Capitolo 4 - MATERNITY BLUES - quarta parte

Su una scrivania, sommersa da fascicoli e fotografie, era appoggiata la testa di Dass che russava alacremente dopo essersi addormentato. Il rumore dei suoi respiri irritava non poco Selene, che cercava di concentrarsi nella ricerca, dopo essere rimasta la sola a lavorare nella stanza insieme ad Alteria.

«Se quello scemo non smette di russare, giuro che sarò io la prossima a commettere un omicidio!»

Dordei aveva accompagnato Maximilian all'obitorio. Erano andati solo loro due per risparmiare alle ragazze l'ulteriore orrore di vedere l'autopsia dei cadaveri.

Alteria sbuffò per la fatica, mentre posava per terra l'ennesimo faldone che aveva finito di passare in rassegna.

Notò che la sua insegnante la stava osservando mordendosi il labbro.

«Senti Alteria, non ti mancano i tuoi genitori?»

La domanda la colse impreparata lasciandola a bocca aperta per un istante. Selene raramente le faceva domande così confidenziali.

«Sì insomma...» proseguì con un filo di imbarazzo, «prima, quando eravamo in mongolfiera, hai detto che gestiscono una locanda qua a Mirtia. Non vorresti rivederli?»

«Beh, ecco io...»

«Scusa, forse non avrei dovuto chiedertelo.»

«No, nessun problema, anzi...»

Alteria sospirò prima di riprendere la parola. Nonostante fosse un argomento che avrebbe voluto evitare, era l'occasione di scambiare finalmente due chiacchiere in confidenza con la persona che da settimane trascorreva con lei la maggior parte del tempo.

«Sì, mi mancano terribilmente», i suoi grandi occhi marroni si fecero lucidi, «però, credo non sia ancora tempo di rivederli.»

«Immagino che non siano a conoscenza del fatto che ti sei recata alla Torre Scarlatta.»

«No, non lo sanno.»

«Quindi sei scappata di casa, giusto?»

«Sì» annuì la ragazza più giovane, provando rimorso per quello che aveva fatto.

Selene si alzò dalla sua postazione avvicinandosi a una piccola finestra che dava sull'esterno. Era una notte dal cielo terso, con le poche nuvole presenti che venivano spazzate da una leggera brezza. Nella via sottostante i passanti si affrettavano a raggiungere le proprie abitazioni, escluso un goffo signore di mezza età ubriaco. Ciondolava appoggiandosi alle pareti delle case per non cadere nei suoi stessi rigurgiti, bestemmiando la Grande Madre e maledicendo le persone che lo urtavano.

Selene, dopo aver osservato la scenetta lasciandosi scappare un timido sorriso, si voltò verso la sua compagna. I suoi occhi dal taglio orientale e velati di tristezza brillavano come gocce di giada alla luce della pallida luna.

«Sai, anche io sono scappata di casa, ma a differenza tua non l'ho fatto per recarmi alla Torre Scarlatta, almeno, non subito...»

***

Sono nata in una città simile a questa, nella parte più orientale del continente. Una città come tante, un agglomerato di persone che trascinano le proprie esistenze misere, tra gli alti palazzi e i capannoni delle fabbriche. Negli ultimi anni le condizioni di vita dei suoi abitanti erano peggiorate ulteriormente. Un pugno di nobili e oligarchi affamava la popolazione, concentrando tutte le ricchezze nelle proprie mani. Io e la mia famiglia vivevamo nelle campagne a ridosso della città e questo tipo di questioni ci toccava solo marginalmente. Vero, le tasse crescevano ogni anno, ma ci rimaneva a sufficienza per placare i morsi della fame e condurre una vita semplice a contatto con la natura. I miei genitori erano contadini, le cui giornate erano scandite regolari dall'alternarsi delle stagioni. Coltivavano la terra, allevavano le poche bestie che, con gli scarsi guadagni del raccolto, riuscivano a comprare. Tutto sommato, quello stile di vita, alla me stessa, poco più che bambina di quel tempo, non dispiaceva. Amavo stare all'aria aperta a contatto con la natura. Passavo le giornate ad aiutare come potevo i miei, approfittando di ogni momento libero per perdermi nel bosco, che si apriva a macchia d'olio a poche centinaia di metri dalla mia abitazione.

Il mondo che mi circondava, seppur povero e semplice, era tutto ciò che mi bastava ad esser felice.

Quello che però, era sufficiente per me, faceva sentire in una gabbia mio fratello maggiore: il suo nome era Simon. Aveva passato l'infanzia rinchiuso in un corpo gracile e cagionevole, un corpo non adatto alla dura vita dei campi. Mio padre malediceva la Grande Madre per avergli dato un figlio così inetto, al contrario di mia mamma, che lo amava più di ogni altra cosa. A causa dei suoi problemi di salute, mio fratello passava tanto tempo assieme al nostro vicino di casa, un medico in pensione che si era ritirato in campagna a passare gli ultimi anni della sua vita. In cambio di una piccola parte del nostro raccolto si era offerto di curarlo, e non solo. Quello che la natura non aveva dato nel fisico a mio fratello, l'aveva compensato con l'intelletto. Il medico se ne accorse subito: così gli insegnò a leggere e scrivere. Apprendeva con una facilità fuori dal normale, divorando libri e trattati che parlavano di storia, attualità e politica, di difficile comprensione persino ai pomposi intellettuali della borghesia cittadina.

Cresciuto, i suoi problemi di salute svanirono, trasformando quella fragile creatura in un giovane lupo affamato di conoscenza. Nonostante la riluttanza di mio padre, il nostro vicino di casa lo spinse ad andare a studiare in città, offrendosi di pagare le rette scolastiche con i suoi risparmi. Forse scorgeva in lui un grande talento, o forse vedeva il figlio che non aveva mai avuto, questo non lo so, ma ai fini della storia è un dettaglio irrilevante. Quello che conta è che Simon ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole e circoli culturali della città, dove una nuova generazione di liberi pensatori veniva forgiata, a discapito di chi amministrava mantenendo la popolazione sotto il giogo dell'ignoranza. 

Le rare volte in cui veniva a trovarci, mio fratello era un fiume in piena; discorreva di politica, di come l'ostracismo degli oligarchi soffocava la libera iniziativa, di come il clero usava l'arma della religione per privare gli individui della libertà personale. I miei genitori erano troppo anziani e grezzi per aprire la mente davanti a tali ragionamenti, io invece assorbivo come una spugna ogni sua parola.

Ero bianca e pura come una tela grezza, una tela che mio fratello dipinse a sua immagine e somiglianza.

In città, erano sempre più numerose le persone che non sopportavano più i signorotti locali. Guidati dagli intellettuali come Simon, non perdevano occasione, con scioperi e manifestazioni, di rivendicare i propri diritti.

Decisi che era giunto per me il momento di abbandonare la mia piccola prigione dorata, per affacciarmi in un mondo più grande. I miei genitori erano furiosi quando decisi di seguire mio fratello nella sua piccola rivoluzione.

«Vattene e non farti più rivedere!» mi urlò mio padre, mentre mia madre versava fiumi di lacrime.

«Siete troppo ottusi per capire!» gridai, mentre abbandonavo la piccola fattoria.

La città mi investì con il suo odore di umidità rafferma, i suoi colori grigi dovuti alla cappa d'inquinamento, il rumore delle carrozze , la musica proveniente dai locali, il vociare di una miriade di persone che ingolfava le strette vie, raramente baciate dalla luce del nostro astro. Mi sarei sentita persa se non fosse stato per mio fratello e il suo gruppo di amici. Ragazzi poco più grandi di me, che sognavano di cambiare la realtà con la forza delle loro idee. Tra tutti spiccava il loro leader: il suo nome era Hans.

Rampollo di una nobile famiglia, Hans possedeva l'intelletto e il carisma di un leader naturale. Nonostante le sue origini si era schierato dalla parte del popolo, stanco del vecchio regime che non faceva altro che arricchirsi alle spalle della povera gente.

Democrazia.

Quella era la parola con cui si riempiva la bocca, una parola forte, temuta da chi aveva il potere e sconosciuta a chi faticava a riempire il piatto davanti al focolare domestico.

Fu così che passai quegli anni di vita a riunire gente che andava a protestare nelle piazze, per rivendicare diritti che non avevano mai potuto assaporare. 

La nostra era una rivoluzione pacifica, mio fratello era un convinto sostenitore della non violenza. Diceva sempre che un regime come quello, sorretto dall'odio e dalla paura, sarebbe stato colto impreparato di fronte a una moltitudine di persone con intenti non belligeranti. E ogni giorno, quella moltitudine di persone cresceva, e cresceva, fino a invadere ogni piazza della città.

Tuttavia le idee pacifiche di Simon, trovavano sempre meno terreno fertile nel nostro gruppo: in particolare fu Hans a volere un netto cambio di politica. Sosteneva che era giunto il momento del colpo di spugna decisivo contro la classe politica locale, e riteneva che l'unico modo per farlo era rispondere alla violenza con la violenza.

«È ora di aprire gli occhi Simon! Il popolo è con noi, non è rimasto più nessuno a difendere i governanti della città!»

Tra i due scoppiò una lite che ebbe come risultato l'allontanamento di mio fratello.

«Hans ha perso di vista quello che siamo! Non posso più continuare così, andiamocene sorellina!»

Simon mi tese la sua mano, pronto a guidarmi lontano da quel luogo, lontano da quell'impresa in cui non si riconosceva più, ma io mi rifiutai di stringerla...

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