10. Il mio cielo sei tu

Cole

Era ancora buio fuori, ed io ero sveglio ormai da circa una ventina di minuti.

Non guardai neppure l'orologio, ma ero sicuro fosse davvero molto tardi. Purtroppo, però, non riuscivo a riprendere sonno. Nell'ultimo periodo dormire era diventato sempre più difficile, mentre quelle rare volte in cui mi addormentavo, svegliarsi era quasi impossibile. Me ne stavo ancora seduto sul bordo del letto, a fissare il vuoto. Le mani mi coprivano il viso, ingenuamente cercavo di nascondere la nostalgia che avevo cucita addosso, come la più realistica tra le maschere. I respiri intensi su cui si reggeva un'esistenza di sacrifici, risuonavano tutto intorno, dando vita ad una melodia stonata che avrei preferito non ascoltare più. La stanza non sembrava poi così tanto silenziosa come prima. Con la fatica sulle spalle che mi impediva di alzarmi, pensai a quello che avrei dovuto fare una volta in piedi.

Se c'era una cosa che mi uccideva letteralmente, questa era proprio la monotonia. Odiavo il susseguirsi di giornate tutte identiche tra loro, cristallizzate in abitudini difficili da scardinare, circoscritte a ritagli di libertà troppo miseri per goderseli fino in fondo. Ciononostante, ogni giorno che trascorreva era maledettamente uguale a quello prima, e non c'era mai niente di fresco, diverso, nuovo, da vivere. Era così da parecchio tempo ormai, ma dentro di me speravo non sarebbe stato così all'infinito, non oggi quantomeno. Perché il giorno che si apprestava a iniziare era troppo importante per essere dimenticato, accantonato in un angolo remoto della memoria come facevo con tutti gli altri.

Era il compleanno di mia sorella Aurora, il primo di una lunga serie, senza la Mamma.

Da quando se ne era andata, la mia vita oscillava sempre intorno agli stessi doveri; una routine difficile, frenetica, a tratti impossibile da sostenere, caratterizzata da grandi responsabilità, forse fin troppo per un ragazzo della mia età. Tentare di crescere una bambina di tredici anni senza il supporto o l'aiuto di nessuno, era qualcosa che mai mi sarei aspettato di dover fare. Pensavo spesso a quanto quello fosse un compito per genitori affidabili, ed era per questo che io non mi sentivo all'altezza delle aspettative.

Aurora era il senso della mia vita, senza di lei probabilmente avrei abbandonato questo mondo molto tempo fa. Era la ragione che mi teneva ancora in piedi, e significava tutto per me, ma ero perfettamente consapevole che io, invece, non sarei mai stato abbastanza per lei. Aveva bisogno di tanto altro nella sua esistenza per considerarla completamente piena. Aveva bisogno delle carezze delicate di una madre affettuosa, degli insegnamenti profondi di un padre saggio, orgoglioso di lei. L'amore di un fratello non sarebbe mai bastato per colmare quei vuoti giganteschi...ed io mi sentivo in colpa per questo.

Riflettevo molto sugli sbagli che ripetutamente facevo con lei, e mi domandavo quale di quegli stessi errori avrebbe prima o poi condizionato la sua adolescenza, finendo per compromettere persino il nostro rapporto, irrimediabilmente. Come quella volta che ero tornato ubriaco alle tre del mattino, incapace di reggermi sulle gambe, con la felpa sporca del mio stesso vomito. Mi ricordavo ancora la premurosità dei suoi gesti nell'aiutarmi a togliere i vestiti per poi infilarmi il pigiama. Ricordavo le parole d'amore che aveva utilizzato per convincermi a mettermi finalmente a letto, come una mamma farebbe con un figlio che faceva i capricci.

Era rimasta lì, al mio fianco, fino al mio risveglio. Mi ero vergognato così tanto di me stesso da sentirmi quasi patetico...tanto che non riuscii a guardarla negli occhi per giorni e giorni.

Forse in cuor mio, sbagliavo così tanto perché speravo proprio che fosse lei a mandarmi affanculo. Così non avrei avuto più rimpianti e rimorsi a logorarmi l'anima, e non avrei provato dolore. Forse era proprio così, cercavo semplicemente una scusa, una motivazione più che valida per mandare tutto a puttane e finalmente andarmene lontano, e rincominciare. Perché io da solo non ci sarei mai riuscito, non l'avrei mai lasciata.

Non avrei mai avuto il coraggio di rinunciare a lei, anche se mi fossi reso conto di non renderla pienamente felice. Ad una vita all'insegna dell'altruismo, avevo sempre preferito l'egoismo sincero. Anche se forse, la verità era che non ero proprio capace di fare il padre e la madre al tempo stesso. Di certo non erano ruoli che si addicevano ad uno instabile come me.

Da quando mamma se ne era andata, non mi sentivo più me stesso. Avevo perso il controllo delle mie emozioni e il mio stato d'animo si era come intorpidito. Facevo fatica persino a mettere a fuoco le sensazioni che provavo in un determinato momento, figuriamoci comprendere quelle di una bambina in piena fase adolescenziale. Rabbia e paura però ero sicuro predominassero sempre su tutte le altre. Mentre, non c'era stato neanche un singolo istante felice nel mio ultimo anno di vita. Pur avendo Aurora accanto, mi percepivo costantemente distaccato, lontano da tutto e da tutti. Era come se qualcosa, una forza esterna, un'energia, non seppi mai descriverla bene...era come se questa mi costringesse a rimanere segregato nel punto più alto del mondo, avvolto nel silenzio profondo, al buio, distante anni luce dal resto della gente.

Mi sentivo isolato, all'interno di una gigantesca bolla, trasparente, che fluttuava, oscillando a destra e a sinistra, facendomi cadere ogni qualvolta cercassi di rimettermi in piedi. Avevo perso interesse, avevo perso desiderio, niente sembrava più sconvolgermi o piacermi. Avevo persino smesso di disegnare, non ci riuscivo più...eppure, un tempo, l'arte era la mia unica medicina.

E mia sorella era preoccupata per me. Lo vedevo. Diceva che ero cambiato e non le piaceva affatto la persona che ero diventato. Nonostante cercassi di nascondermi durante i miei momenti peggiori, lei mi trovava sempre. Non voleva lasciarmi solo ad affrontare i miei fantasmi, così li chiamava. Avrei tanto voluto che fossero solo dei fantasmi, sarebbe stato molto più semplice lottare contro di loro, piuttosto che contro qualcosa a cui non sapevo neanche attribuire un nome.

Ero semplicemente stanco. Ma quel genere di stanchezza che non ti togli di dosso con una dormita. Io infatti dormivo così tanto, eppure lei rimaneva ancora lì. Attaccata al cuore. Avvinghiata nelle profondità delle viscere. Non sapevo perché mi sentivo in quel modo, sapevo solo che stavo facendo soffrire l'unico motivo per cui ancora respiravo. E mi dispiaceva, tanto. Perché non desideravo ferirla e non volevo assolutamente farle del male, solo che non riuscivo a smettere di farne a me stesso. Non ero capace di essere migliore di come ero riflesso nella sua iride. Mettevo a dura prova la sua pazienza ogni volta che potevo, anche inconsapevolmente.

Volevo che crescesse forte, con la schiena solida, in grado di sostenere ogni tipo di battaglia, proprio come ci era stato insegnato da bambini. Solo che più volte dimenticavo quanto fosse ancora piccola per scoprire la crudeltà del mondo, e la durezza della vita. Aveva solo dodici anni e nel giro di poco tempo aveva già perso sua madre, il punto di riferimento principale, e vissuto l'abbandono di un padre, decisamente troppo assente.

Cosa pensavo di pretendere da lei?

Che fosse coraggiosa? Forte?

E come faceva ad esserlo?

Aveva soltanto me da esempio, e le bastava guardare come mi riducessi ogni sera per capire quanto poco fossi degno di merito. Era proprio in quelle drammatiche occasioni che mi chiedevo se sarebbe mai stata in grado di superare la morte di mamma.

Inoltre, mi interrogavo su ciò che le donavo ogni giorno, e mi domandavo se fosse sufficiente per lei, se bastasse per renderla felice. Erano domande che mi ponevo ad ogni risveglio, quelle poche volte che riuscivo ad addormentarmi, in quelle rare occasioni in cui riflettevo, senza annientare come mio solito i pensieri con una generalizzata apatia.

Accadeva sempre più spesso nell'ultimo periodo.

Era davvero difficile per me occuparmi di mia sorella, pur essendo la mia responsabilità maggiore a volte sembrava come se me lo scordassi. Cercavo sempre di fare del mio meglio, ma era come se a volte il mio dolore superasse di gran lunga l'amore che provavo. Tuttavia, non mi sarei potuto tirare indietro, pur con tutte le difficoltà, non l'avrei fatto, non adesso quantomeno. Era ancora presto, e la ferita ancora troppo fresca.

Tentavo di convincermi che ciò che le avrei assicurato nel tempo prima o poi, sarebbe stato molto più appagante rispetto a ciò che avrebbe potuto ricevere andando a vivere con suo padre e la nuova famiglia che si era creato. Il bastardo non ci aveva messo poi così tanto a rifarsi una vita.

E fu così che i ricordi riaffiorarono di colpo e accesero un fuoco di rabbia e rancore che divampò dentro di me, senza controllo. Provavo un odio viscerale, profondo per quella persona, un sentimento così forte e intenso che difficilmente si sarebbe placato con il passare degli anni. Non l'avrei mai perdonato per ciò che ci aveva fatto... o meglio, per quello che non era riuscito a fare quella notte.

Era l'unica certezza che avevo.

L'unica incontestabile consapevolezza che mi sarei portato dietro fino alla morte.

Non avrebbe avuto il mio perdono.


Mi alzai dal letto e raccolsi dal pavimento la poca voglia che avevo di affrontare un nuovo giorno. Mi vestii velocemente e decisi di andare in cucina per farmi un caffè, il primo di una lunga serie. Stavo guardando dalla finestra una piccola porzione di cielo, avvolto ancora dal buio della notte. Ero sovrappensiero quando dietro di me sentii un pigolio leggero. Il passo delicato dei suoi dolci piedini. L'unica voce che avrei sempre riconosciuto, pure circondato da un mare fatto di milioni di altre melodie.

«Alain...?»

Mi voltai di colpo al suono del mio nome, quello che tra i due nessuno utilizzava mai per chiamarmi, tranne lei, ovviamente. Nell'oscurità della stanza, riuscii comunque a vedere il corpo esile della mia sorellina, appoggiata contro lo stipite della porta, una mano strofinava l'occhio assonnato, mentre l'altra stringeva forte l'orlo del pigiama, su cui c'era ricamato un buffissimo dinosauro.

«Dimmi, piccola lucciola» sussurrai piano.

«Non riesco a dormire...»

«Vieni qui!» esclamai, senza darle il tempo di dire altro. Si avvicinò e quando me la trovai di fronte, le presi il volto fra le mani. Il chiarore della luna entrò dalla finestra e le attraversò le guance, illuminando i segni lasciati dalle lacrime. Aveva pianto e conoscevo bene il motivo. Le ciglia lunghe e nere erano costellate da minuscole gocce di cristallo, mentre un alone rosso fuoco le tempestava le iridi. Nuvole cenerine che trasportavano tempeste ecco cos'erano i suoi occhi. Due pozzi d'argento brillanti, sul quale mi sarei specchiato fino alla morte, proprio come Narciso.

Avrei voluto dirle tante di quelle cose per mettere a tacere il suo dolore. Avrei voluto dirle che prima o poi, forse, sarebbe passato; avrei desiderato dirle che, grazie al tempo, il ricordo della mamma sarebbe divenuto sempre più forte, e l'avremmo incastrato insieme nella nostra memoria. Scolpito nella mente e nel cuore, custodito e protetto, perché solo noi l'avevamo amata davvero. Ma mi ritrovai le parole sulla punta della lingua, tutte insieme, e non seppi dire niente. L'abbracciai solamente, stringendola forte.

Non sei sola, sembrava volesse dire il mio gesto.

Ci sono io, con te. Non ti lascerò mai, sembrava volesse urlare.

Le sue lacrime mi rigarono gli zigomi. Il suo dolore si incatenò al mio.

Eravamo rotti, distrutti.

Ma almeno eravamo uniti.

E ci incastravamo alla perfezione. Eravamo ancora un bellissimo cristallo, sopra il quale brillava luminosa, una luce che aveva la stessa potenza del sole: il ricordo della nostra amata mamma.

«Prima di tutto, tanti auguri di compleanno piccola. Ho una proposta da farti: ti va di vedere le stelle?» mormorai dolce contro il suo orecchio, baciandola delicatamente. Lei sollevò lo sguardo, e in esso trovai la salvezza ad ogni turbamento. Curvò le labbra all'insù e annuì.

«Aspetta, aspetta, è un sorriso quello?» spalancai la bocca, fingendomi sorpreso. Lei sorrise apertamente e io mi sentii subito più leggero. Le carezzai le guance morbide e stretti l'uno all'altra ci avvicinammo alla finestra. Restammo affacciati a guardare fuori, con gli occhi spenti rivolti al cielo, la sua esile schiena premuta contro il mio petto e proprio così guardammo le costellazioni che rilucevano come tanti piccoli diamanti.

«Sono belle, vero?» commentai, forse più a me stesso che a lei. Amavo le stelle, erano il mio posto preferito dove trovare rifugio. Erano qualcosa di stupendo e soltanto guardarle mi donava un senso di pace interiore che non seppi descrivere mai a parole.

«Bellissime...» ripeté.

«Sai? Ora che ci rifletto, tu sei proprio una stella» mormorai, la mia mano si chiuse fra i suoi lunghi capelli color cioccolato, e le carezzai una ciocca rigirandola tra le dita.

«Perché?» domandò piano.

«Perché le stelle brillano e illuminano con il loro bagliore i cieli notturni. Li chiamano brillanti della notte, perché è proprio nell'oscurità dei cieli che si può ammirare il loro luccichio, è solo nel buio che sprigionano tutta la loro bellezza. Sono luce intensa che risalta agli occhi, in un oceano di ombre. La meraviglia del cielo dipende dalla presenza delle stelle, e viceversa. Senza un cielo su cui brillare, le stelle sarebbero solo delle piccole luci private di uno scopo. Così come il cielo senza le stelle sarebbe solo una distesa buia ed infinita. La loro esistenza è legata, le stelle vivono anche per il cielo, e il cielo esiste anche per le stelle. L'uno fa emergere la versione migliore dell'altro» le parlai con voce soffice e l'osservai per tutto il tempo che rimanemmo a guardare quello spettacolo etereo che si apriva sopra di noi.

«Se io sono una stella, allora tu sei il mio cielo?» disse.

Aveva capito. Aveva colto perfettamente il significato delle mie parole, ed io sorrisi.

Sorrisi con gli occhi, con il cuore e con l'anima. Seppur dilaniata dall'immenso dolore che la morte di mia madre aveva procurato, era ancora riscaldata dal fioco bagliore dell'amore che nutrivo verso mia sorella.

«Sì, io sono il tuo cielo»

Non seppi dire con certezza per quanto tempo rimanemmo abbracciati a guardare le stelle. Aurora si era accoccolata a me, stringendomi forte, come se avesse avuto paura di perdermi da un momento all'altro e non sembrava avere la benché minima intenzione di lasciarmi quella notte. E del canto mio, ero più che felice di averla vicino, la sua presenza mi faceva bene.

«Alain...» fu un sussurro impercettibile e mi ridestò all'improvviso, rompendo il momento di silenzio che era calato.

«Mmh...»

«Mi manca la mamma...»

Sussultai. La sua voce rimbombò dentro di me come un tuono, squarciandomi. Non mi sarei mai abituato a quelle parole, erano difficili da ascoltare, impossibili da accettare.

«Anche a me...» le massaggiai le spalle per confortarla, poi lasciai un delicato bacio sulla sua nuca, in ricordo di quelli che lei le regalava ogni notte, prima di addormentarsi. La sentii sospirare profondamente, cercando di scacciare via il dolore che le vibrava nel petto. Ma sapevo che era tutto inutile, non se ne sarebbe andato via tanto facilmente. Avrebbe dovuto imparare a conviverci, consapevole che il suo ricordo le sarebbe stato sempre accanto, per aiutarla ad affrontare ogni esperienza, ogni situazione, ogni attimo...di vita.

Lei non c'era più. Riflettei un istante sulla scomoda verità. C'erano momenti in cui faticavo persino io a crederci.

Avvertii la gola chiudersi, lo stomaco stringersi in una morsa affilata. La realtà tornò a frustarmi il viso e il mondo mi crollò di nuovo addosso, schiacciando sotto il suo peso tutti i miei sogni futuri e l'avanzo di speranze che andavano avanti per inerzia.

«Per fortuna, ho te» dichiarò Aurora. Si voltò, spezzando l'intreccio di mani e braccia che i nostri corpi avevano creato. Quel legame indissolubile che ci aveva tenuto insieme, uniti sin dal primo giorno. Mi colse di sorpresa e si mise in punta di piedi per raggiungere la mia altezza, pur con fatica mi prese il viso fra i palmi caldi, guardandomi intensamente.

«Che...che stai facendo?» balbettai disarmato.

«Ogni volta che ti guardo mi sento meglio, mi sembra di vederla, avete gli stessi occhi...»

Sentii il cuore fermarsi.

Il respiro cessare.

La mia vita racchiusa in quello sguardo.

Mia sorella non smise di stringermi, tuttavia le sue mani tremavano, le sentivo sopra la pelle. Erano sottili, fragili, così gliele afferrai dolcemente, intrecciandole alle mie. Lei era l'unica in grado di colmare perfettamente lo spazio fra le mie dita. Continuò a guardarmi, assorbendo ogni dettaglio del mio volto. Ed io mi presi del tempo per osservarla, come se non esistesse uno spettacolo che valesse la pena di guardare allo stesso modo.

«Allora guardami sempre, così vedrai lei ogni volta che vorrai»

Le guance le si curvarono verso l'alto, nascondendole gli occhi e mi abbracciò con tutta la forza che aveva nel piccolo corpicino. Dopo tanto tempo, finalmente, sentii una bella sensazione esplodermi dentro. Ero felice. Tanto felice, ed era solo merito suo. La mia dolce bambina. Lo sarebbe stata sempre, anche quando fosse diventata una donna.

Se solo avessi potuto avrei fermato il tempo, per impedirle di crescere e così allontanarsi da me, ma sapevo che il nostro legame sarebbe stato eterno. Più forte delle correnti gravitazionali. Più potente del confine spazio-temporale. Più intenso delle scie di luce.

«Che cosa ti piacerebbe ricevere per il tuo compleanno?» chiesi, facendole drizzare le orecchie dalla curiosità. Sollevò il capo lentamente e nel modo più dolce possibile si morse il labbro inferiore, smaniosa di rispondermi ma timorosa della mia reazione, insieme.

«Dimmelo, e cercherò di esaudire il tuo desiderio bimba...» insistei sottovoce.

«Vorrei un gattino» bisbigliò, come se fosse un segreto da non confessare.

Mi passai una mano tra i capelli e scossi la testa, pensando a qualcosa. Come facevo a dirle di no? Era il suo desiderio da sempre, lo chiedeva ogni anno alla mamma, ma nessuno mai era riuscita ad accontentarla. Purtroppo, nostro padre era sempre stato fermamente contrario, niente animali in casa. Lo stronzo era allergico a qualsiasi cosa, figuriamoci al pelo di un gatto. Ma ora, c'eravamo solo io e Aurora. Non esistevano di certo più scuse e lei l'aveva capito, astuta come era.

Feci un respiro profondo e poi...

«E va bene, gattino sia...» non feci in tempo a finire di parlare che i suoi occhi si aprirono in uno sguardo di pura felicità, e mi saltò addosso stritolandomi in un abbraccio.

Ormai per me esistevamo solo io e mia sorella.

Le avrei donato il mondo se solo avessi avuto le capacità di conquistarlo.

Mi sarei strappato il cuore dal petto, se soltanto me l'avesse chiesto.

Per lei, avrei fatto di tutto.

Persino uccidere...

***

Tenterò di farmi perdonare nel tempo per la mia assenza. Purtroppo, sono stati mesi difficili, ma spero di tornare più attiva con il trascorrere dei giorni. Dopodomani, è previsto un nuovo capitolo.

Vi abbraccio.

Joy.

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