemito. Quel refolo sottile baciò il mio arco di Cupido e il cuore fece una capriola.

Sollevai il petto in maniera cadenzata, tentando disperatamente di domare il respiro imbizzarrito che sbatteva contro la cassa toracica. Ma niente sembrava tranquillizzarmi...
Non era comune per me ricevere dei complimenti. Nella maggior parte dei casi neanche ci credevo, ma riuscivano comunque a mettermi in imbarazzo. Soprattutto se questi provenivano dalla bocca di un ragazzo così, la cui voce melliflua stillava miele al sapore d'arsenico. La cui dolcezza insinuante e forse ingannevole mi obnubilava la mente, offuscando persino i pilastri portanti su cui avevo costruito la mia coscienziosa ragione: fermezza, coraggio, tenacia.

Mi faceva sentire stordita, scombussolata, aggrappata a dei fili sospesi. Insomma, era come se avessi appena fatto un giro sulle montagne russe e avessi rischiato di fare un balzo enorme nel vuoto. Ad occhi chiusi. All'indietro.

Non sapevo più cosa dire, cosa fare. Avrei dovuto allontanarlo subito, respingere le sue attenzioni e scendere da quella maledetta auto. Capii troppo tardi che non avrei mai dovuto accettare il suo invito, avrei fatto meglio a restarmene sul sedile della mia macchina bloccata, o in qualsiasi altro posto, purché fosse distante eoni di tempo da lui.

Allora per quale assurda ragione il corpo rimase comunque lì?

Non seppi neanch'io il perché. Il cervello si era spento del tutto. Probabilmente il mio raziocinio si era preso una pausa da me e si stava allegramente ubriacando assieme ad una cara vecchia amica, l'unica e sola, gloriosa dignità.

Una tipa carismatica, avvincente che sapeva il fatto suo. Purtroppo, però, non ho mai avuto il piacere di conoscerla.

«Stai cercando di sedurmi?» domandai titubante. Non ci credevo neanche io.

«Può darsi» disse, mentre una scintilla di desiderio gli attraversò le iridi. Scossi la testa per dissipare i pensieri e mi schiarii la voce per riappropriarmi della lucidità per fronteggiarlo.

«Sei sicuro di non soffrire di un disturbo della personalità? Sei alquanto contraddittorio» chiesi ancora, deglutendo a fatica.

«Perché?» domandò incuriosito. Sussultai quando avvertii il timbro basso e profondo della sua voce vibrarmi sul collo.

«I tuoi sbalzi d'umore... fanno girare la testa. Prima mi urli contro, poi sei così gentile da aiutarmi, e adesso ci provi pure, nonostante l'indifferenza sfrontata che hai mostrato verso di me ogni volta che ci siamo scontrati» dissi mordendomi il labbro inferiore, sul quale, mio malgrado, indugiò il suo sguardo.

«Forse sono un po' ubriaco, ma il fatto che io sia altamente instabile non toglie valore a ciò che ti ho appena detto»

«Cosa?»

«Che tu sia dannatamente bella, cazzo..» mormorò provocatorio ed io arrossii, di nuovo, diventando bordeaux.

Maledetta carnagione pallida.

Quelle parole sussurrate a fior di labbra riaccesero in me sensazioni che avevo imparato a controllare: curiosità, lussuria, desiderio. Ma a causa sua erano tornate ad esplodere come coriandoli colorati in aria.

Come sarebbe perdere il controllo?

Mi irrigidii, divenendo una statua di sale.

Chissà che sapore ha la seduzione?

Finiscila Joy.

Chissà Lui, come bacia...

«Smettila» lo pregai con una decisione che in realtà non provavo, perché stavo lottando contro l'assurda follia che mi era per un istante balenata in testa: cedere alla tentazione e dimenticare per una sera il male che mi era stato inflitto. Tuttavia, mi riscossi subito dalle mie stupide considerazioni quando mi resi conto che non sarei mai riuscita a dimenticare l'indimenticabile. Inoltre, il pentimento che sarebbe nato dalle mie azioni, sarebbe stato impossibile da tollerare persino per me.

Fu proprio quella consapevolezza, troppo dolorosa da accettare, a farmi desistere nell'intenzione di stare al suo gioco e provocarlo.

Posai le mani sul suo sterno per allontanarlo, ponendo un'adeguata distanza tra noi, non solo fisica, ma soprattutto mentale e mi concentrai, riacquistando il controllo della situazione. Ma Cole colpì ancora, mentre i suoi occhi vagabondi intercettavano i miei, bisbigliò con la lingua velenosa una frase che arrivò a toccare spazi inesplorati della mia psiche, facendola vibrare come un groviglio stonato di corde vocali.

«Non esiste cosa più affascinante di una donna inconsapevole della sua bellezza»

Uno spostamento d'aria mi costrinse a socchiudere le palpebre. Le riaprii l'istante dopo e scoprii che lui aveva già richiuso lo sportello. Lo vidi oltre il parabrezza mentre faceva il giro della macchina. L'aprì ancora e si posizionò accanto a me, mettendosi comodo sul suo sedile.

«Ti accompagno a casa» mi assicurò con un lieve sussurro. Accese il motore e partì, non prima di avermi guardato, abbozzando un sorriso furbo, uno di quelli capaci di farti dubitare di te stessa.

Rimase in silenzio per tutto il tragitto e io lo osservai con la coda dell'occhio mentre guidava. Con una mano stringeva il volante, mentre l'altra era posizionata ben salda sul cambio. Notai le nocche ancora gonfie a causa dei colpi sferrati con tanta violenza, ma per fortuna il sangue aveva smesso di fuoriuscire. Era perso nei suoi pensieri, fluttuante nel suo mondo tenebroso che a me sarebbe rimasto sconosciuto. Il suo animo sembrava calmo, ma si mordicchiava l'angolo del labbro inferiore, screpolato e spesso scompigliava il suo ciuffo, incastrando ciocche castane tra le dita. Quei semplici gesti trasudavano una certa insicurezza, oltre che agitazione. Pareva stesse combattendo in silenzio contro qualcosa di potente, radicato nei meandri della sua mente. Avrei tanto voluto sapere cosa lo turbasse a tal punto. Tuttavia, decisi di seppellire il mio interesse e tentai di ignorarlo.

Colta da un'improvvisa sonnolenza, mi rannicchiai su un fianco, rivolgendogli le spalle. Poggiai la fronte sul vetro del finestrino e mi misi comoda sul sedile. Senza rendermene conto, scivolai in un sonno profondo, rilassata dal silenzio notturno, inebriata da un sogno lieve che non mi sarei mai ricordata.

***

Spazio Autrice.

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