Capitolo 4 - CACCIA ALLE STREGHE - finale

Il rumore degli zoccoli di un cavallo mi riscuote dai miei pensieri. Mi stringo contro la parete della piccola via e il soldato a cavallo mi ringrazia con un cenno della mano. I ciottoli della pavimentazione delle strade sono pregni di umidità; quel sentore di muschio che solletica i sensi, rievocando sensazioni vissute ogni giorno nel mio breve passato.

Adoro la vivacità che caratterizza questa zona della città. Sentieri stretti tra gli edifici delle botteghe, dove le persone si muovono fianco contro fianco, come un branco di pesci in un acquario. Sono le prime ore del meriggio e il traffico è particolarmente intenso. Tra l'inteso brusio che mi circonda, distinguo lo sfrigolare delle lame dell'arrotino sulla mola. Il coltello arroventato emette una cascata di scintille, rischiarando come un piccolo fuoco d'artificio il portico dove l'uomo svolge l'attività.

«Buongiorno» mi saluta una signora anziana. Ha una selva di rughe e due piccole fessure al posto degli occhi che sembrano sorridermi. Sventola alla mia attenzione un bouquet di fiori d'ibisco con il quale carezza i miei sensi. Me ne offre un mazzo per poche monete, ma sono costretta a declinare gentilmente l'offerta.

In piedi, sopra un piccolo sgabello, un mercante urla a squarciagola, eccitando uno sparuto numero di massaie, in adorazione davanti a un lungo abito di raso ricco di decorazioni floreali.

«Signorina, ha fame per caso?»

Sento toccarmi una spalla e con la coda dell'occhio colgo un ragazzo poco più grande di me allungarmi un bastoncino di legno con in cima un oggetto dalla forma sferica. Il profumo di zucchero e cannella esalta il mio stomaco, rievocando dolci ricordi d'infanzia; quando da piccola accompagnavo al mercato mamma e papà, spesso mi compravano una mela caramellata come quella.

Non so diniegare la gentile offerta e infilo una moneta nella mano del venditore, trovandomi in men che non si dica a mordere il dolcetto, assaporandolo con lo stesso entusiasmo di una decade fa. In estasi, sbatto contro la schiena minuta di una donna rovesciando il contenuto della cesta che portava al braccio. Imbarazzata mi scuso, offrendomi di raccoglierne il contenuto. La donna, anzi la ragazza, reagisce spalancando la bocca e dopo un istante anch'io imito lo stesso gesto.

***

« Alteria!»

«Theresa!»

«Sei proprio tu?» Dissero all'unisono le due giovani, poi si unirono in un prolungato abbraccio.

«Incredibile, cosa ci fai qua?»

«Theresa, ti trovo benissimo!» rispose Alteria, ignorando la domanda che le era stata posta. Ne ricordava le dita canute e il corpo scheletrico, le pesanti occhiaie sotto quello sguardo dove era stata smarrita la luce della gioventù. A pochi mesi di distanza ritrovava una splendida ventenne con lunghi capelli neri sciolti, fasciata in una veste che ne esaltava la femminilità. Sepolto sotto le macerie dell'oblio era il suo triste passato in cui, schiava della terribile ombra del bracciale, aveva commesso l'omicidio del suo pargolo.

Theresa comprò a sua volta un'altra mela caramellata e trascinò l'amica per il braccio, fino a una panca di legno.

«Ho migliaia di cose da raccontarti, ma prima devi dirmi perché ti trovi qui? Sei in qualche missione?» La ragazza si ritrasse come se l'amica avesse qualche malattia contagiosa. «Per la Dea, non dirmi che c'è qualche altra ombra in giro?»

«No-no, nulla di tutto ciò» la tranquillizzò subito, notando l'accelerazione del respiro della sua interlocutrice «sono qui per andare a trovare i miei genitori.»

Theresa appoggiò le mani sulle gote leggermente arrossate.

«A Carlo e Antonina verrà un infarto dalla gioia.»

Alteria accolse quell'affermazione con un pizzico di sorpresa: non ricordava di averle rivelato il nome dei suoi parenti più prossimi.

«Non guardarmi così, te l'ho detto che sono successe un sacco di cose dopo che tu e i tuoi amici siete tornati alla Torre Scarlatta.»

La ragazza raccontò di come, grazie al capitano Dordei, aveva ottenuto la caduta di ogni accusa a suo carico. Una volta libera, come aveva promesso ad Alteria, era andata a consegnare la lettera che la giovane maga aveva scritto di suo pugno, con la speranza di lenire il dolore della sua famiglia, abbandonata senza neanche un saluto.

«Dovevi vederli, hanno pianto fiumi di lacrime nel sapere che stavi bene. Mi hanno poi riempito di domande e io, come mi avevi fatto promettere, ho spiegato loro solo quello che mi hai detto di dire. Erano felici e sconvolti allo stesso tempo.»

La maga distolse lo sguardo, colpevolizzandosi per quella situazione.

«Tranquilla, stanno bene, anche se non passano giorno senza pregare per un tuo ritorno e, a quanto pare, le loro preghiere stanno per essere esaudite.»

Alteria si sforzò di sorridere, nascondendo il pensiero negativo che la punzecchiava come la punta di un ago: "Cosa diranno di quello che sono diventata?"

Non ci aveva riflettuto troppo fino a quel momento, ma ora, a pochi passi dalla sua meta, fu assalita da una valanga di dubbi.

Theresa non aveva notato il cambiamento di stato d'animo e continuava con il suo chiacchiericcio: «Sono tornata a trovarli il giorno successivo e ho condiviso con loro il mio dolore.»

«Hai raccontato di tuo figlio?»

«Gli ho detto che l'ho perso per una malattia» la ragazza proseguì con voce tremante. «Feriti per le nostre perdite ci siamo sostenuti a vicenda.»

«Perdonami, non avrei dovuto metterti in questa situazione.»

«No, non devi dispiacerti, in realtà mi hai offerto l'occasione per rifarmi una vita.»

Alteria aggrottò le sopracciglia convinta di aver perso il filo del discorso.

«I tuoi genitori mi hanno offerto un lavoro, davanti a te hai la nuova cameriera della Locanda della Foglia Stretta!»

«Ma è magnifico!»

«Non ti dispiace che ho preso il tuo posto di lavoro?»

«Scherzi? Sono felicissima che dai loro una mano.»

«Mi hanno anche offerto una camera come alloggio. Alteria, i tuoi sono persone fantastiche.»

«Sì, questo lo so bene.»

Come una folata di vento disperde le foglie cadute dai rami in autunno, così i dubbi della giovane svanirono, lasciando spazio soltanto alla voglia di riunirsi alla sua famiglia.

***

I due uomini si fronteggiarono per alcuni istanti senza che nessuno osasse proferire una parola. Un fragoroso silenzio protratto per un tempo indefinito, violato soltanto dallo strillo dei gabbiani che piroettavano all'esterno delle mura metalliche della Torre.

«Perché mi hai chiamato?» domandò il più anziano dei due, accarezzando le ali di tela nera del suo personale mezzo di trasporto: il Corvo, che circa un mese fa era stato rubato da Dass e Alteria.

Alexandros esitava a replicare, trafiggendo con lo sguardo il suo interlocutore.

«Non c'è bisogno che tu mi risponda, ho intuito già da solo cosa ti passa per la testa.»

«È la cosa giusta da fare.»

Tron piegò leggermente la schiena chiudendo i propri pugni dietro di essa e cominciando a passeggiare in circolo.

«Giusta, forse no. La più logica.»

Il vento fischiava tra le aperture di quel piano della torre, scuotendo con il proprio canto le chiome dei due stregoni.

«Farai soffrire molte persone.»

«Se non lo faccio, ne soffriranno ancora di più.»

La situazione alla Torre Scarlatta era estremamente delicata. Le richieste d'aiuto dal continente si susseguivano con cadenza giornaliera. Alcuni maghi erano stati imprigionati o si trovavano braccati dalle forze dei Cavalieri Celesti. Oltre a loro erano stati coinvolti familiari amici o anche solo semplici conoscenti. Bastava aver solo rivolto la parola a qualche membro della Torre Scarlatta per finire imprigionato e torturato, nella migliore delle ipotesi.

«Vogliono il colpevole, l'avranno.»

«Possiamo nasconderci alla Torre finché i celesti non molleranno la presa. Qui non possono trovarci.»

«Dai, Tron, non tergiversare, sai benissimo che è solo una soluzione temporanea.»

Il primo arcimago non rispose.

«Anche se Esmeralda e Maximilian non vorranno mai consegnarmi, il consiglio prima o poi dovrà decidere la mia sorte.»

«Appunto, come detto in precedenza farai soffrire molte persone.»

Alexandros esitò nelle sue granitiche convinzioni davanti a quelle parole. Si morse il labbro prima di replicare, ma venne preso d'anticipo dal suo dirimpettaio.

«...in particolare quella ragazza.»

"Alteria."

Non poteva negare di aver sognato altra soluzione a quella vicenda. Avrebbe potuto scappare con lei lontano, oltre il grande deserto o le montagne del nord, in territori dove l'influenza dell'armata celeste giungeva blanda e costruirsi una vita loro due soltanto. La ragazza l'avrebbe seguito in qualsiasi impresa, accecata com'era dal grande amore che nutriva nei suoi confronti.

La verità era che, anche al culmine del solipsismo, non avrebbe mai potuto perpetrare tale percorso. Era ridotto a un involucro di carne senza neanche più un anima. Pure in quegli istanti, davanti alla prospettiva di abbandonare ogni persona cara alla Torre, le lacrime non segnavano il suo viso. Fuggire con Alteria non gli avrebbe consentito di amarla e presto o tardi anche i suoi sentimenti, ora puri come neve candida, sarebbero scemati.

«È proprio per lei che devo farlo.»

Lei, e qualsiasi altra persona innocente che avrebbe pagato per i suoi peccati. Perché quel sogno, in cui calpestava i cadaveri seppelliti sotto il peso della sua vendetta, lo tormentava sempre più spesso, e ogni fantasiosa interpretazione su quella ricorrenza, lasciava spazio a un'unica irremovibile certezza: le sue vittime reclamavano giustizia.

Dieci anni persi a inseguire una vendetta effimera, consumato completamente dall'odio. Avrebbe potuto dare la colpa al Quaresh che, alimentato da quelle azioni, aveva accresciuto sempre più la sua influenza fino a prenderne il sopravvento, ma sapeva che non era così. Le occasioni per interrompere quella crescente spirale di malvagità le aveva avute, a partire dall'amore di Esmeralda fino all'incontro con Alteria. Invece si era lasciato trascinare fino al punto di non ritorno.

"No, non posso dare colpa al Quaresh di tutto questo, perché l'unico vero colpevole sono io. Io e la mia debolezza, io e la mia dipendenza dalla morte. Ho cominciato a uccidere e non mi sono più fermato, spinto da un falso ideale. Legittimavo le mie azioni in nome di una giustizia che non mi è stata mai chiesta. Perché è palese che la mia famiglia non avrebbe mai voluto tutto questo. Quale genitore vorrebbe vedere il figlio autodistruggersi in questo modo?"

Alexandros strinse nella tasca il cristallo mnemonicum ultimo lascito di suo padre, come se cercasse risposta da esso alle sue questioni.

«Sarebbe il primo e ultimo atto di coraggio della mia inutile esistenza.»

Tron lo osservava struggersi impotente, nella battaglia contro i suoi demoni interiori. Il pragmatismo che caratterizzava le sue doti di comando approvava quella decisione. La logica, nella sua fredda semplicità che non teneva conto delle passioni, affermava che una volta trovato il capro espiatorio, la stretta dell'armata celeste si sarebbe fermata, o quanto meno allentata.

«Le esigenze dei molti contano più di quelle dei pochi» sentenziò con tono piatto, facendo sua una citazione che non conosceva tempo. «Analizzando il quadro d'insieme, non posso che approvare questa tua decisione.»

«Per questo ho voluto mettere al corrente solo te della mia scelta.»

«Alexandros, prendi pure il mio Corvo.»

«Grazie.»

L'ex arcimago compì il primo passo verso il mezzo di trasporto volante come se avesse un grosso macigno legato alla vita.

«Mi dispiace debba finire così» disse, osservando l'ex compagno che nel frattempo armeggiava con la magibussola, impostando le coordinate della città di Venis.

«Addio Tron, porta il mio saluto alle persone che amo.»

Prese la rincorsa e si lanciò verso l'infinito. Le ali nere incominciarono a sbattere, animate dalla forza magica permeata in quella carcassa di tela e acciaio.

Dopo una manciata di secondi era solo un punto nero, sulla tela azzurra del cielo all'orizzonte.

«Addio Alexandros, chissà che il destino non abbia in serbo ancora delle sorprese nei tuoi confronti.»

***

SPAZIO AUTORE

Era nell'aria questa nuova separazione:  Alteria, ignara di ciò che sta succedendo alla Torre,  si appresta a vivere (forse) un momento felice della sua vita, Alexandros a intraprendere (forse) l'ennesimo percorso sbagliato. 

Le strade dei nostri due protagonisti ancora una volta si dividono. 

Rimanete sintonizzati.

Alessandro. 

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