Capitolo 3 - IN BALIA DELLA CORRENTE - prima parte
Una goccia cadde dal soffitto in una sudicia pozzanghera. L'umidità di quella cella avrebbe fatto marcire le ossa anche al prigioniero più in salute. Sporca, puzzolente, infestata da topi che non vedevano l'ora di sgranocchiare lembi di pelle ai criminali rinchiusi in quel luogo lugubre.
Le prigioni erano usate per i carcerati che si macchiavano di reati contro il clero. Principalmente eretici e adoratori dei demoni, ma spesso venivano perseguiti anche poveri cittadini, rei di avere insultato qualche autorità ecclesiastica o aver ingiuriato la Grande Madre o qualche luogo a lei sacro.
Si trattava di un posto tremendo, dove spesso i malcapitati non avevano la fortuna di scontare per intero la propria pena.
Torture, malattia e stenti divoravano i loro corpi di carne, consegnandoli prematuramente alla misericordia della creatrice.
Quella cella dalla pianta molto ampia, usata per arresti di massa, ospitava eccezionalmente un solo uomo.
Giaceva in quel luogo vestito di sole braghe color terra, con le braccia legate da solide catene tese verso il soffitto. Era un giovane affascinante, con lunghi capelli biondi raccolti in una coda e un torso dotato di pettorali asciutti e addominali in vista.
Attendeva, smarrito in chissà quali congetture, che qualcuno venisse a fargli visita.
Il suo carceriere non si fece attendere: i pesanti passi, accompagnati dal clangore dell'armatura che aveva indosso, ne annunciarono l'arrivo.
Si trattava di un cavaliere celeste dalla corporatura massiccia che indossava una corazza splendente quanto la luce delle stelle. Persino in quel luogo tetro il suo metallo dorato sferzava la tenebra come un faro nella notte.
Si tolse l'elmo mostrando il volto vissuto di un veterano di guerra. Aveva barba curata e capelli cenerini e un solo occhio di ghiaccio, affilato come un coltello. L'altro gli era stato strappato in combattimento e la cavità occipitale vuota veniva celata da una benda corvina.
Aprì la grata della prigione, facendo cigolare i cardini arrugginiti, e si posizionò a pochi centimetri dalla fronte del prigioniero.
«Sono molto deluso» disse.
L'uomo in catene non rispose, sostenendo con freddezza quel rimprovero.
«Da te non me lo sarei mai aspettato, eri il più promettente tra i miei cavalieri.»
Mizar, generale dell'armata celeste, era sinceramente dispiaciuto di trovarsi in quella situazione. Nei numerosi anni al comando, raramente gli era capitato di dover punire in modo così pesante uno dei suoi subordinati.
«Lo sai vero che per quello che hai fatto c'è la pena di morte ?»
Il bel giovane che gli stava di fronte non si scompose, come se quel destino non lo spaventasse affatto.
«Se non fosse stato per l'intercessione del divino Ismael, a quest'ora saresti legato al ceppo del boia. Anzi, in qualità di tuo comandante, avrei dovuto eseguire io la sentenza.»
Con un gesto della mano sembrò scacciare materialmente quella tediosa incombenza, scongiurata almeno per il momento.
«Perché?» domandò. «Perché Alioth hai permesso a quegli eretici di raggiungere la stanza di Emmaniel?»
Una goccia di sudore cadde dalla punta del mento del prigioniero, mentre con lo sguardo sembrava scusarsi col suo superiore.
«Come ho già detto, alcuni di loro mi hanno salvato la vita» rispose a denti stretti.
«E hai permesso che, con le loro empie stregonerie, attaccassero il messaggero della Grande Madre? Colui che hai giurato di difendere anche a costo della vita?»
Il generale si stava vistosamente innervosendo.
«Io non credevo...»
«Non credevi cosa?»
Mizar afferrò il mento del prigioniero con le dita, premendo talmente forte da provocargli dolore.
«Io...non credevo...che...potessero...»
Non lo lasciò terminare stringendo con ulteriore vigore, impedendogli di parlare ancora. Dopo qualche istante, in cui sembrò compiacersi della sofferenza provocata, mollò la presa sulla mandibola del prigioniero.
Scosse la testa.
«Sono veramente costernato.»
Il volto teso si rilassò un poco. Non si capacitava di come quel ragazzo, fulgido esempio di virtù, avesse potuto vacillare così davanti ai suoi doveri. Come aveva potuto la sua fede, inflessibile come acciaio damascato, cadere così in fallo, permettendo a quegli evocatori di demoni ancestrali di eliminare uno dei sei figli della Grande Madre.
L'errore di Alioth aveva provocato l'imponderabile, la morte di un Dio.
Vista la mancanza di testimoni, la dipartita di Emmaniel era stata celata alla maggioranza dei fedeli. Soltanto un pugno di Celesti era a conoscenza del misfatto: se la verità si fosse diffusa poteva scatenarsi il caos.
«Hai evitato la morte, ma la tua punizione sarà dolorosa.»
«Sono pronto ad accettarla.»
Il generale in quel momento si sentiva come un padre di famiglia. Il figlio più promettente l'aveva deluso e sebbene fosse la prima volta, non poteva esimersi dal punirlo.
Avrebbe voluto, ma la sua autorità sarebbe così stata in discussione e il buon nome della famiglia, in questo caso quello dell'ordine, macchiato in modo indelebile.
Prese dalla cintola l'oggetto che aveva portato per l'occasione. Ne accarezzò il nerbo, come se cercasse una particolare ispirazione prima di poterlo utilizzare. Srotolò la lunga frusta e si pose alla giusta distanza. Chiuse gli occhi, mentre il primo colpo schioccò sulla nuda schiena del ragazzo. La pelle saltò via come schegge di legno, mostrando una grossa venatura che brillava di un rosso acceso.
Alioth soffocò il dolore con un sommesso mugugno.
«Ora, figliolo, preghiamo insieme» disse il comandante, mentre con il braccio richiamava a sé l'oggetto di tortura.
«Grande Madre, perdona questo tuo figlio per i sui peccati.»
«Grande Madre, perdonami per i miei peccati» gli fece eco il ragazzo incatenato, mentre il secondo schiocco gli tagliò il fiato in gola.
«Grande Madre, perdona questo tuo figlio per i suoi peccati.»
«Grande Madre, perdonami per i miei pecca...»
Il terzo colpo non gli lasciò neanche terminare la frase. Mentre la schiena veniva martoriata Alioth pensò ai compagni morti in quell'attacco: a Merak prima esempio da imitare e poi fedele alleato sul campo di battaglia, a Dubhe sorella maggiore durante il lungo apprendistato e poi preziosa consigliera.
Versò lacrime, non per il dolore, ma per gli amici perduti.
Trarre conforto alle sue colpe piangendo, non fu sufficiente a rinfrancarne la fede.
La mente vagò oltre, al ricordo di quella giovane strega che l'aveva curato, al suo compagno con cui aveva respinto l'ondata di non morti.
Mizar ripeteva la preghiera come un mantra e ogni colpo di frusta sulla schiena fungeva da ritmato accompagnamento. Non un solo grido uscì dalla bocca di Alioth, neanche quando il dolore per le lacerazioni divenne insostenibile.
A quel punto la sua psiche lo trasportò in un mondo fatto di incubi a occhi aperti.
Vedeva se stesso lordo di sangue estrarre la spada dal cadavere del divino Emmaniel. Lo stregone che aveva fatto fuori i suoi compagni, trasformato in un anima nera dagli occhi fiammeggianti, sorrideva compiaciuto.
La Dea sembrava punire la sua colpa con orrende visioni, aggiungendo ulteriore brace al suo tormento.
L'ennesimo colpo fece schizzare il sangue rappreso sul terreno. Un normale essere umano sarebbe svenuto o impazzito per un simile supplizio.
«Grande Madre, donami ancora la tua luce e riconducimi sulla retta via...» farfugliò con un filo di voce, invocando misericordia.
***
SPAZIO AUTORE
Apro questo capitolo con una finestra sull'organizzazione "rivale" dei nostri amici della Torre Scarlatta. Una finestra con solide inferriate visto l'ambiente in cui ci troviamo.
Come velatamente anticipato, Alioth potrebbe diventare un personaggio rilevante in questo racconto, sempre che riesca a superare il supplizio a cui è sottoposto. Assieme a lui Mizar, l'uomo in cima alla gerarchia dei cavalieri celesti, uno che per intenderci prende ordini direttamente dagli angeli.
Vi piace questo nuovo personaggio? Beh, avrete tempo per apprezzarlo.
Alla prossima.
Alessandro.
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