Prologo

(AESTHETIC DI SMALLCACTUSSTORIES)

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PROLOGO

Sto morendo.

Me lo sento.

Il cuore batte lento.

Quasi a fatica pompa quel sangue ormai amaro.

«Sono seduta sulla terra della mia foresta», dico prendendo il terriccio con una mano per poi farlo di nuovo scivolare.

La giovane donna dalla chioma a boccoli mi si china di fronte. I suoi occhi profondi mi fissano e ridono, mentre le sue labbra, tanto perfette da sembrare disegnate, si inarcano elargendo al viso un'espressione felice. Mi accarezza la guancia ormai corrugata dal tempo e dalla sofferenza. Arrossisco, nessuno mi tocca da tanto tempo. Serro la bocca per non farle notare gli unici due denti rimasti. Le mani, sporche di terra, mi tremano.

Sussurra: «Lo so... ma io sono qui con te.»

«Chi sei?», le chiedo socchiudendo gli occhi con l'obiettivo di focalizzarla meglio. La donna sorride e non mi dà risposta. Porto lo sguardo su ciò che la bellissima luna illumina: le cime dei pini e parte della casetta prendono colore grazie alla sua luce. La fitta vegetazione coperta da un alone cupo e buio si alterna alla penombra, per poi passare a una parte con colori vivaci e chiari, quella in cui batte il raggio di luna. I mattoni, color sabbia, risplendono e scintillano grazie alla flebile scia di luce. Come divisa a metà, la parete, da cui parte il tetto marrone scuro, è visibilmente chiara. La parte inferiore delle mura, non illuminate, è travolta dall'oscurità che incombe anche sulla vegetazione che si infiltra tra le fessure.

Come se fosse naturale, continuo a parlare. Non so chi sia questa donna, ma nessuno mi rivolge la parola da così tanto tempo che non mi importa... Non ho mai fatto caso a quanto sia pesante la solitudine prima di oggi. Ritrovarmi con una perfetta sconosciuta di fronte, senza neanche conoscere il suo nome, ma riuscire a sentirla intima, mi stupisce. Non capisco se mi viene spontaneo parlarle di me perché mi è mancato dialogare con un altro essere umano, o perché semplicemente ho la sensazione di conoscerla... Che l'abbia incontrata in tempi passati e che me ne sia poi dimenticata?

«Sì, questo è il mio bosco e la casetta in ruvidi mattoni è il posto dove vivo da cinquantuno anni... da sola. Ogni tanto mio nipote Lucas passa per il bosco, gli piace andare a pescare nel lago, sai?»

La donna annuisce, io sorrido. Inizio a respirare male, tento di alzarmi facendomi forza con la mano sulla parete della casa. La mia schiena incurvata per via dell'età le è poggiata sopra. La donna mi aiuta e faccio pochissimi passi fino al pino lì vicino. Trascino la gamba, non riesco proprio a muovermi. Poggio il palmo della mano sull'albero e lentamente mi accascio a terra, sedendomi sotto di esso.

«Lucas non è un tipo che parla molto, anzi non parla per niente. Ogni volta che passa di qui alza di poco lo sguardo, resta a fissarmi qualche secondo e poi va via, proseguendo la sua strada verso il lago. Credo sia il suo modo di dirmi che mi vuole bene. D'altronde, anche se non sono la sua vera nonna, lui mi ha sempre rispettata come tale. Sua madre è come una figlia per me... lo era, anche se non la vedo da vent'anni ormai», spiego amareggiata.

La donna continua ad annuire e a sorridermi. Scruto ancora il suo viso per capire se la conosco. Ha qualcosa di familiare, ma non capisco proprio chi possa essere. Intanto sta lì, accovacciata sulle ginocchia, intenta a non farsi sfuggire nulla di ciò che dico. La solitudine forzata con cui ho dovuto convivere mi ha spento dentro e, finalmente, dopo tanti anni, qualcuno si sta interessando a me. Che mi importa di chi sia! Finalmente pare che la mia fine sia arrivata, non aspetto altro da una vita, magari se oggi dovesse accadere non sarò sola. Non voglio che vada via e per questo continuo a parlare senza seguire un filo logico. Spero forse che mi chieda di raccontarle tutta la mia vita? Centosei anni non si raccontano in pochi minuti, ci vogliono ore e potrebbe diventare un buon pretesto per non restare di nuovo sola. Chissà perché dopo decenni  mi pesa così tanto l'idea di restarci di nuovo. Forse in fin di vita nessun vuol rimanere solo... Forse è una volontà comune, chi lo sa, non ho vissuto abbastanza tra gli uomini per saperlo.

«Lucynda, la madre di Lucas, era una brava donna. Si affezionò subito a me. Era dolce, aiutava chiunque le si presentasse davanti e che le potesse chiedere aiuto. Bella com'era dava un senso di pace interiore. Non so cosa le sia successo, ma da qualche anno prima che mia nipote Rebecca morisse, lei era già completamente cambiata. Trattava i suoi figli in modo sadico. Rebecca era malata, sempre debole, cagionevole di salute... così piccola e con così tanti problemi! Lucas era un po' più grande, ma dovette, d'improvviso, diventare adulto per occuparsi della sorellina. Povero ragazzo. Ha vissuto la morte di Rebecca in prima persona, mentre Lucynda non era in casa. Non lo era mai... preferiva andarsene per non guardare in faccia i suoi figli.»

«Tieni, bevi un po' d'acqua», sussurra la giovane poggiando il suo palmo sotto il mio mento, me la versa in bocca direttamente dalla bottiglia. Poi delicatamente sposta una ciocca dei miei capelli bianchi scivolata sul viso. Abbasso la testa istintivamente. Ho il timore che si accorga del grosso neo sul naso. La vecchiaia ha reso gli occhi molto più piccoli, facendo invece crescere quell'enorme bozzo, tanto da non permettermi di vedere bene.

«Fatichi a parlare, se vuoi smetti», dice.

Faccio cenno di no, non voglio che vada via, seppur sia sera tarda, voglio che resti con me. Non voglio più stare sola. Non voglio morire in solitudine. E la sua presenza mi rassicura. La donna dalla chiara e candida pelle sembra capire...

«Ti va di raccontarmi tutto dal principio?»

Sorrido compiaciuta. Finalmente me lo chiede.

«Si tratta di una storia molto lunga... e triste.»

La donna si avvicina col suo viso al mio e sussurra: «Io ho tutto il tempo del mondo».

Aggrotto le sopracciglia per un attimo confusa e chiedo: «In che anno siamo?»

La giovane ora ride, facendomi vedere i suoi bianchissimi denti.

«1969, il ventitré maggio.»

«Son passati settantuno anni da quando sono scappata dalla casa in cui... beh... dal bordello! Settantuno anni da quando sono arrivata a Fear Lake. Sono fuggita da un mondo molesto e burbero per ritrovarmi in uno in cui hanno tentato di ammazzarmi. Per questo losco paesino io sono una strega.»

La giovane si fa seria e mi si siede accanto.

«Loro credono che io abbia ucciso volontariamente una dolce creatura. Mi credono una donna malvagia... e forse lo sono davvero!»

Osservo il punto in cui tengo tutte le mie erbe per creare le medicine.

Continuo: «Credono che io crei delle pozioni "magiche", che effettui delle stupide magie maligne su di loro.»

«Ti riferisci agli abitanti di Fear Lake?», chiede la giovane dal dolce sguardo.

«Sì... loro. Conoscono le mie pratiche, sanno che raccolgo piante e creo degli intrugli...»

Alzo le spalle rassegnata.

«In realtà crei medicine, mi pare di aver capito», afferma la donna.

«Sì, sono solo delle tisane.»

«Allora perché credono che tu abbia ucciso un bambino?», domanda la rossa mentre sposta una ciocca dei suoi bellissimi capelli.

«Come fai a sapere che si tratta di un bambino... di un maschietto?», chiedo perplessa ricordando che non ho parlato del sesso, ma solo di "una creatura"... ma magari mi sbaglio, sono ormai completamente rimbambita, magari le ho già dato questa informazione. Lei risponde con un'altra richiesta.

«Partiamo dal principio, raccontami tutto, da quando eri bambina... Come ti chiami?»

«Loro mi chiamano... la vecchia.»

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