s e v e n
Il CD
Mi sento vuota. Nel petto, sì, proprio lì. Sento come una voragine e non si vuole riempire, non vuole chiudersi. Ci ho provato in mille modi: con il cibo, ma l'unico risultato è stato quello di diventare una balena di sette anni, con gravi problemi a socializzare e dei genitori preoccupati, ci ho provato facendo la dieta e mangiando libri al posto di hamburger, ho provato a riempire quel vuoto con l'orgoglio mio e dei miei genitori, diventando magra e acculturata, studiando costantemente... Ma niente. Sono vuota.
Ho un corpo, ma la mia anima sembra essere volata via, da qualche parte e io non riesco a vederla, nè a sentirla. E fa male, certe volte. Quella voragine mi provoca delle fitte, fitte immense. Uno dei pochi sentimenti che questo involucro mi permette d'avere.
Sono stanca.
Sono stanca di tutto questo tormento.
È tutta la vita che me lo ripeto. A sette anni, i bambini avevano paura di me, perché non sorridevo quasi mai e facevo notare cose terrificanti, che loro non avrebbero mai pensato. Ero cicciona, denigrata e il vuoto si faceva sempre più grande. Avevo persino pensato al suicidio. Certe volte mi dicevo: "Sì, dall'ultimo piano, ma prima finisco questo libro". Ebbene sì. Ecco cosa mi tenen in vita: i libri. Libri come "Il Cavaliere Inesistente", che parlava di una persona come me: Burdulù, un uomo con un corpo ma senza una coscienza, senza un'anima, o anche "Dorian Gray", con il suo quadro a riflettere la sua vera essenza. Forse avrei dovuto scrivere un libro su di me. Insomma, sono un'involucro con un quoziente intellettivo di 160 ovvero con un'intelligenza pari a quella di Einstein e senza un'anima. Curiosa, no? Beh, evidentemente non per i miei compagni. Anche dopo essere dimagrita ed essere diventata più carina, mi trattavano come lo scarto della cucciolata.
A undici anni, mi avevano classificata come "quella stramba". Ero intelligente e obiettiva, avevo anche provato a essere più simpatica, ma la ragione prendeva sempre il sopravvebto e i miei muscoli facciali sembravano paralizzati sempre nella stessa posizione. E basta. O almeno questo era quello che mi dicevano i miei genitori. Loro mi volevano tanto bene. Erano sempre al mio fianco, quando piangevo, mi ricordo, che mi sdraiavo sulle loro gambe e papà mi accarezzava le cosce, mentre la mamma i capelli. Mi sussurravano parole dolci, dicendomi che non ero affatto un mostro, ma solo più intelligente. Mi dicevano che ero speciale. Mio padre poi suonava un po' la chitarra, per tirarmi su il morale e tutto passava. Ma non quel vuoto. Quel vuoto era sempre presente.
Mi accompagnò per tutta la vita. Io imparai a nasconderlo, imparai i gesti usuali delle persone normali, quelli che trasmettevano le emozioni e imparai ad interagire come una persona normale, pur sapendo di non esserlo. Era strano per me, pensare una cosa e dirne un'altra. Solitamente dicevo tutto ciò che mi passava per la testa, alcune volte ferendo anche le persone e per questo rendendomi antipatica. Ripensandoci mi sento ingenua. Non riuscivo proprio a controllare la lingua... Ma imparai.
Studiai psicologia. Più per me, per farmi capire come funzionavano gli esseri umani, che per i miei futuri pazienti.
Ero brava a capire le persone, anche se non riuscivo a capire bene me.
Quando iniziai a lavorare, tutto andava a gonfie vele. Avevo degli amici, anche se nessuno sapeva chi ero io realmente, avevo reso fieri i miei genitori, cosa più importante, e avevo coperto quel buco, sperando di non inciampare e caderci dentro nuovamente.
Sì, stava andando bene, ma se sarebbe potuto andare meglio?
Ed ecco che la risposta arrivò. Arrivò insieme ad una donna, sulla mezza età, un sorriso accogliente e una buona proposta, che accettai senza rimpianti. Salutai i miei genitori, promettendogli che sarei tornata presto e che li avrei chiamati spesso, poi partii alla volta di Ashford.
Lì avrebbero potuto colmare quel vuoto.
Ci riuscirono.
•••
Le dolci note di Supermarket Flowers, una canzone di quelle sdolcinate, cantate con solo il pizzichio di una chitarra in sottofondo, accompagnavano la camminata veloce e frettolosa di Rebeka, che non faceva altro che pensare a ciò che le sarebbe dovuto uscire dalla bocca. Tra tutte le scuse che aveva usato nella sua vita, proprio non aveva idea di cosa tirare fuori per giustificare il suo primo ritardo al suo nuovo lavoro. Fare la psicologa in uno studio tutto suo non le piaceva più. Ora voleva avventurarsi in qualcosa di più pericoloso. Il suo cuore faceva scintille e lei si sentiva felice ed eccitata. Ma in quel momento era anche preoccupata. Qualcosa come "non succederà più" sarebbe stata banale e sicuramente sarebbe apparsa fasulla, perciò pensò di optare per un "mi scusi, colpa del traffico", quando invece la colpa era stata sua e di nessun altro, probabilmente per la sua stupida incapacità di non sapersi mettere le lenti a contatto.
Si massaggiò le tempie con due dita delle mani. Lo faceva spesso, senza accorgersene. Lo si nota quando si passa un'intera serata con lei a parlare di cose delicate davanti ad un piatto stracolo di patatine e ketchup. Era prevedibile. Ovviamente non gliene si fa una colpa, ma avrebbe forse dovuto sviluppare quella sua pecca e trasformarla in un'arma.
Si tirò una ciocca dietro l'orecchio. Altra cosa prevedibile. L'ansia e il nervosismo stavano prendendo il sopravvento. Si lasciava prendere troppo dalle emozioni, ora che le aveva. L'ansia, il nervosismo... sono cose create solo dalla mente, cose che una persona allenata e con sensi più acuti di altri riesce a placare e dominare, ma non molti hanno questa capacità... e, beh, dopo tutti quegli anni passati a non provare niente, ora che ci riusciva, era un libro aperto. Quei gesti d'imbarazzo come la ciocca dietro l'orecchio o il labbro morsicato, o il mangiucchiarsi le unghie, o il massaggiarsi le tempie sono delle ulteriori invenzioni della mente per aiutare la persona a oltrepassare le proprie apparenti paure. Rebeka lo aveva studiato. Aveva studiato davanti allo specchio quei movimenti, innumerevoli volte e finalmente le venivano senza pensarci.
Arrivò davanti ad un cancello. Quasi non se ne accorse... era tanto distratta che per poco e non passò avanti, aggravando ancora di più la sua situazione. Lo guardò per qualche secondo, spaventata. Era molto alto e ampio, grigio, appena riverniciato, ma, soprattutto, era spalancato, e ciò voleva dire che o era ancora in tempo per non fare una figuraccia il primo giorno di lavoro, o Jarry, il portinaio, si era scocciato di aspettare i ritardatari e aveva lasciato aperto per andarsi a fumare qualche sigaretta sul retro della struttura. La cosa più ovvia sarebbe stata la seconda, ormai era a dir poco oltre l'orario di entrata ed è inutile dire che, conoscendo il portinaio, avrebbe lasciato aperto anche di notte pur di riuscire ad avvelenarsi con quelle stupide sigarette.
Rebeka si fece coraggio. Strinse la borsa a tracolla, la sua adorata borsa a tracolla, cercando di convincersi a fare il grande passo. Quella borsa... sì, proprio quella borsa era stata la compagna di tante avventure, di tanti viaggi: l'aveva accompagnata da ogni parte! Prima al college, quando l'aveva comprata assieme alle sue amiche, in una serata tra ragazze, qualcosa che si ripetè spesso (non poteva affatto dire che fosse stato un peccato), poi al suo diploma e ai suoi piccoli lavori pomeridiani, dove aveva nascosto i numeri di telefono dei ragazzi del bar e bigliettini fra compagne che il capo mai avrebbe dovuto vedere. Sto divagando? Sì, forse sì.
Comunque... la ragazza s'incamminò a passo ancora più veloce verso l'entrata preparando il suo badge. Sopra c'erano stampate lettere e numeri, ma soprattutto, ciò che le era da sempre piaciuto quando il giorno prima glielo diedero alla fine del colloquio, fu una scritta più grande delle altre, che risaltava più delle altre. Accanto all'immagine di una ragazza bionda, ordinata, dagli occhi innocenti color nocciola con un camicie bianco e una camicetta rosa sotto, c'era la scritta Dott.ssa Miller.
Quella ragazza era lei e quello era il suo nuovo nome professionale.
Con quell'ebete sorriso sulle labbra entrò nella grande struttura e subito si diresseverso l'ascensore che l'avrebbe portata al piano che le era stato indicato. Primo piano. Quella dannata struttura era un labirinto. Da fuori sembrava una semplice struttura rettangolare, bianca dalle ampie finestre a specchio, ma in realtà c'erano cinque piani sottoterra e cinque piani d'altezza. Lei doveva andare al quarto. In superficie probabilmente.
Finalmente l'ascensore arrivò e ci entrò come un fulmine, perchè non voleva che nessun altro la vedesse così nervosa, accaldata e scomposta. Schiacciò il pulsante e le porte si chiusero. Il piede iniziò a battere per terra da solo, ad una velocità inaudita, dettata dal nervosismo. I suoi respiri si fecero pesanti e i suoi occhi iniziarono a divagare su tutti i dettagli dell'ascensore:
il tappetino era nuovo di zecca, probabilmente a causa di un'aggressione. Ai lati dell'ascensore, proprio agli angoli, infatti, erano rimasti residui di sangue secco, ma risalente a... due giorni prima. Oltretutto c'erano altre macchie di sangue quasi a dieci centimetri sopra la testa di Rebeka, ciò stava a significare un ricoverato molto aggressivo, potente e alto tanto da riuscire a scansare una guardia e, nel lasso di tempo di... -Rebekah questa volta impiegò qualche secondo in più per ragionare- 2,36 secondi, prendere la spinta e sbattere la faccia della seconda guardia ai lati dell'ascensore per poi lasciarla scivolare a terra proprio all'angolo dove aveva continuato a sanguinare per un po' di tempo; -la ragazza girò più volte su sé stessa, convinta di non aver ancora concluso la sua autopsia, poi le risposte le arrivarono a fiumi, e ricominciò a seguire il velocissimo filo dei suoi pensieri- infine stordì la seconda guardia scaraventandola contro lo specchio. Come hai fatto a capirlo? Lo specchio è appena stato cambiato e, mentre tutt'intorno, l'ascensore di legno è graffiato e sfregiato, la cornice dello specchio è perfettamente incolume e non presenta tagli o ditate come sarebbe comune che uno specchio si presenti... in un luogo come questo.
La porta dell'ascensore si aprì con un suono che destò improvvisamente Rebeka, riportandola nel nostro mondo reale. Scese e riprese la sua corsa contro il tempo per andare da quello che l'avrebbe seguita per un mese per decretare se sarebbe stata un'opportuna e brava dottoressa. Tutti si giravano per guardarla, straniti, poi scuotevano la testa e continuavano per il loro cammino, con cartellette e raccoglitori in mano, senza badare troppo alla nuova arrivata che, probabilmente, per quel ritardo, non avrebbero visto mai più, se non in lacrime verso l'uscita di quell'edificio tra dieci minuti.
Ma la ragazza non demordeva. Continuava spedita verso la stanza che le era stata indicata. Lì avrebbe incontrato un dottore che le avrebbe spiegato i suoi compiti e poi l'avrebbe lasciata al suo lavoro, ma restando dietro di lei come un'inquietante ombra. Era convinta di potercela fare. Anzi, era sicura che ce l'avrebbe fatta.
Rebekah, alla fine quasi si mise a correre, sembrava una scena comica a prima vista, ma non lo era. Quelle stupide voci le avevano fatto venire il dubbio che forse non l'avrebbero presa e che forse il lavoro per cui aveva speso tempo e tutta la sua vita sarebbe andato perduto.
Beh... certamente buttarsi di slancio in quella stanza, non fu una buona idea, ma se ne accorse troppo tardi. Era già entrata e il dottore si era già girato verso di lei, con un sopracciglio alzato e gli occhi divertiti. Giovane!, fu il primo pensiero di Rebekah. Era un uomo alto, avrà avuto pochi anni più di lei, affascinante, dagli occhi azzurri, un azzurro forte e d'impatto, il fisico asciutto, reso ancora meglio dal camicie bianco e la camicia azzurra al di sotto di esso, dei capelli corti biondi, e una barbetta niente male.
Non fissarlo, Rebekah.
Non lo fece.
Sorrise, come una dottoressa sorride ad un altro dottore, poi abbassò lo sguardo, mortificata.
«Mi dispiace... io...»
Quando alzò lo sguardo verso il dottore, però, non riuscì a trattenersi davanti a quegli occhi così... comprensivi e reali. Non riuscì a dire una bugia. Si sentiva come in dovere di rivelargli la verità. «Voglio dirle la verità...»
«No, la prego, non lo faccia...». Rebekah trattenne il fiato. L'avrebbe buttata fuori. Sì, su questo era sicura. Era già pronta a restituire il badge e cercare subito un altro lavoro alla quale sarebbe stata accettata. Iniziò subito a pensarci. Il dottore sembrò notare il nervosismo, perciò, per alleggerire la tensione, sorrise, si alzò e si avvicinò a lei, sempre con le labbra distese a mostrare i denti bianchi. «La verità è così noiosa!», esclamò divertito. Sinceramente Rebekah non ci trovò nulla di divertente, anzi, le sembrava quasi inquietante, ma se ridere o comunque mostrare interessamento le avrebbe dato un'opportunità in più per restare lì, allora non avrebbe dovuto perdere tempo. Alla fine gli sorrise.
Una cosa ancora più inquietante, fu che la sua mente, taceva. Non una sola parola, non un solo sussurro, nessun suggerimento stupido o meno che sia. Forse era riuscita a far smettere quel continuo borbottio. Che finalmente fosse riuscita a scollegarsi? Nah, non funzionava così, ma lei non aveva nemmeno l'intenzione di scoprirlo!
«Mi scusi», riuscì a proferire con un filo di voce. Abbassò di nuovo il capo, lasciando che i biondi capelli spettinati le potessero coprire le guance vermiglie.
«Capita a tutti!» disse girandosi e iniziando a trafficare con dei fogli e delle cartellette. Rebekah osservò la stanza, e poi osservò il dottor... «Comunque io sono il Dottor Michael Ryder». Le porse la mano. Restarono entrambi immobili per qualche secondo. Lui perché ancora aspettava che la giovane donna che le stava di fronte si presentasse, lei, perché concentrata a captare ogni dettaglio nella figura del dottor Ryder. Come se già sentisse la mancanza di quelle vocette! L'aria si fece tesa, ma questo riuscì ad avvertirlo solo il dottore, perchè solo lui era lì in quel momento.
Rebekah si riprese prendendo una grande boccata d'aria, come se fino a quel momento fosse stata sott'acqua.
Afferrò la mano del dottore, ancora tesa e la strinse con vigore, scuotendola con altrettanta foga.
«Dottoressa Rebekah Miller» rispose frettolosamente. Continuò ad osservarlo, più che altro perchè gli piaceva, era un bel tipo. Ma il ragazzo sembrò, più che altro, un po' perplesso da quei comportamenti così insoliti. Cercò di lasciar perdere. Probabilmente non sarebbe sopravvissuta nemmeno un mese lì dentro. Da come l'aveva inquadrata era una ragazzina paurosa, molto insicura, distratta e nel suo mondo. Insomma: non vedeva l'ora di levarsela dai piedi.
«Benissimo, Miller, posso chiamarti così, no?». Michael alzò gli occhi azzurri dai fogli puntandoli su quelli nocciola di Rebekah.
no
Troppo difficile rispondere negativamente. Annuì. «Come puoi immaginare non sarà tanto semplice lavorare qui dentro... i rischi sono alti, questi uomini sono molto aggressivi e il tuo compito da terapista e dottoressa è quello di cercare di riportarli... alla normalità» disse. Sembrava sforzarsi a non parlare in termini scientifici, forse pensando che Rebekah non fosse brava in quel campo. Ma la ragazza non se la prese, anzi: non lo notò neppure. I suoi occhi erano incappati ad osservare le mani di quell'uomo. Aveva delle bellissime mani.
"Suona il violino, o la viola, non so dirlo con precisione. È bravo, si esercita tanto, un'ora o due, è molto appassionato, il suo autore preferito è Beethoven... ma all'inizio voleva suonare pianoforte e suo padre lo costrinse a studiare violino e alla fine, lui si ritrovò ad amare anche quello. Come fai a dirlo? Le sue dita e i palmi delle mani hanno vari calli, segno che suona molto spesso, i polpastrelli della mano sinistra sono segnati da piccole linee, ciò significa che stava suonando fino a poco fa. Persino nel suo studio tiene degli spartiti: tre visibili e sparsi per la stanza, tutti di Beethoven, sicuramente un libero professionista, quindi mi sembra ovvio dedurre che il suo compositore preferito è Beethoven. In un angolo possiede delle casse e affianco dei CD, per lo più di Mozart, per pianoforte, quindi è un appassionato di pianoforte, mi sembra ovvio che avrebbe voluto suonare quello, ma il padre -ovvio che sia il padre, le madri lasciano più liberi i figli, soprattutto i figli maschi, è una questione di psicologia, troppo lunga da spiegare- preferì che lui imparasse a suonare il violino. Perchè? Non ne ho la più pallida idea."
«Innanzitutto voglio vedere come te la cavi... avevo chiamato dei dottori per farti preparare una stanza, dove parlerai con uno dei ragazzi che taniamo qua da più tempo.». Si diresse verso la porta, facendole segno di seguirlo. Lo fece velocemente. Non voleva più fare brutte figure. Ora doveva dimostrare che poteva farcela. Doveva tirare fuori tutta la grinta che possedeva in corpo e mostrargliela sul campo.
Prese un grande respiro.
La tranquillità improvvisa le fece venire un lungo brivido sulla spina dorsale. Rilassò le spalle, sorrise, camminò sciolta.
Tutto sistemato.
Il nervosismo era quasi sparito.
Come ho già chiarito prima, non tutti riesco a placare completamente le emozioni. Ma riuscirci almeno in parte, è già un inizio. Rebekah, era agli inizi.
Seguì il dottore fino all'ascensore, quello di prima, con le macchie di sangue. Una domanda iniziò a spingere per riuscire ad uscire dalla bocca. Era davvero tentata di fargliela che... non riuscì a fermarsi.
«Capita spesso?», chiese, ma, evidentemente, Il Dottor Ryder non intese il messaggio. «Sì, insomma, delle risse» Rebekah divenne rossa, indicando le macchie di sangue. Il ragazzo sembrò sorpreso.
«No, non molto spesso.» e il discorso si chiuse lì.
Rebekah non cercò di fargli altre domande, né lo guardò più o gli proferì parola. Preferì restare in silenzio e ascoltare la musica che continuava ad andare nella sua testa. Era uno dei tanti modi che utilizzava per far andare via lo stress senza far notare di essere stressata.
L'ascensore si aprì. Si affrettarono a scendere.
La ragazza rimase senza fiato, uscendo da quella confortevole scatoletta. Il corridoio era mal illuminato da luci tremolanti appese al soffitto. Tutto sembrava fatto apposta per incutere timore e nervosismo. Si fece coraggio.
A due metri dall'ascensore, su entrambi i lati, c'erano delle grate e oltre quelle delle guardie. Questo era pressante. Le guardie aprirono la cella. I due passarono. Le guardie la richiusero. Rebekah si sentì in trappola.
L'unica trappola esistente è la tua mente. Se sei schiava della tua mente: sei prigioniera. Se riesci a dominarla: sarai sempre un passo avanti agli altri, perché sarai libera.
Sentì quelle parole come un'eco lontano, che la schiaffeggiò in pieno viso, lasciandola a bocca aperta per qualche secondo, scossa da quei ricordi che le parvero davvero lontani dal presente.
Porte bianche iniziarono a susseguirsi a destra e a sinistra, in acciaio, rinforzate, contraddistinte solo da un numero marcato in nero. La stanza che avrebbe utilizzato quel giorno era la numero 27.
Gli occhi della ragazza corsero di porta in porta, sperando che quel numero non arrivasse mai, ma arrivò. Per Michael fu facile aprire quella porta dalla quale provenivano borbottii simili a bestemmie e imprecazioni, ma Rebekah faticava anche solo ad avvicinarsi di qualche altro passo. Sospirò, rendendosi conto che ancora una volta aveva perso il controllo.
Domina la tua mente Rebekah.
Come se fosse facile!
Entrò anche lei nella stanzetta. L'interno non era affatto confortevole, ma del resto, se fosse stata carina e coccolosa avrebbe stonato con il corridoio...
L'unico arredamento della stanza era un tavolo di acciaio, ben ancorato al terreno e due sedie di plastica. Una era vuota, mentre l'altra... L'altra ospitava un uomo, il paziente di cui le aveva parlato Michael.
Ecco il loro primo incontro...
Era grande e grosso, aveva corti capelli neri... Rebekah si sedette davanti a lui, senza nemmeno accorgersene. Il Dott. Ryder la guardava da un angolo della stanza, assorto nei suoi pensieri tediosi. Il volto dell'uomo era duro, con lineamenti marcati, occhi piccoli, sopracciglia folte e la barba. Era affascinante, questo doveva ammetterlo anche Rebekah, anche se con imbarazzo.
Solo dopo pochi secondi che lo osservò riuscì a concentrarsi invece su ciò che aveva davanti. Una cartelletta. Il cartoncino giallo che faceva da copertina era ormai rovinato e i tanti appunti degli altri terapisti ormai non ci stavano più e straripavano.
Lesse solo il nome dell'uomo. Avrebbe letto dopo ciò che avevano scritto i suoi predecessori.
«Adam Sisley...» gli sorrise, sincera. «Io sono Rebekah Miller, chiamami come preferisci...» disse ancora. Il silenzio era davvero insopportabile e lo sguardo neutro dell'uomo la metteva in soggezione. Sicuramente non era uno a cui piaceva fare conversazione... Aprì la cartelletta e diede una veloce occhiata. «Ossessivo compulsivo, problemi di personalità, violenza, tossico-dipendente...» alla ragazza scappò una leggera risata che lasciò perplessi sia il dottore che l'uomo davanti a lei. «Certo che te ne hanno dette di ogni... ma secondo me hanno esagerato, non trovi anche tu?» l'uomo non rispose.
bene Rebekah, è ora di sfoderare la tua arma migliore
non dovresti farlo
FALLO
«Io credo che tu abbia avuto un brutto passato... padre violento, no? Quei tagli sul braccio e quelle cicatrici sul collo sono molto vecchie, sicuramente non te le sei inflitto da solo! I buchi sul braccio indicano certamente che eri e sei tutt'ora un drogato, o mi sbaglio? Sei stato convocato con urgenza, ma scommetto che stavi sniffando un po' di roba nella tua stanza... Ve la porta la guardia che supervisiona il cancello, giusto? Era preoccupato quando ci ha visti arrivare... voi ovviamente la finite prima di sera. Potrei concordare anche sulla violenza... Due giorni fa, infatti hai aggredito due guardie in ascensore» l'espressione dell'uomo si distese e con sorpresa si lasciò andare sulla sedia. Certo, non era stata una delle sue performance migliori, ma era riuscita a fare una diagnosi parziale. «Credo sia stata una mossa stupida... Non avevi un piano, hai colpito come ti capitava, se non fossi stato così veloce, probabilmente ti avrebbero ammazzato con il taser... Ma l'hanno fatto lo stesso le guardie fuori dall'ascensore...» la ragazza aggrottò la fronte. «Bene, possiamo togliere problemi di personalità e aggiungere schadenfreude, cioè provare piacere per la sofferenza degli altri, sei d'accordo, Adam?» aprì la cartelletta aspettando una risposta dal paziente, ma lui sembrava non riuscire a spiccicare parola.
«Che razza di mostro sei, ragazzina?» aveva un vocione molto forte, che quasi fece vibrare le pareti della stanza, ma vedendo che Rebekah era confusa si voltò verso il Dottor Ryder, che pareva sconvolto a sua volta. «Che razza di mostro mi ha portato, Dottor Idiota?» chiese con disprezzo. Michael sbattè le palpebre un paio di volte, ancora confuso.
«Risponda alla domanda della sua nuova terapista, signor Sisley.» disse duro, ricomponendosi. Quella frase rese Rebekah la persona più contenta sulla faccia della terra, ma non lo diede a vedere. Doveva rimanere seria per tutta la durata del colloquio.
L'uomo si girò nuovamente verso la ragazza, che ancora aspettava con la penna in mano.
«Faccia quello che vuole, è lei la terapista» sbottò.
«Esattamente, Adam! Io sono la terapista e lei il mio paziente. Io posso dedurre ciò che ha, ma lei deve confermarmelo, non le pare? Non posso mica parlare da sola, non crede? Non sarebbe una conversazione» disse con un grande sorriso stampato sulle labbra. Adam arricciò le labbra e si strofinò il naso con la manica della felpa grigia.
«Lo faccia.» disse sicuro.
«Ciò vuol dire che...» Rebekah gli fece segno di continuare a parlare. Lui non la guardò male, la guardò malissimo.
«Non sono un bambino» ringhiò. Il Dottor Ryder stava per intervenire, portando già la mano alla tasca, dove sicuramente teneva un taser, ma Rebekah lo bloccò con un gesto della mano.
«Lo so, ed è proprio per questo che le sto chiedendo di spiegarmi come mai ho ragione e perché dovrei scrivere che provi piacere nella sofferenza degli altri...» la ragazza si sistemò meglio sulla sedia. La tensione si stava man mano alleggerendo. Era quasi piacevole parlare con lui.
Adam sembrò pensarci un bel po'.
«Come ha detto lei, dottoressa» il suo sguardo si incupì. Rebekah si ritrovò a provare delusione, avrebbe voluto continuare, perché improvvisamente aveva capito un'altra cosa molto importante, ma il dottor Ridley non le diede nemmeno altri cinque minuti. Il tempo era scaduto.
«Beh, direi che ho davvero... ammirato la sua tecnica di osservazione dei pazienti...» queste furono le prime parole di Michael quando entrammo nel suo studio. «Avremo bisogno di lei, Dottoressa Miller! Domani alla stessa ora, stavolta sia più puntuale. Le darò il suo orario e i suoi pazienti domani, per oggi può andare». Abbassò lo sguardo subito, cosa che Rebekah non riuscì a decifrare.
Dovresti andartene...
Ma lei restava ferma. Non voleva muoversi. Sapeva di dover fare una richiesta, ma non ne aveva il coraggio.
«Il suo primo paziente sarà Adam Sisley se è questo che deve chiedermi, Dottoressa.» questa frase la spiazzò, ma non seppe dire nulla se non "Grazie, Dottore", poi si affrettò a correre via, felice, fuori da quella struttura verso il suo modesto appartamento poco lontano.
...
Dieci giorni.
Passarono solo dieci giorni e già aveva fatto mille progressi. La sua tecnica sembrava la più efficace che qualsiasi altro dottore avesse mai sperimentato. E lei si sentiva così importante, così realizzata che iniziò a ringraziare chi l'aveva istruita con tanta severità. Non le era mai capitato di farlo, ma tutto quel potere, quasi le piaceva. Le piacevano le attenzioni dei suoi colleghi che ad ogni pausa pranzo le facevano mille lusinghe con l'unico scopo di farsela amica e poi scoprire i suoi segreti. Anche se era a conoscenza della loro meschinità, sapeva di averli in pugno. Tutti quanti. Persino il Dottor Ryder.
Aveva già fatto uscire due uomini, ovviamente sotto sorveglianza vigilata e ormai avrebbero avuto bisogno di una seduta alla settimana che si sarebbe trasformata in una seduta al mese e poi ogni due mesi e poi ogni tre.
Uno dei suoi rompicapi preferiti, però, restava sempre quello di Adam. Lui sarebbe uscito tra pochi giorni. Cinque forse. Aveva fatto grandi progressi con Rebekah. Avevano un certo feeling.
...
Passarono tre mesi.
Tre lunghi mesi nei quali accaddero tante cose. Adam non era più in sorveglianza vigilata, ma comunque aveva un ordine restrittivo di restare in casa.
Rebekah non era più la sua dottoressa. No, ormai stavano insieme da due mesi. Si amavano. E nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Vivevano insieme, ormai e vivevano bene. Sì: erano felici.
Beh, finchè non successe... quella cosa.
Incomprensioni. Stupide incomprensioni e poi... una telefonata.
Adam l'aveva presa per sè, prima che lei andasse a lavoro e poi le aveva rivelato qualcosa che voleva dirle da tempo. "Ti amo". Dolce, romantico. Certo, se solo lei, poi non fosse rimasta senza parole e non fosse scappata via, dicendogli che ne avrebbero riparlato quando sarebbe tornata. Ma lo avrebbe fatto? si chiese Adam, con un moto di rabbia misto a terrore che iniziava a scorrergli nel petto.
Passarono ore e ore. Lui aspettava con speranza che lei tornasse a casa dal lavoro. Chiuso in casa, con la testa fra le mani e nemmeno una birra a disposizione per sfogarsi almeno un po'.
Poi squillò il telefono.
Non so cosa gli abbia sussurrato con parole crudeli, violente e tentatrici il Giocatore, ma qualunque cosa gli abbia detto, deve aver lasciato il segno. Adam era tornato quello di una volta, la bestia che era stata rinchiusa in un manicomio senza troppe cerimonie perchè incontrollabile. Era tornato ad essere un animale. Ed era un animale arrabbiato, pieno di rancore e con tanta tanta voglia di fare del male. A chiunque.
Non aspettò il ritorno di Rebekah con le mani in mano. Distrusse metà della loro dolce casetta, che con l'andare avanti dei giorni avevano ristrutturato e reso più accogliente. Distrusse le loro foto e il dolore si trasformò in rancore e il rancore in rabbia e la rabbia in odio.
Dopo aver sbollito parte del suo rancora, iniziò a fissare la strada, in attesa che lei tornasse. Perchè sarebbe tornata, e lui ne era sicuro. Non era una che si lasciava spaventare così facilmente e certamente non pensava che lui avesse avuto intenzione di ucciderla per quel rifiuto.
E finalmente arrivò, con mezz'ora di ritardo, ma con una busta blu in mano.
Vuole lasciarla qui davanti e poi andarsene una volta per tutte.
E l'odio si trasformò in ira e smania di uccidere.
Aprì la porta come una furia, ringhiando. Quando lei lo vide rimase sconcertata davanti a quella vista. Non riusciva a spiegarsi come mai fosse in quello stato. Poi capì. Qualcuno doveva avergli detto qualcosa, qualcuno deve averlo stimolato a pensare cose sbagliate e quando una cosa tira l'altra...
Rebekah non riuscì a dire nulla, nè a difendersi.
Adam la colpì al cuore con un coltellaccio da cucina e la vide cadere lentamente, come a rallentatore, mentre le sue mani lasciavano la busta blu e i suoi occhi perdevano vita diventando vacui. Cadde a terra morta e intanto iniziarono a sentirsi le sirene della polizia, richiamati dal segnale di Adam che era uscito di casa.
L'uomo, che ormai sembrava aver riaquistato il senno, cadde in ginocchio di fianco al cadavere di Rebekah. Le accarezzò il volto e chiuse gli occhi, trattenendo le lacrime.
Poi il suo sguardo venne catturato dalla busta blu, a pochi centimetri dalla mano fredda di lei. La prese, mentre man mano le macchine della polizia circondavano il perimetro.
L'aprì. Al suo interno c'era un CD.
E sopra c'era scritto: TI AMO ma non sono brava con lai parole, quindi...
Così, Adam venne riportato nel reparto di psichiatria, tra le lacrime, urlando, strappandosi i capelli e dicendo: Mi dispiace! Mi ha tentato! È stato lui! È stato il Diavolo!
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