1. Alba di una nuova vita

Auburn, settembre 2022

Era una tipica mattina di settembre. Il cielo era nuvoloso e grigio e il vento di tramontana sibilava gelido.

L'aria era tersa e fresca, sferzava le fronde degli alberi e piegava gli steli d'erba, portando con sé goccioline di pioggia. Fuggiva silenziosa dalla finestra ed entrava in punta di piedi dentro il mio letto. Il freddo autunnale mi baciava soave la pelle, provocandomi brividi sul cuore.

Continuai a guardare fuori, attraverso quello specchio di vetro che si apriva sul mondo, e mi soffermai sulle gocce di pioggia che scivolavano lente sulla superficie liscia e trasparente. Sembravano lacrime di cristallo che si rincorrevano a vicenda. Sin da bambina, mi divertiva immaginare che ci fosse una sorta di gara a chi arrivasse prima. Ma non c'erano né vincitori né vinti, perché, quasi sempre, le due gocce che competevano fra loro si fondevano, diventando una sola, ed arrivavano al traguardo insieme. Era come se, anche nelle piccole cose, l'universo mi ricordasse che nascevamo come uno, ma grazie all'amore, vivevamo come due.

L'amore era la legge che governava il mondo, l'energia che univa due anime, la forza che permetteva di affrontare la paura e l'incertezza con coraggio. Il respiro da cui nasceva la vita.

Il rumore della pioggia spezzava l'assenza di suoni. Ogni singola goccia custodiva dentro di sé una melodia unica che unita a quella delle sue compagne, dava vita ad una sinfonia meravigliosa che avrei ascoltato per sempre.

Stavo per addormentarmi di nuovo, cullata dal suono di quella splendida canzone, quando qualcuno catturò la mia attenzione. Mi resi conto che posata sul davanzale della finestra, c'era una bellissima farfalla. Sgranai gli occhi incredula di fronte a quella meravigliosa creatura, perché era estremamente raro incontrarla. In questo periodo dell'anno, si rifugiavano fra le fronde degli alberi di un bosco, oppure volavano libere sopra le rive dei fiumi. Era delicatamente poggiata sulla striscia sottile in pietra che correva lungo la finestra, sbatteva le ali variopinte di rosso e arancione, agitava con estrema velocità le piccole mazze filiformi che aveva sulla testa che l'aiutavano a scoprire e conoscere il mondo di cui faceva parte.

Mi piacevano molto le farfalle, le consideravo bellissime non solo per l'arcobaleno di colori che avevano sulle ali e per il profondo senso di libertà che incarnavano, ma soprattutto per lo stupefacente aspetto della metamorfosi che subivano. Dalle lacrime di seta del bruco nasceva una creatura leggiadra ed eterea che volava alta nel cielo e aliava di fiore in fiore. Le farfalle altro non erano che la versione migliore dell'esistenza di un piccolo e goffo animaletto che aveva un solo scopo nella vita: cambiare, diventare qualcosa di unico e inimitabile.

All'improvviso, una folata di vento fece volare via la farfalla, ed io mi ridestai dai miei pensieri. Il sonno mi aveva abbandonato, così stropicciai gli occhi con le nocche delle dita, sbadigliai sonoramente e stiracchiai i muscoli intorpiditi. Decisi di alzarmi. Tolsi il pigiama e rabbrividii. Mi riscossi da quella spiacevole sensazione, avvolgendo il corpo nell'abbraccio caldo della mia vestaglia di flanella, incastrai i capelli in una coda disordinata e mi incamminai verso il bagno. Aprii l'acqua, lavai i denti e il viso, poi sollevai lo sguardo verso lo specchio. Gli occhi lucidi e stanchi, contornati da profonde occhiaie dello stesso colore delle viole d'inverno, erano in contrasto con il mio incarnato, sorprendentemente pallido.

Quell'immagine riflessa mi provocò una fitta profonda allo stomaco. Solo il cielo sapeva quanto odiassi vedermi in quello stato, ma per quanto mi sforzassi di sorridere ed essere felice, non ci riuscivo. Ero triste, stanca e avrei voluto dormire e basta, con la speranza infusa nel cuore di non svegliarmi più. Nel sonno avevo trovato la mia pace, mi rifugiavo nel mondo dei sogni dove mi piaceva perdermi, e vivevo spensierata nell'universo lontano dei ricordi.

Era il mio modo per sfuggire, per sopravvivere, per prendermi una pausa dalla realtà opprimente a cui non mi sentivo di appartenere, proprio perché Lui ormai non ne faceva più parte. Era ormai trascorso molto tempo dalla fine della mia relazione, durata ben cinque lunghi anni. Facevo fatica persino a ricordare il suono della sua voce, e il ricordo stesso del suo angelico viso diveniva col passare dei giorni, sempre più sfumato e lontano. Tuttavia, il dolore era rimasto, e mio malgrado, i sentimenti pure. Non riuscivo ad andare oltre. Senza di Lui mi sentivo incapace di sorridere, di pensare, a volte persino di vivere. Non mi interessavo a niente, trascorrevo le mie giornate a letto, soffocata dalle quattro mura della mia camera, spezzata dalla mancanza che provavo non sapendolo più al mio fianco.

Non facevo che vederlo, ovunque; non facevo che sentirlo, ovunque sulla pelle; non facevo che sognarlo, sempre. Era solo nei sogni che noi due eravamo ancora insieme. Lo amavo ancora nonostante il male che mi aveva fatto, nonostante gli sbagli, i graffi e i morsi sul cuore. Lo amavo, lo amavo così tanto, più di quanto amavo il profumo selvaggio della pioggia, le pagine ruvide dei vecchi libri, e i tramonti sanguigni che morivano nelle chiome folte delle querce e nelle punte sottili degli abeti sempreverdi. E mi faceva stare male desiderarlo ancora...

Le relazioni si chiudono, ma i sentimenti no. Restano e ti consumano dentro, fino a farti mancare il respiro. E lui mi mancava come l'aria dopo una vita intera trascorsa a trattenere il fiato.

Prima che riuscissi a impedirlo, i ricordi tornarono a inghiottirmi. In un istante mi apparve lo scorcio di un profilo perfetto, sul quale spiccava luminoso un sorriso mellifluo rivolto ad una vaschetta di gelato. Al gusto affogato al cioccolato ricoperto da mandorle croccanti. Decisamente il suo preferito.

Lunghe ciglia dorate nascondevano splendidi occhi, che riflettevano sfumature cristalline: azzurro fiordaliso, blu oltremare. Un filo di vento carezzava leggiadro la labirintica chioma d'oro che gli incorniciava il viso di luna. Mentre il sole timidamente illuminava quella moltitudine infinta di boccoli, nei quali nascondevo sempre le dita, beandomi della loro morbidezza. Le labbra carnose e gonfie, rosse come ciliegie e deliziose come il miele, assaporavano il sapore dolce, racchiuso sulla punta di un cucchiaio d'argento. Emanavano una sensualità estrema, ed io avrei voluto baciarle fino allo sfinimento.

Scossi la testa, sbattei più volte le palpebre, sforzandomi di cancellare dalla mia mente quell'immagine. Deglutii un nodo amaro che mi aveva chiuso la gola, e respirai a fondo. Cacciai indietro le lacrime che avevo trattenuto per tutto quel tempo, e guardai nuovamente lo specchio di fronte.

«Sei forte, combatti questo dolore» mi imposi con un sospiro.

Provai a regalare al volto una parvenza di serenità e salute, truccandomi leggermente. Indossai un sottile strato di mascara e pizzicai le guance con le punte delle dita. Uscii dal bagno, infilai una tuta nera e calzai ai piedi le solite scarpe bianche. Infine, scesi velocemente le scale per dirigermi in salone.

Al piano terra regnava il silenzio, non c'era un rumore, tutto era immobile.

«Mamma, Papà? ...»  gridai. Niente. Chiamai mia sorella Francesca e mio fratello David, ma nemmeno loro mi risposero.

«Saranno già andati tutti al lavoro...» mormorai sottovoce dispiaciuta, scrollai le spalle e feci un profondo respiro per scacciare via la tristezza che si era per un istante impadronita ancora dei miei pensieri. Entrai in cucina, dalla dispensa trafugai il pane e il vasetto della marmellata di prugne, la mia preferita. Presi tutto l'occorrente per preparare un delizioso panino, canticchiando alcune note di una delle mie canzoni preferite. Quando ormai avevo finito di mangiare, mi diressi in salone, afferrai la borsa e ci infilai dentro una matita ed un quaderno. Presi il cappotto, il mio amato cappello, infilai tutto e mi incamminai verso l'uscio della porta.

Mentre passeggiavo per il vialetto, sentii il cuore palpitarmi nel petto all'idea che da lì a pochi minuti, avrei iniziato un nuovo capitolo della mia vita. Avrei voluto dire che ero contenta, che realizzare il mio sogno valeva il risveglio forzato ogni mattina per correre a lezione al College. Che nell'oscurità della mia esistenza, vedevo un bagliore di luce, un'occasione per rincominciare. Era il mio primo giorno all'Auburn University. Avevo scelto, con il cuore e con l'anima, di intraprendere il percorso di Medicina Veterinaria. L'amore che provavo verso gli animali era nato quando ero una bambina e non mi aveva più abbandonato. Sentivo una forte empatia nei confronti di ogni tipo di creatura che strisciasse, camminasse o volasse sopra la mia testa. Consideravo gli animali semplicemente straordinari, meritevoli di profondo rispetto e ammirazione.

Accadeva spesso che mi ritrovassi a parlare con loro. Non mi importava cosa avrebbe potuto pensare chi mi avesse visto, perché ero convinta che gli animali fossero in grado di capirmi meglio di alcune persone. Coltivavo la mia stranezza con audacia e spirito. Trascorrevo le mie giornate immersa nelle radure incantate, passeggiando fra gli alberi di conifere e le cortecce profumate degli abeti sempreverdi. Mi lasciavo cullare dal mormorio dolce dei ruscelli, dal canto silvestre delle ghiandaie azzurre che si liberava nel silenzio, senza privarlo mai della sua affascinante identità. Respiravo il profumo fresco e pungente del muschio verde e l'essenza selvatica delle foglie ingiallite che danzavano placide, cullate dalle carezze del vento. La natura era il mio mondo, il nido in cui rifugiarmi quando la realtà mi feriva. Desideravo solo la compagnia degli animali, anime innocenti e libere, capaci di provare sentimenti umani molto superiori a quelli delle persone.

Per strada non c'era quasi nessuno. Dopo pochi minuti, ero già davanti ai cancelli dell'università. Parcheggiai e uscii di fretta dall'auto, impaziente di guardare e studiare ogni singolo dettaglio della struttura. Sollevai lo sguardo per ammirare l'edificio e rimasi a bocca aperta: l'università era maestosa, elegante e molto affollata, era situata al centro di un parco. Sembrava un piccolo borgo medioevale incastrato in un bosco fatato di latifoglie imponenti. Un ruscello in pietra ti accompagnava proprio all'ingresso, dove un cortile lastricato, rosso mattone, veniva illuminato dalla luce.

Entrai e mi diressi subito in segreteria. Notai che la porta era aperta, mi guardai attorno e lanciai un'occhiata furtiva alla pila di fogli ripiegati in modo ordinato all'interno di una cassetta blu, al centro del tavolo. Ne afferrai uno e cominciai a leggere le informazioni contenute in quelle poche righe: orari delle lezioni, aule dei professori, e, infine, il disegno di una piccola mappa dove erano state evidenziate le principali aree di ritrovo, come, ad esempio, la sala da pranzo, la biblioteca, la caffetteria e la palestra. Appena lessi l'ultimo nome, d'istinto arricciai all'istante il naso all'insù, feci una smorfia di disprezzo, corrugai la fronte e assottigliai gli occhi in due fessure. Non nutrivo alcun tipo di interesse per lo sport, non eccellevo in nessuna disciplina e provavo una sorta di repulsione verso qualunque esercizio fisico.

Varcai l'uscita della porta della segreteria ma, involontariamente, la bretella della borsa si impigliò nella maniglia ed io caddi all'indietro, sbattendo con forza il fondoschiena sul pavimento. Avevo appena dato inizio ad una lunga collezione di figuracce, ed ero solo al primo giorno. Grandioso...

Stavo per rialzarmi, quando una piccola mano affusolata spuntò proprio all'altezza del mio naso. Sollevai il viso e soffiai via alcune ciocche di capelli ribelli che erano scivolate sulle guance e vidi davanti a me una ragazza che sorrideva raggiante.

«Serve aiuto?» sussurrò in un filo di voce.

«Ti ringrazio, sei molto gentile» risposi lentamente. Allungai la mano verso la sua e gliel'afferrai, lei per tutta risposta, mi rialzò senza problemi e mi fece poggiare di nuovo i piedi per terra.

«Bless Wilson, piacere di conoscerti» disse decisa, facendo vagare i suoi occhi su di me in un modo che mi fece arrossire.

«Joy, Joy D-Davis» balbettai imbarazzata e distolsi immediatamente lo sguardo, volgendo la mia attenzione alla polvere sulle tasche dei pantaloni. La scrollai di dosso e poi incastrai la bretella della borsa intorno al collo per impedire che si impigliasse, di nuovo, da qualche altra parte.

«Sei nuova? ...» chiese sorridendo solare, ed io annuii senza troppa convinzione.

«Anche io, siamo due matricole allora»

Bless aveva un volto genuino, incorniciato da lunghi capelli marroni che le cadevano leggiadri fin dietro le spalle e due splendidi occhi neri come la pece, allungati verso l'alto che le regalavano uno sguardo orientale.

«Quale percorso di studi hai scelto?» domandò per rompere il silenzio che io stessa avevo accidentalmente creato. Non ero mai stata una ragazza di molte parole, preferivo esprimermi attraverso gli occhi piuttosto che con la voce, ma questo lei non poteva saperlo.

«Oh», balbettai, scuotendo la testa per ridestarmi dai miei pensieri, «Scienze biomediche, anatomia, fisiologia e farmacologia, tu?» pigolai timidamente.

«Io Scienze Cliniche, comunque, ti fa male il sedere? Vuoi andare in infermeria a metterci del ghiaccio?» la guardai con un leggero cipiglio, poi mi ricordai del modo bizzarro in cui c'eravamo incontrate e attribuii un senso alla sua domanda.

«Sì, cioè no, sto bene, grazie ...» ribattei imbarazzata ed incespicai sulla mia stessa lingua. Vidi i suoi occhi restare fissi nei miei come per accettarsi che stessi dicendo il vero. Non ero mai stata il centro delle attenzioni di nessuno; perciò, non ero per nulla abituata alla gentilezza. Rimasi immobile a fissarla interdetta.

«Ok, se lo dici tu, hai già fatto il giro del Campus?»

«Ehm, no, sono appena arrivata»

«Oh, fantastico, credimi c'è un mondo da vedere, sono sicura che ti piacerà, vuoi che ti accompagni? Ho ancora un'ora libera prima che cominci la mia lezione; perciò, posso farti io da guida» cinguettò Bless tutto d'un fiato e il cuore mi palpitò nel petto. L'idea che forse mi ero appena fatta una nuova amica mi rendeva inspiegabilmente felice ma al contempo profondamente in ansia. Le sorrisi in modo spontaneo tanto che le guance si sollevarono e gli occhi si incurvarono, chiudendosi in due fessure luminose.

«Grazie, mi farebbe piacere, da sola rischio sicuramente di perdermi da qualche parte, sai il mio senso dell'orientamento è pari a...» non feci in tempo a terminare la frase che Bless mi afferrò per un braccio, avvicinandomi al suo viso. La osservai ancora più da vicino e vidi una costellazione di lentiggini che le decorava le guance, si estendeva fino alla punta del naso; erano un dettaglio immanente che le donava un aspetto fanciullesco.

«Non preoccuparti, ci penso io, andiamo» esclamò guardandomi euforica.

«Lo sapevi che la nostra università è stata fondata nel 1856, solo venti anni dopo la nascita della città di Auburn? ...» il flusso di parole che uscì fuori dalla sua bocca fu dirompente e inarrestabile, tanto che non riuscii a memorizzare il racconto sulla storia dell'università, ma a Bless non sembrò importargliene. Continuò a parlarmi a macchinetta, trascinandomi con lei in mezzo alla gente. Cercai maldestramente di stare al suo passo e allo stesso tempo di non scontrarmi con altri studenti, ma fu piuttosto difficile. Lei era molto più alta di me e riuscì facilmente a farsi strada fra le persone, mentre io, rischiai di cadere ed essere schiacciata, parecchie volte.

«... È una delle più grandi dello Stato dell'Alabama, con oltre venticinquemila studenti e circa...»

***

Bless era gentile e disponibile, mi aiutò ad ambientarmi, mostrandomi le aule dei professori e i principali punti d'incontro degli studenti; mi accompagnò persino alla lezione di Genetica Animale, e mi descrisse la personalità del Professor Clark, un uomo dall'aspetto burbero e arrogante ma dall'animo docile. La ringraziai sinceramente per la cortesia e la pazienza che aveva dimostrato nei miei confronti e lei mi rispose che era felice di aiutarmi. Mi trovava simpatica e provava un interesse vivido nel volermi conoscere, infatti, prima di salutarci, mi chiese di scambiarci i numeri di telefono, per rimanere in contatto, ed io seppur con esitazione accettai. Fare amicizia era qualcosa che mi eccitava e spaventava al tempo stesso. In tutta la mia vita, non avevo mai avuto la grande fortuna di sperimentare l'affetto incondizionato di un vero amico, perciò non sapevo mai bene come comportarmi di fronte a queste situazioni. Mi sentivo spesso in difficoltà, soprattutto dopo la brutta esperienza che avevo vissuto.

Dopo la fine della mia relazione, scelsi di trascorrere gran parte del mio tempo chiusa in casa, circondata dalle opprimenti attenzioni da parte della mia famiglia, preoccupata e spaventata al tempo stesso dal mio improvviso cambio di vita. Sinceramente, se solo avessi potuto mi sarei evitata anche le loro impertinenti domande, ma non era stato possibile. Ciononostante, dovetti ammettere a me stessa che l'amore che mi dimostravano quotidianamente fu un po' di aiuto, quantomeno per svegliarmi ogni mattina. Il momento più difficile della giornata in assoluto, per me. Sapere di essere amato era una ragione piuttosto importante per rimanere in piedi e con gli occhi aperti. Comunque, dopo la mia discutibile scelta, la cerchia di amici che avevo creato negli anni, si era drasticamente ridotta, fino ad arrivare ad un numero talmente inferiore da poterlo contare sulle dita di una mano. Successivamente, la mia poca determinazione, la totale mancanza di voglia di uscire, e il mio costante malumore contribuirono ad azzerare completamente la poca compagnia che mi era rimasta, facendomi ritrovare ad essere sola.

Lo volevo? Forse sì, anche se non ne ero del tutto sicura. In cuor mio, però, ero perfettamente consapevole di quanto sarebbe stato importante per un percorso di guarigione come il mio, che presupponesse come fine ultimo il ritorno alla vita, la presenza di qualche amico sincero. Ma non me ne importò più di tanto, perché sin da bambina ero stata abituata a cavarmela da sola. Perciò, ormai sapevo affrontare quel tipo di solitudine. Anche se non avrei mai pensato che sarebbe stato così difficile. E lo era tuttora...

Salutai Bless con la mano, abbassai lo sguardo verso il polso e lanciai un'occhiata fugace alla corona dell'orologio che mi aveva regalato Papà quando avevo poco più di dieci anni. Quel mosaico colorato mi riportò alla mente uno dei nostri indimenticabili viaggi a Venezia.

Maledizione.

Mi resi conto del mio immenso ritardo e senza esitare mi voltai, aprii la porta ed entrai in fretta dentro l'aula, la richiusi alle mie spalle e mi appoggiai con la schiena contro la superficie. Mi guardai intorno e tirai un sospiro di sollievo, il Professore non era ancora arrivato, per fortuna. Purtroppo, però, la mia felicità durò poco, il tempo di un sospiro. Tutti i posti in aula erano già occupati, tutti, tranne uno.

Due spalle grandi e larghe sorreggevano il corpo muscoloso di un ragazzo, immerso in un rigoroso silenzio. Se ne stava comodamente seduto, con le gambe incrociate, su una piccola sedia, lontano dal chiacchiericcio della gente. Una lama di luce irradiava la stanza, illuminandogli solo una parte del viso, nascosto sotto il cappuccio di una felpa grigia antracite, sgualcita. I lineamenti candidi e delicati erano tesi e rivolti verso il basso. Fra le mani stringeva il cellulare, mentre un dito affusolato scorreva lentamente delle immagini sul display illuminato. Una labirintica chioma di boccoli color cioccolato spuntava fuori dal tessuto di cotone, accarezzandogli la porzione di pelle ambrata lasciata scoperta. Gli occhi erano grandi e allungati verso l'alto, incorniciati da ventagli neri che sventolava in modo energico.

Non riuscii a capire per quale motivo, ma la sua presenza incupì il mio animo.

Feci un passo avanti, incerto, lui sollevò il viso e i suoi occhi saettarono a me. Bruciarono di sdegno quando si accorse che lo stavo guardando con noncuranza. La mascella quasi mi cadde a terra per lo sconcerto quando catturai l'interezza della sua figura.

Era di una bellezza rara, inaspettata e fuori dal comune, non sembrava reale. Incastrata fra le sue iridi c'era la profondità misteriosa di una foresta silenziosa. Erano fredde, minacciose e prive di qualsiasi emozione, ma rifulgevano come fili d'erba baciati dal sole mattutino. Creavano un meraviglioso contrasto sul viso attraente, che mozzava il respiro e annebbiava i pensieri.

Lo fissai con un'espressione da ebete arricciare il labbro superiore in una smorfia di disprezzo. Mi guardò torvo, attendeva una risposta, ma le parole rimasero incastrate fra la lingua e i denti.

«Ehi, ti sei imbambolata?»

«Stramba, stai dormendo in piedi per caso?»

«Ma che gli prende? Non ha mai visto un ragazzo?»

«Te lo do io un buon motivo per impressionarti»

Voci perfide e sussurri insolenti si insinuarono dentro le mie orecchie, risuonando come lo stridio delle unghie sull'ardesia di una lavagna. Strinsi la presa sulla bretella della borsa, le nocche sbiancarono. Mi voltai lentamente, lanciando occhiate incendiarie a ciascun di loro. Sorrisetti sfrontati e petti infuori. Due prerequisiti essenziali per essere considerati dei veri stronzi.

«Che avete da ridere? Razza di idioti!» rinsavii e urlai a pieni polmoni. Tornarono improvvisamente seri, guardandosi attorno con una punta di imbarazzo. Non si aspettavano certo una risposta simile. Grazie al tempo avevo imparato a difendermi da persone del genere.

Incastrai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e reclamai l'attenzione del ragazzo di fronte. Un profondo sospiro anticipò le parole, ma non se ne accorse. Schiarii la voce con un colpo di tosse, ancora niente. Sibilai a denti stretti, il nulla cosmico. Rimase immobile, tacito, con il volto incastrato nel display del suo cellulare.

«Scusami» pigolai.

«Che cosa vuoi?» domandò lapidario con tono velenoso. Fu così improvviso che sussultai per lo sgomento, poggiando una mano sul cuore.

«Quel posto è occupato?» sollevai gli occhi al cielo, impaziente.

«No...»

«Perfetto, vorrei sedermi se non ti dispiace»

La mia richiesta non gli piacque affatto. Il suo viso cambiò espressione, lentamente, diventando sempre più accigliato. Il suo sguardo sprigionò una durezza intimidatoria che mi costrinse ad indietreggiare. Per un attimo, pensai che da lì a pochi secondi, mi avrebbe fatto una sfuriata, per poi mandarmi a quel paese. Anche io avrei preferito non avere un compagno di banco per tutta la durata delle lezioni, ma purtroppo queste erano le condizioni e di certo non dipendeva da me. Avrebbe dovuto prendersela con qualcun'altro.

Invece, ci fu un lungo momento di silenzio. Continuai a fissare le sue iridi feline mentre scrutavano imperturbabili ogni emozione che mi esplodeva nel petto. All'improvviso, in uno slancio spontaneo si alzò in piedi, ed io fui costretta a reclinare il capo per far fronte alla sua altezza.

Era gigantesco, cavolo.

Sbuffò seccato e il fiato tagliente mi accarezzò le guance, sferzando l'aria che ci divideva. Il torace ampio e le spalle larghe sprigionavano vigore e fermezza, tanto da risultare quasi fastidioso. Il sopracciglio arcuato e il sorrisetto irriverente trasudavano arroganza e presunzione, decisamente irritante.

Non era certo la sua statura ad intimorirmi, ma la freddezza serafica che liberavano le sue pupille. Sotto il suo sguardo imperscrutabile mi sentii come un minuscolo topolino di fronte ad una terrificante pantera. Ma non mi diedi per vinta, imperterrita lo osservai dal basso con aria di sfida. Pretendevo quel posto e l'avrei ottenuto.

Scostò la sedia bruscamente e il pavimento tremò un suono raccapricciante. Trattenni un singulto che uscì prorompente dalle mie labbra, ma ammutolii quando torreggiò su di me. Si piegò alla mia altezza e inclinando il volto di lato mi sorrise perfido, mascherando un ghigno derisorio. Con un gesto della mano indicò il luogo conteso, invitandomi a sedere. Vieni pure sembrava volesse dirmi, ma per qualche assurda ragione, non mi fidai. Esitai nella mia decisione, dubitando della mia stessa sicurezza: mi avvicinai, poi, feci un passo indietro, e ancora, uno avanti, poi, nuovamente indietro.

«Non ti mordo mica...» ringhiò a viso basso senza riuscire a trattenere una nota canzonatoria. Quella pungente provocazione bastò a infondere coraggio alle mie gambe. Oltrepassai il tavolo, affiancando la sua figura. Scivolai lungo il suo petto scolpito, stringendo lentamente la presa sulla borsa, le dita stritolarono il tessuto in cotone colorato quando mi ritrovai incastrata fra le sue spalle e le braccia dai muscoli definiti. La sua altezza mi oscurava completamente, coprendomi tutta la visuale.

Il mio cervello mi urlò di allontanarmi subito, tuttavia, feci qualcosa di molto stupido. Sollevai il viso e il suo sguardo mi colpì con una stoccata impressionante; le sue iridi conficcate dentro le mie. Si sporse un po' in avanti, accorciando la distanza e i suoi occhi duri, velati di malinconia, dardeggiarono rivolti a me.

Mi respirò addosso, l'imbarazzo mi morse le guance e il cuore mi colpì il petto, vibrando in gola. Il suo profumo, vigoroso e seducente, mi colpì in viso come un'ombra intensa e insidiosa. Percepii l'elegante scia legnosa, ambrata e la fragranza fresca della lavanda, impossibile da non riconoscere. Una combinazione letale che mi stordì completamente.

La sua vicinanza non fece altro che accrescere un'insolita tensione dentro di me, tanto che indietreggiai smarrita. Ma nel farlo, sbattei coi glutei contro il tavolo, provocando un rumore stridulo che risuonò fra le pareti dell'aula.

Dalla sue labbra carnose, rosso ciliegia, traboccò un risolino compiaciuto, ma non mi turbò. Rimasi ferma, intrappolata fra il legno e il suo corpo caldo. Sostenni intestardita il suo sguardo, catturando ogni sfumatura delle sue iridi. Lottammo con gli occhi per dei secondi che mi parvero infiniti, contrastandoci a vicenda in una battaglia ad armi pare. Poi, per mia sorpresa, accadde qualcosa. Il mento gli schizzò verso l'alto, il pomo d'Adamo si abbassò e sollevò rapidamente. Sembrava teso, ma dubitai che fosse la mia presenza a intimorirlo.

L'istante dopo, sgusciai via dalle sue braccia. Mi avvicinai alla sedia, allungai una mano verso lo schienale, ma in uno scatto felino l'agguantò al posto mio. Le dita bianche affusolate spiccarono sul rovere. Rimasi sorpresa, le palpebre spalancate e la bocca socchiusa.

Cosa vuole fare? Rubarmi la sedia? Impedirmi di sedermi? Farmi cader...

La scostò permettendomi di accomodarmi e ogni dubbio volò via, lasciando spazio allo stupore. Non lo credevo capace di un gesto tanto cortese.

«Prego...» mormorò sarcastico. Sfoggiando un sorriso fugace che trasudava falsità da un angolo all'altro. Lo ringraziai con gli occhi e mi sedetti con riluttanza, afferrai la borsa per recuperare ciò che mi serviva e cominciai a sfogliare le pagine del quaderno. Scrissi il mio nome, il corso, l'anno e tutto il resto, senza tralasciare alcuna informazione.

«Sei una matricola?» domandò, fissandomi torvo. Aveva un timbro della voce estremamente marcato, come quello di un adulto, dal tono caldo e profondo.

«...»

Sorrise e il naso piccolo, perfettamente dritto, si arricciò verso l'alto.

Non ci trovavo nulla di divertente nella mia risposta.

«Si vede...» sibilò a denti stretti, beffardo.

Afferrai la matita, stringendo la presa sul legno morbido, graffiai la carta bianca del quaderno e inspirai profondamente. Le vene sporgenti sulle mani. Le rughe marcate sulla fronte. Avrei voluto nascondere meglio la mia reazione, ma in quel momento non ne fui in grado, tanto che lui se ne accorse. Lo sentii ridermi vistosamente alle spalle.

La sua insolenza mi urtava i nervi.

L'idea di colpirlo con il quaderno e mettere a tacere la sua lingua biforcuta, mi sfiorò la mente per interminabili secondi, ma lasciai perdere. Lo ripagai con l'indifferenza, ignorandolo completamente.

Attesi impaziente l'arrivo del Professore, tamburellando un motivetto con le dita. Trascorsero dieci, poi quindici, infine, venti minuti, ma di lui non ci fu traccia. Così cercai di ingannare il tempo: scarabocchiai con la matita qua e là, fiori di gelsomino e viole d'inverno presero vita sul candore delle pagine bianche.

Tic, tac, tic, tac...

I rintocchi d'orologio sembravano eterni eoni.

Così decisi di intrattenere ancora la mia coscienza. Mi guardai attorno e studiai le espressioni perse e corrucciate dei miei compagni. Mi divertiva, era un piacevole passatempo osservare le innumerevoli smorfie che le persone erano solite fare durante uno dei tipici momenti di attesa noiosa. Poi, cominciai a fischiettare melodie delicate, come il canto nobile di un usignolo al chiaro di luna.

Ero finalmente riuscita ad eliminare dai miei pensieri l'essere arrogante e presuntuoso che sedeva al mio fianco, quando uno zurlo strozzato uscì fuori dalle mie labbra appena mi accorsi che mi aveva appena incenerita con lo sguardo.

Inchiodò i suoi occhi affilati nei miei, lanciandomi un'occhiata ammonitoria.

«Che c'è?» domandai inquieta, un filo di voce spezzò il silente istante.

«Smettila, sei insopportabile» sputò acido.

«Scusami? Qual è il tuo problema?» lo fissai con un cipiglio accennato. Le guance rosse e la mascella tesa.

«Tu, se continui a fischiare imperterrita, ma ti pare il modo?»

Serrai i pugni, graffiando i palmi e gli rifilai un'occhiataccia che espresse tutta la mia avversione.

«Se ti siedi accanto a me, ti conviene sapere che detesto ogni forma di rumore, preferisco il silenzio e apprezzo chi lo pratica costantemente...»

Non mi diedi per vinta, e reggendo quello sguardo che mi teneva addosso domandai: «E a me questo dovrebbe importare qualcosa?»

«Sì, dovrebbe...» mormorò con voce ostile.

«È una mia impressione o le tue parole hanno tutta l'aria di essere una minaccia velata?» replicai dura, anche se fragile. 

«Sei in errore, il mio è solo un consiglio...»

«Se decidessi di non seguirlo?» cercai di farmi valere. Ero tesa e bruciavo di rabbia. Lui sollevò un angolo della bocca e sorrise, probabilmente compiaciuto dai miei modi ostinati.

«Potrebbero esserci delle conseguenze»

Indurii lo sguardo e lo fissai con disprezzo.

«Illuminami allora, che tipo di conseguenze?» buttai fuori con tutta la determinazione che avevo.

«Molto spiacevoli per te, piuttosto soddisfacenti per me...»

Irrigidii la mandibola, i denti stretti come tenaglie.

«...Ora fa silenzio, se non vuoi ritrovarti senza sedia e con il culo a terra» pronunciò ringhiando sottile. L'istante dopo si voltò, dandomi le spalle e il silenzio a cui aspirava ardentemente, mi inghiottì in un profondo abisso.

***

Spazio Autrice

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. ♥️

Joy.🦋

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