Capitolo 5 - CACCIATORI DI OMBRE - terza parte

«Non sono stata io, è stato il mostro, vi prego credetemi!»

Una dozzina di mani mi tengono ferma e mi immobilizzano su un gelido letto di metallo.

«Mio figlio... non sono stata io a ucciderlo!» dico in lacrime, mentre mi trasportano lungo dei corridoi dalla luce accecante. 

Mi agito, cerco in tutti i modi di fargli capire che non sono colpevole. Ripensare al mio cucciolo mi riempie il cuore di lacrime, ma questo non basta a impietosirli. Mani e piedi mi vengono immobilizzati attraverso delle cinghie, delle ragazze in camice bianco con dei batuffoli di cotone mi inumidiscono le tempie.

«Sono riuscita a liberarmi da quello spirito maligno, vi prego non fatelo!»

Non mi ascolta nessuno e mi tappano la bocca con un cilindro di gomma. Sento qualcosa che mi stringe intorno alla fronte, vedo un dottore armeggiare con una console ricca di tasti e indicatori analogici.

Un dolore fortissimo annunciato da un flebile ronzio fa esplodere la mia testa, poi non sento più nulla...

***

Selene riapre gli occhi emettendo un lungo respiro come se fosse rimasta in apnea per diversi minuti.

«Che cosa hai visto?» domandò preoccupato Maximilian.

«Devo arrivare ancora più indietro» rispose ansimando la giovane maga.

«Basta Selene è pericoloso!»

Era pallida come un cencio, affannata e sudata come se avesse corso una maratona.

«No Max, ho scoperto che è riuscita a liberarsi dallo spirito maligno, devo capire come.»

Ignorando qualsiasi prudenza, la maga chiuse gli occhi, tornando così a immergersi nel profondo mare dei ricordi di Theresa.

***

Quella voce, mi ordina di uccidere mio figlio... è così piccolo e indifeso, perché dovrei ucciderlo? Non è cattivo, non mi sta rovinando la vita, non sta rovinando il rapporto con mio marito. Mi occupo volentieri di lui, lo nutro, lo prendo in braccio per coccolarlo... però lui piange sempre...

Hai ragione è un ingrato!

Il suo pianto riempie tutte le ore della giornata, rimbomba nella mia testa in ogni momento.

«Basta fallo smettere!» dice la voce nella mia mente. 

Lei è così forte, decisa e rassicurante, mi possiede con il suo piglio e io non posso resisterle, non ho nessuna possibilità di oppormi alla sua volontà. Prendo un cuscino e glielo stringo forte sul volto, lui agita le sue braccia e gambe... sono così piccole e fragili. Passano alcuni istanti e tutto torna tranquillo, il suo corpicino è in pace, il suo pianto continuo è finalmente cessato.

Che cosa ho fatto?

Il mio piccolo, mio figlio è morto e sono stata io a ucciderlo! Maledetta! Maledetta voce assassina io non volevo e tu me l'hai fatto uccidere!

Prendo un coltello, devo levarmelo di dosso... quel maledetto bracciale... è cominciato tutto da quando me l'hanno regalato, devo assolutamente riuscire a togliermelo...

***

«Il bracciale... l'ombra usa un bracciale come mezzo di trasporto» riuscì a dire Selene con un filo di voce, prima di svenire per lo sforzo tra le braccia di Maximilian.

Dordei sollevò le maniche di Theresa anch'essa svenuta a terra. Sul braccio sinistro aveva cicatrici dovute a tagli ed escoriazioni, simili a quelli che presentavano la maggior parte delle ragazze morte.

«Ecco perché in molti casi le madri hanno cercato di accoltellarsi le braccia. Non per togliersi la vita, ma per rimuovere il bracciale dove risiede lo spirito maligno.»

«Ma a quanto pare solo Theresa è riuscita a levarselo» sussurrò Selene.

«Non ti sforzare ulteriormente per favore.»

«No Max ce la faccio» disse la ragazza, sostenendosi a fatica sulle braccia per assumere una posizione semiseduta.

«Adesso che ci penso, nella foto che il signor Dordei ci ha mostrato alla caserma, l'ultima madre suicida indossava un bracciale sul polso martoriato dalle ferite» aggiunse Alteria.

«Ma il cadavere all'obitorio era privo di qualsiasi gioiello, ne sono certo!» esclamò Maximilian.

«Questo perché il morto da prassi viene spogliato da tutti gli effetti personali prima di finire alla camera mortuaria» osservò Dordei.

«Forza ragazzi, torniamo alla caserma prima che quell'artefatto maledetto finisca nelle mani sbagliate.»

Rapido, il piccolo gruppo stava per abbandonare la stanza quando una flebile voce giunse alle loro orecchie:

«Vi prego portatemi via da qui, voglio tornare a casa.»

Era la voce di Theresa.

***

A quell'ora del mattino Mirtia era un continuo via vai di persone. Uno sparuto gruppo di corpulente donne, con grandi ceste al braccio, si avviava in direzione di un mercato rionale, intasando la via dove carri carichi di uomini dallo sguardo perso tra le nuvole, si recavano verso il quartiere industriale. 

Smarrite in quel marasma, due ragazze arrancavano lungo le strade, tra l'indifferenza della gente, indaffarata nei propri affari quotidiani. La più anziana era magrissima, pallida, con il volto scavato dalla fatica in cui spiccavano due grandi occhi marroni che lentamente riprendevano confidenza con la luce del giorno. Alteria l'aiutava a camminare e a orientarsi lungo quel labirinto di sentieri, che conosceva bene avendoli frequentati nei suoi primi diciotto anni di vita. Non era stato facile portar fuori Theresa dall'ospedale psichiatrico, Dordei aveva dovuto far ricorso a tutta la sua autorità condita da un pizzico dei poteri persuasivi di Maximilian, per farle ottenere la scarcerazione. Grazie a Selene, che aveva scavato nella sua mente, era riuscita a ritrovare la memoria e la propria personalità, cancellata dalle errate cure somministrate da chi l'aveva ritenuta una pazza omicida. Ora infatti, non era solo l'inattività causata dalla detenzione che rallentava il suo incedere, ma soprattutto il pensiero della morte del suo bambino, il cui peso ne opprimeva ogni parte del corpo.

«Non è stata colpa tua» la consolò Alteria, vedendo il suo volto rigato ancora una volta dalle lacrime.

«Ma sono state queste mani ad ucciderlo.»

«No, eri dominata dalla volontà dello spirito maligno.»

Theresa non seppe cosa rispondere. Arrestò la sua marcia, appoggiandosi alle mura di un piccolo condominio, lasciandosi andare a un pianto disperato.

«Se ti va possiamo continuare ora» chiese Alteria, dopo qualche minuto.

La sua compagna annuì e riprese lentamente a mettere un piede davanti all'altro.

«Senti Alteria, mi sembra di averti già visto prima d'oggi» osservò, dopo aver allontanato del tutto i cattivi pensieri.

«Può darsi, io sono nativa di questa città.»

«Ecco dove ti ho visto, lavoravi alla Locanda della Foglia Stretta.»

«Sì!» sorrise la ragazza, lasciandosi abbandonare ai ricordi di vita precedenti alla Torre Scarlatta.

«È la locanda dei miei genitori.»

«Perdona la mia curiosità, cosa ti ha spinto a lasciare la locanda per diventare... beh ecco...»

«Una strega?» l'anticipò lei, pronunciandolo senza usare un tono dispregiativo. «È una lunga storia...»

Alteria si voltò indietro a osservare la strada, come se avesse la speranza di veder comparire tra la folla il suo perduto Alexandros.

«Perdonami, non volevo essere indiscreta» si scusò Theresa.

La sua accompagnatrice con un sorriso le fece capire che non c'era nessun problema.

Le due giovani proseguirono il cammino muovendosi con più leggerezza tra le strade, come se, quella breve chiacchierata, avesse dato loro rinnovato vigore.

«Posso chiederti un favore Theresa?»

«Certo dimmi.»

«Purtroppo io non posso tornare dai miei genitori, non ancora almeno, ma vorrei fargli sapere che sto bene.»

«Se vuoi posso riferirglielo io, anzi no, potresti scrivergli una lettera, poi ci penserò io a consegnarla.»

«Sì, ottima idea!» esclamò Alteria con gli occhi che luccicavano «non so davvero come ringraziar...»

Le parole le si strozzarono in gola nel vedere che qualcosa non andava nella sua compagna.

Una strana sensazione pervase le membra di Theresa, il suo corpo si irrigidì: era come se qualcosa di tremendamente oscuro le fosse passato accanto e l'avesse sfiorata con il suo gelido tocco, come se all'improvviso le avessero legato una busta di plastica sul viso cercando di soffocarla.

Crollò in ginocchio. Si strinse nel grosso scialle che celava il camicione dell'ospedale psichiatrico.

«Lo sento, lui è qui vicino...» balbettò, con le labbra violacee che tremavano e la pelle pallida imperlata di sudore.

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