1. Luna


«Vivevo con mia madre... Lei era una prostituta. Si era invaghita di un uomo che le aveva promesso benessere e ricchezze se avesse accettato di lavorare per lui. Non sapeva ancora che l'ambito e desiderato lavoro era fare la dama di compagnia nella sua casa di appuntamenti. Quando capì che si trattava di diventare una prostituta, era già troppo tardi. Lei aveva appena quattordici anni e mi mise al mondo poco prima dei suoi quindici. Il padrone, o il capo, così lui si faceva chiamare, le permise di tenermi lì con sé. La mamma riuscì a mantenermi isolata per molti anni da quel mondo, ma arrivai a una età in cui cominciai a capire e scappavo gironzolando per le stanze; ero ancora una bambina quando la vidi per la prima volta lavorare, avevo solo dieci anni... Era il 1873.»

La giovane deglutisce, passa un palmo sulla sua guancia leggermente rosea, abbassa lo sguardo verso il terriccio che io continuo a versare per terra dopo averlo raccolto. Segue il movimento con gli occhi. Striscia la sua mano alla mia, coprendole entrambe di terra. La sfiora casualmente e d'istinto la ritiro. Non voglio che tocchi questa ruvida pelle, lei è così giovane... non mi piace l'idea che possa nutrire ribrezzo nel toccarmi. Ma la donna la adagia nuovamente sulla mia. Il mio sguardo segue prima il suo braccio, poi, alzando la testa, passa sui suoi occhi sempre arricciati per un sorriso. Non credo sia una donna felice, tiene negli occhi una apparente giovialità, ma allo stesso tempo un alone di malinconia. Il perenne sorriso è solo un modo per farmi sentire capita, o la conseguenza alla pena che le faccio.

«L'uomo le stava dietro e spingeva come un mulo. Mia madre voltando di poco la testa si accorse di me, sporgevo la testa dalla porta che avevo aperto di pochi centimetri; si asciugò con la mano una lacrima, mentre con l'altra si teneva in equilibrio chinata sul letto. Dava le spalle a quell'uomo mentre gemeva, non capii se fosse per piacere, non in quel momento perlomeno; poi scoprii che era necessario farlo, per far godere sempre di più quei luridi porci. Ricordo che diressi le pupille dei miei occhi sulle pesanti tende color mogano, che non lasciavano spazio a spiragli di luce. La stanza era illuminata solo da una flebile candela sul comò. Dovetti distogliere lo sguardo da quei due per non vomitare, così iniziai a osservare ogni altro dettaglio. Il letto, anch'esso colorato di rosso, raccoglieva lenzuola di scarso cotone madide di sudore e liquidi vari. Oggi ne conosco le provenienze, allora non sapevo ancora cosa fossero quelle strane e chiare chiazze. D'inverno o d'estate erano sempre le stesse, non venivano mai cambiate, né lavate. Quando proprio non si potevano più usare si gettavano via e se ne compravano delle nuove. Chissà perché per loro era come un giorno di festa quando accadeva! Lei e le sue amiche dicevano: -Per una notte ci sentiremo delle Signore!- e poi ridevano sguaiatamente. Solo una volta cresciuta mi resi conto che con quella frase stavano a indicare quanto potesse essere piacevole per loro avere, anche solo per una notte, la possibilità di dormire tra lenzuola che profumavano di pulito. Quella stanza odorava di muffa, ogni tanto arrivava un intenso odore di sudore e sudiciume... Non sempre gli uomini che si presentavano erano puliti.»

Mi volto verso la donna, mantiene ancora lo sguardo basso.

«Se vuoi smetto, mia cara.»

«No - dice accennando a un sorriso - vorrei che continuassi.»

Sospiro.

«Mi mette in imbarazzo non sapere il tuo nome», dico sorridendo.

La giovane donna alza il suo viso poggiando la testa sul tronco, sorride anch'ella, guarda verso il cielo incrociando le braccia. Osserva la luminosa luna, sussurra...

«Chiamami Luna.»

Porto il mio sguardo verso l'alto, cerco di respirare più profondamente possibile, fatico, ma non ho ancora molto tempo per assaporare quel profumo di pini e menta che la primavera emana.

«Ciao, Luna, io sono Adele.»

«Lo so», risponde timidamente. 

Mi porge la mano, io per un attimo la osservo di nuovo, decido di accettare, gliela stringo forte. Al tatto è liscia e morbida, ho la sensazione di averla già toccata in passato. Ogni volta che mi sfiora o che la tocco un brivido percorre la mia schiena. Sì che la conosco, sì che già l'ho toccata in passato... ma dove? Quando? 

«Dopo aver partorito me, restò in quella casa per trent'anni, durante gli ultimi dieci partorì Maria, Iosy e per ultima Carmen... siamo tutte figlie di padri diversi. Avevo già vent'anni quando arrivò la prima delle tre, Maria.»

«Come mai per così tanti anni non ebbe figli, visto il lavoro che faceva?», pensa Luna ad alta voce.

«Non ho detto che non è rimasta incinta, ma che la prima a essere nata viva fu Maria, dopo di me.»

La giovane resta pietrificata.

«Accadeva continuamente. Ma con la stessa facilità li perdeva. A volte in modo naturale, altre volte invece...»

«... Altre volte?», ribatte Luna.

«Alcuni clienti erano più attratti dalle donne incinte e capitava che richiedessero lei proprio durante quei mesi... ma la violenza inaudita che usavano contro quel corpo per cui avevano pagato, non le permetteva di portare a termine le gravidanze. Gli ultimi dieci anni fu richiesta di meno per via dell'età. Mia madre non aveva più la bellezza dei suoi venti anni, per cui solo anziani o i suoi clienti fissi e affezionati pagavano per averla, riuscì così a portare a termine le ultime gravidanze. Mi occupavo delle pulizie in quella casa e di far partorire le donne, che come coniglie davano alla luce continuamente dei figli. Ma quando morì di tubercolosi io avevo trent'anni e il padrone mi diede la possibilità di restare in quella casa con le mie piccolissime sorelle. C'era solo una condizione da rispettare: dovevo prendere il suo posto e Maria avrebbe dovuto iniziare a quattordici anni la stessa vita, lo stesso lavoro.»

Luna si volta di scatto guardandomi frastornata.

«Non sapevo dove andare, avevo queste tre piccole creature con me, non potevo far altro che accettare. La prima volta fu umiliante. Ricordo che presi la bacinella d'acqua per lavarmi e mi ci accovacciai sopra. Più mi lavavo più mi sentivo sudicia, anche se ancora non avevo fatto nulla. La sensazione che si prova quando sai che stai per vendere il tuo corpo è indescrivibile. Non mi sentivo più umana, ma merce di scambio. Mi stavano per togliere la dignità, mi stavano per togliere l'innocenza... mi stavano per togliere la freschezza e la purezza. E io lo sapevo. Ne ero consapevole. Odiavo quelle mura, quell'odore della stanza, quella vita che andavo a intraprendere, quei vestiti scollati e poco raffinati, quei gemiti che avrei dovuto fare e che le anziane mi avevano già insegnato. Odiavo quel mondo, temevo che mi potesse capitare un violento e che mi avrebbe potuto far del male. Non  avevo paura per me, per la mia salute, ma per le mie sorelle... Se avessero fatto del male a me chi si sarebbe occupato di loro? Ero già sporca dentro e fuori, ancor prima di iniziare! Così mi sentivo, ma nulla poteva mai farmi prospettare la sensazione che mi sarei portata addosso subito dopo. Quell'uomo era sudicio, dalla dentatura giallastra, la barba incolta e  dalla stazza mastodontica. La prima cosa che gli chiesi fu di far piano, se poteva essere delicato visto che per me era la prima volta. Ricordo che rise sguaiatamente e mi obbligò a posizionarmi sul letto, mi sdraiai e mi penetrò senza esitazione, con forza e violenza. Fortunatamente durò meno di un minuto. Un solo minuto che bastò a farmi capire quanto odiassi quella vita e a farmi sentire lurida per il resto di tutta l'esistenza, non solo più in quel momento! Pian piano, nonostante tutto mi abituai e gli incontri con quegli uomini iniziarono a essere quasi una normalità.»

Mi volto verso Luna, una lacrima le percorre il viso, prende la sua larga gonna e la tira su per asciugarsi.

«Meglio smettere», sussurro accarezzandole la folta chioma di capelli morbidi e profumati di vaniglia.

«No, voglio sapere come sei arrivata a Fear Lake», mi spiega con voce tremolante.

«Hai figli?»

«No!», mi risponde dopo aver sospirato.

«Hai fratelli o sorelle?»

Luna scuote la testa.

«Oh! Tesoro!» esclamo meravigliata.

«Sta tranquilla, non sono del tutto sola, perlomeno non da sempre. Abbiamo forse avuto lo stesso destino, Adele, solo in modo diverso... solo in modo diverso», scandisce.

«Che cosa ti hanno fatto?», chiedo chinando la testa e osservando i suoi tristissimi occhi.

«Tanto male quanto hanno fatto a te, Adele.»

«Da molti anni nessuno mi chiama così, mi suona quasi strano», dico per rompere quel doloroso momento.

«Cerchi di farmi sorridere perché ti faccio tenerezza, ma tu hai avuto una vita tanto difficile. So che non deve essere stato facile. Hai cresciuto quelle bambine come fossero tue, e le tue scelte ruotavano sempre attorno alla loro vita. Per questo hai lasciato Holt, vero? Per loro.»

Annuisco. Questa donna sembra conoscermi da sempre. Sembra quasi che percepisca i miei pensieri e le mie emozioni.

«Maria aveva compiuto quattordici anni... Non potevo permettere che facessero a lei ciò che giornalmente pativo. Di notte svegliai tutte e tre e le portai via da quella lurida casa. La malattia che aveva contratto nostra madre anni prima era tornata, ma per noi era il minor problema rispetto a quello che ci sarebbe accaduto non appena il padrone si fosse accorto della nostra assenza. Fuggimmo per giorni. Dormimmo sotto i ponti e ci nutrimmo di rifiuti gettati nell'immondizia appartenente ad altri. Nonostante tutto nessuna di noi si ammalò e giorno dopo giorno riuscimmo ad allontanarci sempre di più dai sobborghi di Holt.»

«Così siete arrivate fin qui...», interviene Luna, faccio cenno di sì.

La giovane osserva i mazzi di varie specie di piante accanto la casetta. 

«Una strega buona.»

Aggrotto le sopracciglia. Lei capisce la mia confusione.

«Ti credono una strega, ma io ti vedo come una strega buona. Chi creerebbe medicine per far star meglio gli altri!»

«Non sono una strega, questo è un dato di fatto, ma che io sia buona non sono sicura. Ho fatto tante cose brutte, tesoro» affermo mentre muovo la testa su e giù.

«Mi risulta difficile crederti, i tuoi occhi sono buoni.»

«I miei occhi sono quelli di una donna che ha visto troppo nella vita.»

Mi sento improvvisamente stanca, una forte sonnolenza mi disturba. Sono costretta a chiudere gli occhi. Da qualche secondo ho smesso di parlare. Si volta nuovamente verso di me, lo percepisco seppur sono dormiente, i miei occhi sono ancora chiusi...  Mi scuote delicatamente.  

«Non puoi dormire, devi star sveglia... Cosa accadde quando arrivaste qui a Fear Lake?»

«Ho tanto sonno... ho tanto sonno», insisto.

Un fruscio di foglie cattura la mia attenzione, alzo le palpebre improvvisamente e comincio a guardare attorno a me, scruto, cerco...

«Che succede?», chiede Luna.

Porto l'indice sulle labbra facendole segnale di stare in silenzio. Le foglie sono adesso immobili. Tutto di nuovo tace. Vedo lei osservarmi come se si aspettasse una spiegazione. Ingerisco la saliva che mi si era formata in bocca, asciugo le labbra umide col dorso della mano. Aspetto ancora per capire se ci sia movimento, improvvisamente un piccolo soffio di vento fa strusciare nuovamente tra loro le foglie. Non c'è d'aver paura, è solo quello a farle agitare. Non mi sento ancora pronta per dirle della Belva. Lo farò a tempo debitoScelgo di non rivelarle ancora cosa stessi cercando con lo sguardo tra i cespugli lontani. Le mormoro solo di star tranquilla e che tutto va bene. Rispondo alla domanda che mi aveva fatto in precedenza, cambiando così discorso, con la speranza che la donna non mi chieda nuovamente del perché osservavo quel punto in particolare del bosco.

Mi giro verso di lei, osservo i suoi occhi: «Volevi sapere cosa accadde appena arrivai qui a Fear Lake con le mie sorelle?»

«Sì», risponde un attimo perplessa.  Capisce che la mia domanda serve a smorzare qualcosa. Ma lei stessa sceglie di non insistere. China più volte la testa per segnalarmi di continuare.

«Fu quando arrivai qui che scoprii di essere incinta.»

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