5. Un usignolo ferito, riposa su un rovo di spine

La lezione di Genetica Animale pungolava costantemente le mie orecchie, ma non stavo assolutamente seguendo. Ero talmente immersa nei miei pensieri che non avevo compreso neanche una misera parola della illustre spiegazione del Professor Edwards.

Ero sempre stata una ragazza diligente, amante dello studio e curiosa di conoscere. Adoravo leggere e annotare tutto, ma quel giorno la mia mente era scollegata, disconnessa e totalmente assente.

Mi sentivo strana, spaesata e confusa. Da una parte, provavo un'immensa vergogna, a causa dello spiacevole inconveniente che... Gesù Santo, non volevo neanche ricordarlo. Dall'altra, però, ero inspiegabilmente nervosa e irascibile, tormentata da una sensazione sconosciuta che continuava ad agitarsi convulsamente dentro il mio stomaco e non accennava a lasciarmi in pace. Non riuscii a definirla, né tanto meno descriverla a parole, ma se avessi dovuto trovare un modo, avrei detto che era come una ferita aperta che bruciava ardentemente e pulsava di un dolore lancinante.

Non avevo mai provato nulla del genere. Era un emozione nuova, tanto travolgente quanto destabilizzante e mi stava, mio malgrado, dominando.

Mi portai una mano proprio all'altezza della bocca dello stomaco. Lì, dove si focalizzava il centro del mio turbamento e tentai disperatamente di distrarmi, orientando i miei pensieri altrove. Così guardai fissa al di là della finestra il cielo limpido e azzurro; gli uccelli che volavano maestosi in quella meravigliosa distesa infinita, mentre alcune nuvole bianche scorrazzavano solitarie.

Creature straordinarie.

Audaci, fiere e valorose.

Gli uccelli suscitavo in me, una profonda ammirazione. Con il naso all'insù, da sotto le ciglia, li guardavo incantata dispiegare le ali della libertà per volare verso posti sconosciuti, ai confini del mondo. Li consideravo un simbolo eterno di assoluta gentilezza; animali dotati di un grande coraggio, messaggeri di onore e rispetto, qualità che caratterizzavano pochi altri esseri viventi.

Non conoscono paure. Il vento di burrasca non li intimorisce. I grandi temporali estivi non li spaventano. Lacrime di pioggia o chicchi di grandine celeste non sono sufficienti a impedirgli di volare perché il richiamo dell'aria è più forte di tutto. Il bisogno di sentirsi liberi oltrepassa ogni incertezza. 

Per chi vive in gabbia come me, costretta nello spazio misero e angusto della propria mente, tormentata dai ricordi del passato...è una gioia per gli occhi vederli volare alla ricerca di sogni, è una delizia per le orecchie ascoltare il loro canto soave e melodioso, infine, è una meraviglia per l'anima ammirarli raggiungere obiettivi, impossibili per chiunque altro.

Sentii il suono del mio orologio.

Scossi la testa e sbattei le palpebre, in momentanea confusione. Abbassai lo sguardo verso il polso e vidi che erano le 12:00 in punto.

Erano trascorse esattamente due ore dall'inizio della lezione e il Professor Edwards non accennava a smettere di parlare. Sembrava una piccola radio impazzita che ripeteva a perdi fiato una moltitudine imponente e tumultuosa di frasi, senza sosta e senza alcun tipo di interruzione.

Sbuffai, farfugliando qualcosa di incomprensibile. Sarei voluta tornare a casa subito, ma il tempo non era dalla mia parte. I minuti, purtroppo, scorrevano lenti e l'ora in cui sarei stata finalmente libera, era troppo lontana per poterla carezzare con il pensiero.

«L'RNA viene naturalmente utilizzato come primer...»

La voce squillante del docente era peggio di un tarlo dentro l'orecchio. Era talmente preso dalla sua assurda spiegazione da non essersi reso conto di aver perso l'attenzione di tutti gli studenti presenti.

O forse sì.  Ma non gliene importava comunque un accidenti.

In un folle attimo, mi passò per la mente il pensiero di dedicarmi seriamente alla lezione, e seguire il noioso monologo che aveva inscenato. Ero convinta che se fossi rimasta concentrata fino alla fine, il tempo sarebbe trascorso più veloce.  Così mi sforzai di ascoltare, impegnandomi ad annotare qualche appunto.

Stavo scrivendo scrupolosamente ogni parola che fuoriusciva dalle labbra del docente, quando, all'improvviso...

Venni spinta di lato.

Persi la presa sulla penna e la mano strisciò sgraziata sulla carta ruvida, lasciando dietro di sé uno sbaffo d'inchiostro nero.

Fissai incredula quella linea sottile e sinuosa che si estendeva fino al centro della pagina, rimasi a bocca aperta quando constatai che questa ricopriva gran parte degli appunti che avevo scritto.

«Scusami...»

Non fu necessario sollevare gli occhi per capire chi fosse stato a parlare.

L'aveva fatto apposta, ne ero certa. 
Non mi voltai, decisi di ignorarlo totalmente. Strappai il foglio con violenza e senza degnarlo di una risposta, cominciai a riscrivere tutto da capo. Il mio fu un gesto drastico, ma necessario. Odiavo le sbavature d'inchiostro, tanto quanto gli errori grammaticali. Pretendevo che i miei appunti fossero sempre in ordine, puliti e perfetti.

La mia è una vera e propria ossessione, una dipendenza folle che mi obbliga a riscrivere pagine su pagine se queste, per errore, presentano macchie o sbaffi di qualunque genere.

Era insensato, ne ero pienamente consapevole, ma non potevo farne a meno.

«Pensi l'abbia fatto di proposito?» tentò ancora, la voce rauca e profonda che grondava lenta dalle labbra.

«No, perché avresti dovuto?» risposi malevola, stringendo i pugni. Quella mossa spontanea, però, non sfuggì al suo controllo.

«Ok, lo credi sul serio...» replicò, roteando gli occhi al cielo «Non hai idea quanto tu stia sbagliando...» continuò deciso.

«Non mi interessa» borbottai seria. Afferrai di scatto la pagina ormai rovinata e l'accartocciai su stessa, immaginando di stritolare tra le dita qualcos'altro. Presi la penna e cominciai a scrivere una nuova pagina. Rimasi immobile, con lo sguardo rivolto verso il quaderno, nascosta da lunghe ciocche dei miei capelli. Ciononostante, sentii la guancia sinistra prendermi fuoco. I suoi bellissimi occhi erano ancora su di me; mi stavano fissando intensamente. Non capii per quale motivo lo stesse facendo, ma ebbi come l'impressione che si stesse sforzando di comprendere i miei strani e, indubbiamente, ambigui atteggiamenti.

Seguii un lungo momento di silenzio.

«Hai preso molti appunti...» la sua voce profonda e baritonale tornò a punzecchiarmi le orecchie. Mi voltai, fulminandolo e lo vidi sporgersi avanti, intenzionato a sbirciare indisturbato le pagine del mio quaderno, meticolosamente scritte. Non risposi, volutamente.

«Scrivi anche bene...per essere mancina» disse imperterrito, facendomi l'occhiolino.

Non cadere nel suo tranello, Joy. Pensai tra me e me. Mi sforzai, ancora, di non fiatare.

«È una mia impressione...o mi stai volutamente ignorando?» chiese lui, con un tono derisorio.

Non rispondere, non rispondere, continua ad ignorarlo. Mi ripetei mentalmente.

«Ehi...?»

Basta.

«A che gioco stai giocando?» chiesi sprezzante, impedendogli di proseguire.

«Che intendi?» domandò, sbattendo le palpebre con aria confusa.

«Non mi hai mai rivolto parola, tranne per zittirmi o minacciarmi...» lo rimbeccai acida «Perché, all'improvviso, cerchi di instaurare un discorso con me?»

«Questo cosa c'entra?» mi provocò, inclinando il volto.

«C'entra, quindi rispondi alla mia domanda! Perché-mi-stai-parlando?» specificai con tono fermo e deciso, il mento alto e in fuori, gli occhi socchiusi per il nervoso.

«Sinceramente, non lo so...»

«Non lo sai?» lo rimbeccai, sempre più fredda.

«No... cioè sì, boh...forse per noia...» rispose vago, toccandosi colpevole la nuca.

Sospirai, tenendo a bada l'istinto di colpirlo in faccia con il tomo di Genetica Animale.

No, sì, boh?

Ma che razza di risposte erano?

Ah! Al diavolo stavo solo perdendo tempo.

Sollevai le mani in segno di resa e gli rivolsi un'occhiata fugace che trasmetteva tutta la mia angoscia. Decretai che era totalmente inutile e improduttivo tentare di capirlo, così desistei nelle mie intenzioni e mi raddrizzai sulla sedia. Lo ignorai, ancora una volta, e tornai concentrata sulla lezione.

«Perché hai strappato il foglio?» la sua domanda mi colse di sorpresa, tanto che sussultai. Un respiro strozzato mi graffiò la gola. Mi stava infastidendo come mai nessuno prima d'ora, e glielo comunicai con uno sguardo minaccioso, ma a lui non importò un fico secco.

«Cosa faccio o perché lo faccio non è cosa che ti riguarda» dichiarai sprezzante, poi mi voltai, dandogli finalmente le spalle, e costrinsi le mie orecchie a non ascoltare più una singola parola che provenisse dalla sua bocca larga. Ma non ebbi neanche il tempo di apprezzare nuovamente il silenzio che lui tornò alla carica. Iniziò a parlare a vanvera. Di nuovo.

«Ok, va bene...» commentò «Se non vuoi dirmelo, tirerò a indovinare...» ammise, sorridendo sfacciato. Sospirai scocciata e rivolsi gli occhi al cielo. Strinsi la presa sulla penna per attenuare la tensione che cresceva a dismisura. Le nocche sbiancarono di conseguenza.

«Mmh...vediamo...forse hai delle aspettative talmente alte verso te stessa che non riesci ad accettare e tollerare alcun tipo di errore nel tuo lavoro...?» mi voltai lentamente, fissandolo incredula.

«...Ogni cosa, dalla più importante alla più insignificante deve essere eccellente, impeccabile» la bocca per poco non mi cadde a terra.

«Persino i dettagli più irrilevanti devono essere precisi, puliti e perfetti... non è così?»

Aveva fatto centro, in un modo talmente preciso che sembrava avesse preso la mira. Mi schiarii la gola e cercai di rivolgere lo sguardo altrove. Quei dannati occhi mi adombravano il cervello ed io non potevo permettermi di sbagliare. Non dovevo, in alcun modo, cedere alle sue continue istigazioni.

«Sei sempre così perspicace?» chiesi, mostrando una sicurezza che, in verità, non mi apparteneva neanche lontanamente. Passai una mano prima sul viso, poi tra i capelli scombinati.

Mi aveva letto nel pensiero in un modo così semplice da risultare persino inquietante. Non riuscivo a spiegarmi come ci fosse riuscito.

«A volte...» mormorò sottovoce «Tu sei sempre così insicura?»

«Come, scusa?» risposi dura, con rimprovero. La voce carica di frustrazione.  Lui incarcò le sopracciglia scure, osservandomi sorpreso. Non si aspettava questa mia reazione.

«Di solito, chi ricerca costantemente la perfezione nasconde dentro di sé una profonda e radicata insicurezza...» sussurrò mentre con le dita si accarezzava il labbro inferiore. Guardai l'indice muoversi sulla bocca carnosa, e avvertii uno strano calore propagarsi al centro dello stomaco. Mi sembrò come se qualcuno mi stesse solleticando le viscere con una piuma. Era insopportabile, ma piacevole al tempo stesso. Senza neppure rendermene conto, quella strana emozione mi fece arrossire violentemente. 

«Beh, ti, ti sbagli! Non è il mio caso» balbettai, respirando a fatica. Ero affranta e turbata dalle risposte inaspettate del mio corpo verso il suo modo malizioso di parlarmi. Il suo atteggiamento mi metteva mentalmente in imbarazzo. Mi faceva sentire vulnerabile, esposta e terribilmente a disagio.

Lui inclinò il viso di lato e un risolino strozzato fuoriuscì dalle sue labbra «Se lo dici tu...» disse ancora «...Invece, io penso che...»

Ma scossi la testa angosciata e bloccai il flusso delle sue parole.

«Non hai niente di meglio da fare?» sbottai con fermezza.

«Sto solo cercando di capirti...» ammise furbo.

«Perché?» alzai la voce.

«Semplice curiosità...»

«Curiosità...» ripetei scocciata, poi, mi voltai con impeto e ribattei ancora, chiedendogli: «...Che fine ha fatto la regola del silenzio? Sbaglio o dovevamo rimanere zitti, entrambi?»

Stavo disperatamente cercando un appiglio per salvarmi, una valida scusa per far cessare, seduta stante, la nostra indecifrabile discussione. Pregai capisse finalmente le mie intenzioni.

«È una condizione che ho dettato io stesso, posso infrangerla, se voglio» sollevò gli occhi alla ricerca dei miei «...E posso decidere se e quando gli altri siano obbligati a rispettarla...» disse la sua lingua biforcuta, tagliente come il vetro.

«Che assurdità...» scoppiai, aggrottando la fronte «Comunque, non mi interessano le tue stupide regole» gli feci presente, categorica, ma la mia fasulla determinazione lo fece sghignazzare di gusto.

Ero così poco credibile?

Notai che un sorriso lieve risplendeva sulle sue labbra mentre due tenere fossette spuntavano curiose al centro delle guance, donando al suo viso una naturalezza innocente, quasi infantile.

«Sei proprio un peperino, lo sai?» sussurrò, incastrando la lingua tra i denti brillanti.

Un fremito mi colpì il basso ventre.

«Smettila di parlare» lo supplicai.

«Ricordami il tuo nome...» sussurrò suadente.

«No»

«Perché, no?» chiese sorpreso.

«Perché mi sono pentita l'istante dopo avertelo detto, quindi non persevererò nell'errore di farlo ancora» ribattei con decisione, quasi in segno di sfida.

«Sai, il tuo diniego non fa che accrescere la mia curiosità»

«È un tuo problema»

«Come ti chiami?» mi chiese, stavolta gentilmente.

«È inutile che insisti, tanto non te lo dico...» mi intestardii più del dovuto.

«Allora lo scoprirò da solo...» lui mi guardò, incrociando le braccia al petto.

«Fa pure, ma ti avverto...sarà piuttosto difficile» replicai imperturbabile.

Non avevo mai incontrato un ragazzo tanto difficile prima di allora. Era complicato, contraddittorio, e i suoi comportamenti erano impossibili da decifrare. Nonostante impiegassi tutte le mie forze per decrittare i suoi modi di fare, non riuscivo proprio a capirlo.

L'indifferenza non sortiva alcun effetto su di lui. La cruda e sfacciata sincerità non lo intimoriva, tutt'altro, sembrava divertirlo. Neppure tenergli testa era efficace, anzi, innescava una reazione ancora peggiore: la smania di vincere un duello ad armi pari. 

«Ne dubito, ho i miei metodi, anche se alternativi...» dichiarò con nonchalance. Sgranai gli occhi, ma non mi agitai più del dovuto, tanto che risposi: «Certo, come no...»

Lui e i suoi repentini cambi d'umore avrebbe fatto perdere la pazienza anche alla persona più indulgente e calma del mondo. Nonostante il forte mal di testa che la sua insolenza mi aveva procurato, mi fermai un istante a riflettere sulle sue parole e cominciai inspiegabilmente ad agitarmi...

«Aspetta, che intendi con "alternativi"?»

«Signorina? Laggiù in fondo»

Sentii la voce del Professore e mi bloccai.

All'improvviso, nessuno diceva più niente. Uno strano silenzio si era impadronito dell'aula. Persino il ragazzo al mio fianco si era immobilizzato e aveva finalmente smesso di parlare a sproposito. Sollevai gli occhi lentamente e sperai che si fosse sbagliato, ma quando vidi Edwards fissarmi capii che, purtroppo, si stava proprio rivolgendo a me...

«Io? ... » chiesi in un filo di voce. 

«Sì, mi dica il suo nome, cortesemente»

Sussultai, una vertigine mi morse il cuore. Voltai la testa a destra e sinistra, guardandomi attorno. Mi mancò il fiato quando notai che avevo tutti gli occhi puntati addosso.

«Joy, Joy Davis» balbettai.

«Signorina Davis, vuole rispondere lei alla mia domanda?»

Merda. Di cosa stava parlando?

«Non...non stavo ascoltando» ammisi.

«L'ho notato! Le conviene prestare attenzione, non vorrei trovarla impreparata all'esame...» mi redarguì ed io avvertii uno strattone allo stomaco.

«Mi scusi, non accadrà più...» dissi, l'insegnante mi lanciò un'occhiata rabbiosa prima di tornare alla sua lezione. Abbassai lo sguardo sul libro, sforzandomi di seguire la spiegazione che cominciava a sembrare più un suo monologo interiore. Ma niente, non riuscivo proprio a concentrarmi.

Le tempie pulsavano e le guance stavano prendendo fuoco per l'imbarazzo, ma le fiamme che avvertivo sulla pelle non erano niente a confronto della rabbia che mi ribolliva dentro, incontrollata. 

Ora tutti conoscevano il mio nome, anche l'essere spregevole che mi era...

«È stato più semplice del previsto...»

Strinsi la mandibola, fulmini di collera mi illuminarono lo sguardo. L'avrei preso a calci, se solo avessi potuto.

«Tu sei...sei davvero un bastardo» sbottai indignata, insultandolo. Era stato il suo piano sin dall'inizio, mettermi in difficoltà, umiliarmi, per poi, deridermi. Mi irritava da morire. Era la persona più arrogante, presuntuosa ed egocentrica che avessi mai conosciuto.

«Lo so, ma ne è valsa la pena» affermò con quel suo tono insolente. Averlo così vicino mi provocava l'improvviso desiderio di prenderlo a sberle in faccia «...Almeno ora conosco il tuo nome» continuò, facendomi l'occhiolino. Quel gesto ammiccante fu la fine di tutto. Il sangue mi arrivò dritto al cervello. Le mani cominciarono a tremarmi di uno strano formicolio.

«Joy...» disse piano mentre fissava il foglio accartocciato sul tavolo «È carino, dopotutto»

Stavo per scoppiare.

«Sh!» lo zittii «Fai silenzio o ci farai sbattere entrambi fuori dall'aula...»

«Non sarebbe male come idea...» mi provocò con un tono basso e suadente.

«Piantala»

«Cos'altro potrei fare? Mi sto annoiando» aggiunse, facendo spallucce.

«Gesù Santo...» brontolai. Lui incarcò un sopracciglio e mi guardò strano, in bilico tra lo stupore e il divertimento.

«Cole, puoi chiamarmi anche così se vuoi» disse, sghignazzando.

«Non te l'ho chiesto» lo sfidai.

«Ho pensato volessi saperlo» sorrise gentile, ed io rimasi a guardarlo interdetta per una manciata di secondi.

Come diavolo riusciva ad essere contemporaneamente insopportabile e sexy da morire?

«Ti sbagli» ribattei. Scossi la testa e tornai lucida, dandomi mentalmente dell'imbecille. Lui scoppiò a ridere per la mia reazione tardiva.

«Io non credo...» ripeté, scoccandomi un'occhiata sardonica.

«Non mi pare avertelo domandato finora, ergo...» risposi con sicurezza.

«Sono bravo a intuire i desideri delle donne, ergo non serviva chiedermelo per capire che volessi conoscerlo» mi sbeffeggiò ed io rimasi a bocca aperta. Sbattei le palpebre in preda alla confusione. Mi stava incasinando la testa e cosa peggiore, ero io a permetterglielo. Non seppi come, ma trovai la forza per contrastarlo, sperando di sortire con la mia domanda un certo timore.

«Che cosa ti ha fatto pensare che volessi sapere il tuo nome?» chiesi indispettita «Non ti ho rivolto neanche parola, sei stato tu a farlo»

«I tuoi occhi...»

Quella confessione fu come uno schiaffo in pieno viso. E faceva male. Faceva male parecchio.

«Come?» risposi fingendo di non capire, senza accorgermene, però, arrossii.

«...Parlano molto più di te» mormorò, senza distogliere lo sguardo dal mio, con un timbro incredibilmente basso e seducente. Mi rindirizzai sulla sedia, stringendomi nelle spalle. Chinai la testa imbarazzata, e cominciai a torturarmi le mani, maledicendo ancora una volta la mia sciocca debolezza. Inaspettatamente, però, provai a difendermi, sulla scia di un'emozione intensa che mi attraversò il petto. Immaginai si trattasse del mio amor proprio. Raccolsi dentro di me il coraggio necessario per dirgli quello che pensavo, lo sfidai e dissi: «Mi stai facendo perdere tempo. Inoltre, sono rimasta indietro con gli appunti, quindi...» stavamo duellando con gli occhi «...Smettila una volta per tutte di parlarmi e lasciami scrivere, per favore...»

Notai il suo sorriso arrogante affievolirsi in un istante. Aggrottò la fronte e mi guardò con circospezione. Rimase immobile, in silenzio, esattamente come gli avevo chiesto. Poi, mi lasciò in pace, dimenticandosi persino di avermi al suo fianco.

Mi ignorò per la restante parte del tempo, ed io non potei che esserne felice. 

Trascorse un'ora, ed io avevo speso tutte le mie forze a scrivere pagine e pagine di appunti, tanto che la mano iniziò a formicolarmi dal dolore. Era rossa e tremolante, faceva davvero male, così tentai di infondere un po' di sollievo alle dita, massaggiandole con delicatezza. Mentre premevo sui polpastrelli sofferenti, involontariamente il mio sguardo cadde proprio su Cole.

Lo guardai di sfuggita e non appena posai i miei occhi su di lui, sussultai. Emozioni contrastanti mi morsero lo stomaco. Da una parte, mi sorprese notare che lui non aveva smesso di osservarmi. Dall'altra, però, lo trovai strano e angosciante.

Perché si comportava così?

A peggiorare il mio umore, fu la consapevolezza di essere stata colta in fragrante a fissarlo, come un ragazzina invaghita del belloccio di turno. Ma quell'orribile sensazione sparii all'improvviso, perché qualcos'altro catturò tutta la mia attenzione. I suoi tratti morbidi e delicati erano adombrati da un'espressione seria. Qualcosa lo turbava, ma non mi era concesso sapere cosa. Sembrava...pensieroso, tormentato da un pensiero oscuro. Pareva addirittura afflitto e amareggiato.

I suoi occhi erano tristi, malinconici, persi.

Che cosa gli era accaduto?

Fu un attimo. In un impeto improvviso, il suo abbraccio si allungò verso di me. Lo incenerii d'istinto e mi bloccai, intimorita dalla sua presenza.

«Che...che stai facendo?» mormorai preoccupata. Lui afferrò svelto il foglio accartocciato rimasto sul tavolo e lo adagiò davanti a sé, poi, si guardò intorno in cerca di qualcosa. Quando individuò ciò che cercava si sporse ancora in avanti, azzerando definitivamente la distanza che ci divideva. Sbattei le palpebre, perplessa, ma quando vidi che aveva la mia penna stretta nel palmo, capii finalmente quali fossero le sue intenzioni. Per qualche assurda e insensata ragione, glielo lasciai fare, mossa da un'irrazionale curiosità.

Cole aprì il foglio e ci posò sopra la punta della penna. Iniziò a tracciare delle linee che piano piano assunsero le sembianze di un disegno. Inaspettatamente, mi avvicinai, dimenticandomi della lezione, delle mie insicurezze e delle paure che agitavano il mio animo. Restai ad ammirarlo incantata mentre la penna scivolava armoniosa tra le sue dita. In pochi secondi, lo sbaffo d'inchiostro divenne solo un ricordo lontano. Quando scorsi ciò che aveva rappresentato, non riuscii a credere ai miei occhi.

Al centro della carta stracciata, all'interno di un intricato spartito di parole, appariva in tutta la sua umile grazia un uccellino. Lo riconobbi subito. Il becco piccolo e appuntito, il corpicino sottile, la coda lunga e due biglie nere intense al posto degli occhi. L' aspetto leggiadro, delicato e incantevole poteva appartenere solo ad un essere vivente.

Era un usignolo. Cole l'aveva ritratto mentre riposava comodo su un tortuoso rovo di spine.

«Ma come, come hai fatto?» fu tutto ciò che riuscii a dire. Lui abbozzò un timido sorriso e si schiarì la voce. Notai le sue guance divenire di un altro colore, un rosa più vivace. Forse il mio implicito complimento l'aveva imbarazzato ed io ne fui soddisfatta. L'avevo messo a disagio, senza neanche volerlo. In fin dei conti, potei constatare che non era poi tanto sicuro di sé come voleva far credere. Era arrossito per così poco...

«È impressionante quanto una semplice linea, nata per sbaglio, possa dar vita, a sua volta, a qualcosa di grande e profondamente complesso» disse dolcemente, guardandomi con intensità «Non sempre un errore rimane tale, basta solamente trovare il modo giusto per valorizzarlo. Così non sarà più un fastidioso problema o un'irreparabile imprecisione, ma l'intima ragione di una imperfetta e straordinaria bellezza»

«Io non, non pensavo, cioè tu...tu disegni da Dio» balbettai sottovoce. Non sapevo dire se fosse la sua inaspettata dote artistica, o il suo sguardo penetrante a rendermi così impotente e stordita.  Ma poi, quando riflettei un secondo, capii che, in verità, non si trattava di nessuna delle due ragioni. Fu il significato profondo delle sue parole a sortire in me un effetto sconvolgente.

Erano tanto vere quanto destabilizzanti

«...Hai creato tutto questo da uno sbaffo d'inchiostro...? Come, come ci sei riuscito? Dimmelo, ti prego» gli domandai seria, continuando a fissare il disegno. Lo toccai, perfino, ammirando la precisione e la cura dei dettagli.

Ho sempre apprezzato chi, come me, ama disegnare con gli occhi e con la matita. L'arte mi ha permesso, sin da bambina, di connettermi con la mia natura più intima e segreta, la versione migliore di me, la versione migliore di qualcuno che vive nascosto dalla luce del sole.

Disegnare è rappresentazione, disegnare è espressione, disegnare è emozione. Chi disegna, apre un varco sul mondo, tra ciò che si è e ciò che si diventa. Tra ciò che si vede e ciò che si sente.

«Non dovevi scrivere i tuoi appunti, tu?» chiese sarcastico, con un tono flautato, poi sollevò gli occhi su di me e i nostri sguardi rimasero agganciati per un'infinità di tempo. In quello specchio d'acqua cristallina, vorticò un'emozione nuova, sconosciuta che non seppi decifrare, ma era intensa, così potente da farmi gelare il sangue. Non fiatai, solo perché il suo respiro mi stava sfiorando le guance mentre il suo profumo mi avvolgeva i sensi, stordendomi completamente.

D'un tratto, mille campanelli d'allarme mi risuonarono in testa. Averlo avuto vicino per tutto quel tempo, mi aveva incasinato: ero diventata contradditoria tanto quanto lui. Non potevo passare dall'essere scontrosa, arrabbiata, a sorpresa e meravigliata nel giro di poco tempo, tutto per un semplice ritratto.

Anche se...quel disegno era spettacolare. Ma ciò che provavo era del tutto insensato, illogico e incoerente.

Santo cielo. Poteva smetterla di guardarmi in quel modo?

Tentai di allontanarmi, stordita. Lui schiuse la bocca intenzionato a dirmi qualcosa, ma...

«La lezione è finita, ci vediamo giovedì ragazzi!»

Ci voltammo di scatto verso il Professore, attorno a noi tutti si alzarono in massa, scendendo dalle scale, dirigendosi verso l'uscita. Mi riscossi e notai uno strano imbarazzo riempire l'aria che ci divideva, così decisi di porre fine a quel momento e non persi neanche un secondo di più. Mi affrettai a sistemare la mia roba dentro la borsa: il quaderno, il libro e...la penna.

Respirai a malapena quando scorsi chi la stava tenendo tra le mani. Era proprio davanti a me, stretta tra le sue dita. Mi irrigidii seduta stante e rivolsi uno sguardo languido a Cole.

«Ci vediamo...» sussurrò soave «Joy...» disse il mio nome in un modo volutamente lascivo. Quel suono dolce mi accarezzò delicatamente, incastrandosi fin sotto la pelle. Poi, mi guardò malizioso un'ultima volta, si voltò con il suo zaino in spalla e se ne andò. Sprofondai nella vergogna quando capii che non mi aveva neanche concesso il tempo di ribattere.

Ero rimasta ferma, in silenzio. Confusa e turbata da tutto quello che era successo.


Tornai a casa dopo una lunga ed estenuante giornata.

Mi sentivo stanca, sfinita, prosciugata di ogni forza. Tutto ciò che desideravo era rinchiudermi nella mia stanza, sdraiarmi sul letto, chiudere gli occhi e dormire, dimenticandomi, per un istante, dell'insopportabile senso di inquietudine che mi sconquassava l'anima. Mi trattenni poco a conversare con i miei genitori, erano persino più esausti; il lavoro non gli concedeva un attimo di pace, così mi congedai in fretta.

Salii le scale, il lungo corridoio era avvolto dall'oscurità. C'era silenzio e da quel dettaglio intuii che i miei fratelli non c'erano, probabilmente erano usciti con i loro amici anche in quella occasione. Mi diressi svelta in camera mia e feci un bagno caldo sulle note di The Messanger dei Linkin Park. Indossai il mio amato pigiama e, finalmente, mi distesi prona sul letto. Purtroppo, però, ore dopo, ero ancora sveglia. Il mio cervello continuava a riprodurre in loop le immagini di tutto ciò che era accaduto in quella mattina. 

Cole, le cinture incastrate, il disegno.

Tamburellai nervosa le dita contro il materasso e mi guardai attorno, smarrita. Sbuffai e costrinsi i miei occhi a chiudersi, serrando le palpebre tra loro. Purtroppo, però, li riaprii l'istante dopo, senza neanche accorgermene. Mi voltai su un fianco, il mio preferito, e cominciai ad accarezzare il lembo della federa del cuscino. Mossi velocemente le dita sul cotone morbido e tentai di tranquillizzarmi, focalizzandomi sulla piacevole sensazione che quel gesto infantile mi trasmetteva. Quando mi sentivo tesa o di pessimo umore, quel movimento delle mani mi aiutava a calmarmi e rilassarmi. Acquietava le mie ansie e sopiva le mie paure. Inaspettatamente, però, in quel preciso momento, non sembrava funzionare.

Passai una mano tra i capelli, scombinandoli tutti in preda alla disperazione e cacciai via le coperte con forza. Balzai giù dal letto e cominciai a camminare, avanti e indietro, per tutta la stanza. Ad ogni mio passo la tensione cresceva, il respiro diventava sempre più affannoso. A peggiorare la situazione, fu un bruciore intenso che mi si propagò dallo stomaco fino alla gola.

Mi avvicinai al comodino, sopra il quale avevo adagiato il telefono. Rivolsi lo sguardo all'ora e notai che erano appena le undici di sera.

«Maledizione!» imprecai a bassa voce.

Decisi di scendere in cucina per mangiare e placare il forte gorgoglio del mio stomaco affamato, dato che non avevo cenato. Forse mettere qualcosa sotto i denti mi avrebbe tranquillizzato e indotta di conseguenza a un sonno ristoratore. D'un tratto, però, il mio cellulare vibrò; sobbalzai per il rumore improvviso.

Chi poteva essere a quest'ora?

Afferrai il telefono e notai che mi era arrivato un messaggio da parte di Bless. Un'espressione di stupore mi apparve sul viso quando lessi il contenuto.

Conosci una pizzeria che consegna d'asporto in tarda serata?...

Mi aveva contattato... a notte fonda... per chiedermi di consigliarle...una pizzeria?

Il pollice rimase sospeso a mezz'aria, indeciso sul da farsi. Per un secondo, pensai persino di ignorarlo. Poi, però, mossa da una profonda curiosità, premetti il dito sui tasti e iniziai a digitare la risposta. Le consigliai una pizzeria, poco distante da casa mia, dove mi recavo spesso, ogni qual volta desiderassi un buon trancio di pizza all'italiana. Il proprietario, Eddie, era un uomo sulla quarantina, gentile e premuroso, simpatico e di buona presenza. La folta chioma di lunghi capelli biondi, il suo sorriso sicuro e lungimirante erano il biglietto da visita perfetto. Le persone si recavano da lui non soltanto per l'ottimo cibo, ma anche per la piacevole compagnia che offriva.

La risposta non tardò ad arrivare. Mi ringraziò, inviandomi una sfilza di emoticon colorate, del tutto scollegate tra loro. Sorrisi in modo sincero di fronte all'arcobaleno che aveva preso vita sul display del mio cellulare. Bless era davvero buffa.

Scesi lentamente le scale attenta a non inciampare e svegliare nessuno. Mi incamminai verso il salotto, intenzionata a dirigermi in cucina, pronta a sgranocchiare qualcosa. Aprii il frigo e trafugai un vasetto di marmellata alle prugne, poi, presi l'occorrente per prepararmi un panino: pane in cassetta e burro d'arachidi. Spalmai un grosso quantitativo di uno e dell'altro, su entrambi i lati. Quando ormai il sandwich era pronto, lo piluccai vicino al lavandino mentre osservavo beata l'immensità oscura della notte, beneficiando del silenzio che regnava sovrano in casa. Mangiai con molta calma, assaporando ogni istante di quel momento in solitudine.

Dopo aver terminato, lavai il piatto e le posate, controllando che avessi lasciato tutto in ordine, mi incamminai verso la mia camera. Tuttavia, trasalii appena il suono acuto del campanello interruppe l'atmosfera tranquilla. Mi immobilizzai, mettendomi sull'attenti, perché ero praticamente sola, i miei genitori stavano dormendo. Tentennai qualche istante e riflettei sulla decisione di aprire o meno, domandandomi chi fosse a quell'ora tarda della notte. Il dubbio si insinuò dentro di me, facendomi precipitare addosso l'ansia e la confusione.

Il battito accelerò.

Brividi di freddo mi attraversarono.

Raccolsi tutto il coraggio che avevo e decisi di aprire, prima, però, lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, ma non riuscii a vedere nessuno. Cedetti alla tentazione e spalancai la porta.

Sgranai gli occhi quando mi ritrovai Bless e Trevor davanti. Rimasi qualche attimo perplessa, tanto che mi dimenticai di sbattere le palpebre, la bocca spalancata per lo stupore. Ero abbastanza sorpresa di vederli, soprattutto confusa...

Ma un secondo...

Come conoscevano il mio indirizzo di casa?!

«Che ci fate voi qui?» chiesi con tono severo, loro sorrisero complici.

«Siamo venuti a prenderti...» proruppe Bless, con un'espressione divertita sul viso.

«Cosa?!» guardai seria lei e poi lui.

«Preparati, dolcezza. Togliti dai piedi quelle orribili pantofole e indossa il tuo abito migliore. Usciremo insieme e andremo alla mega festa più bella e importante dell'anno...» disse Trevor, più euforico che mai.

In quel momento, riflettei sulla possibilità di chiudergli la porta in faccia. Nessuno, doveva permettersi di insultare le mie adorate pantofole.

«Scusami?!» lo rimbeccai con un cipiglio truce.

«La Notte dei Baci» commentò Bless, dando man forte al folle che aveva vicino.

«Quale parte della frase: "non verrò mai a quella stupida festa" non avete capito?» gli domandai sfacciata, senza riflettere:

«Hai due uniche possibilità: preferisci che Trevor ti carichi in spalla, come un sacco di patate, oppure, sali in macchina di tua spontanea volontà?»

«Siete completamente fuori di testa...io non vengo!»

«Ti concediamo tre secondi per decidere»

«Oh, santo cielo, come ve lo devo spiegare? Non mi piacciono le feste, c'è troppo chiasso, e...» ma Trevor mi interruppe perché cominciò a contare, lentamente: «1...2...»

«Aspettate...aspettate!» replicai, ma il fiato mi morì in gola.

«3...» ripeterono all'unisono, prima di balzarmi addosso. In un attimo, mi ritrovai a testa in giù, con le braccia a penzoloni e i capelli riversi sulla labbra.

***

Spazio Autrice

Mi scuso per avervi fatto aspettare troppo, ma spero che l'attesa verrà ripagata con le emozioni che questo capitolo riuscirà a trasmettervi.

Vi abbraccio forte, buona lettura piccoli Usignoli!

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