CAPITOLO 11 - AMBIZIONE - terza parte

Madido di sudore, ricoperto da candide lenzuola, il giovane si risvegliò in una stanza dall'atmosfera sterile, circondata da pareti metalliche color avorio. Si accarezzò la fronte rimuovendo la pezzuola intrisa d'acqua posata sopra di essa. Si sentiva debole, come se avesse dormito per giorni, i muscoli parevano essersi atrofizzati per la prolungata mancanza di movimento a cui era stato costretto da una potente febbre.

«Dove sono?» domandò, senza ricevere alcuna risposta. Il suono della voce uscì sommesso dalla sua bocca, quasi più simile ad un rantolo. La gola era terribilmente arsa, il desiderio di ingurgitare qualcosa di liquido era il primo dei suoi pensieri.

A parte lui sembrava non esserci nessuno. Attinse ai cassetti della memoria cercando di far luce sulla sua attuale situazione, ma come risposta ricevette soltanto un tremendo mal di testa. 

Fu attirato dall'unico dettaglio che stonava tra le pareti perfettamente lisce di quel luogo: uno specchio, posato sopra un modesto scrittoio di legno bianco. Una piccola ciotola di porcellana faceva capolino tra i due oggetti. L'idea che potesse contenere dell'acqua si fece largo con prepotenza, nel turbine di sensazioni che in quell'istante tambureggiava nel suo cervello. 

 Appena mise un piede sul pavimento, le gambe gli cedettero facendolo franare con la faccia a terra. Deciso a tutti i costi a raggiungere l'obbiettivo, cominciò a strisciare sui gomiti. Improvvisamente i ricordi, come chicchi di grandine, cominciarono a ferirlo a ogni centimetro che guadagnava sul gelido pavimento di metallo. La morte del padre, della madre, l'assassino che si allontanava dal castello, le sue ultime parole che l'avevano accompagnato come un'ossessione nei mesi successivi. Poi la ricerca, il viaggio in mare su quella barca solitaria, l'isola smarrita tra le nebbie e quell'essere mostruoso. Già, quel tizio celato dietro la pesante cappa cinerea. Lo aveva legato ad una struttura d'acciaio e torturato, scorticandolo con le sue unghie taglienti come rasoi fino a fargli perdere i sensi.

Si produsse in uno sforzo immane, issandosi sul tavolino per guardarsi allo specchio. Vide sul giovane corpo una serie di lievi cicatrici che andavano scomparendo.

«Ma quanto sono rimasto incosciente?» disse tra sé, specchiandosi nel suo viso imberbe.

«Circa una decina di giorni» gli fece eco una voce, dal tono fin troppo familiare. Un suono che non avrebbe mai potuto dimenticare.

«Tu... non può essere!»

Il ragazzo, che rispondeva al nome di Maximilian, quasi svenne dallo sgomento nel vedere l'assassino dei suoi genitori in piedi, a pochi passi da lui. Impassibile se ne stava con la schiena ritta a guardarlo, con quell'aria di superiorità che lo faceva schiumare dalla rabbia.

Infuriato, infranse con un pugno lo specchio davanti a sé ferendosi con i cocci prodotti dalla distruzione. Tutto il malessere dovuto ai lunghi giorni d'inedia, era  sparito in un istante. Era l'odio più profondo ad essersi impadronito del suo corpo. Come un burattinaio, l'aveva guidato alla Torre Scarlatta, e ora, controllava ogni suo movimento. Con la mano insanguinata raccolse la più grossa delle schegge, rivolgendo la sua ferocia verso l'uomo che cercava da mesi.

«Ora ti ammazzo!»

Maximilian si lanciò all'attacco, sotto lo sguardo dell'assassino. 

Lo osservava avanzare a gran velocità, con quegli occhi velati di tristezza che sembravano compatirlo. Immobile, lo lasciava avvicinare senza fare nulla, nonostante le intenzioni ostili fossero palesi.

In lacrime, il ragazzo infilò la lama di vetro nel ventre del suo nemico, penetrandone la carne fino a giungere nelle viscere. Il sangue si diffuse a macchia d'olio sulla maglietta che indossava, colando sui pantaloni. 

Maximilian incrociò i suoi occhi gonfi con quelli dello stregone e vide che neanche quella tremenda ferita l'aveva fatto scomporre. Era forse pietà quella che leggeva nel suo sguardo? Provava forse pena per lui, per averlo gettato nella più cupa disperazione dopo avergli strappato entrambi i genitori in quella tempestosa notte di primavera?

Maximilian estrasse la scheggia di vetro dalla pancia ferita e, indietreggiando di un paio di passi, la gettò a terra.

«Perché? Perché non mi hai fermato?» domandò, con la voce rotta dal pianto. 

«Avresti potuto ridurmi in cenere con i tuoi poteri in qualsiasi momento, perché non l'hai fatto?»

Mentre si chiedeva tutto ciò, si rese conto che l'assassino dei suoi genitori non era altro che un ragazzo con una manciata di anni in più di lui. Quel viso, rimasto impassibile nonostante la ferita, mostrava una maturità non voluta, invecchiato da un destino beffardo che si era fatto gioco dei suoi anni migliori.

«Anch'io diventerò come te?» domandò, convinto di vedere in quell'uomo l'immagine riflessa del proprio futuro.

«No!» rispose secco lo stregone. «Potevi uccidermi, ma non l'hai fatto. Hai evitato di proposito di colpirmi in un punto vitale, giusto?»

Maximilian cadde in ginocchio. Era vero, seppur inconsciamente si rese conto di non aver mai avuto reale intenzione di ucciderlo. Eppure, era giunto in quel luogo guidato dalle ultime parole che quel tizio gli aveva lasciato nel cervello, prima di scomparire.

"Se vorrai vendicarti, mi troverai alla Torre Scarlatta."

Ma allora, perché aveva fatto tutta quella strada? Che cosa stava inseguendo se non la sua vendetta?

Sentiva agitarsi qualcosa di oscuro tra le pieghe della sua anima, qualcosa di vivo, che traeva nutrimento dall'odio che provava dal giorno in cui erano morti i suoi genitori. Il suo corpo però, si rifiutava di dare asilo a tale mostro, tale malvagità, non l'avrebbe mai corrotto nel profondo.

Si prese la testa tra le mani, aveva la sensazione che scoppiasse da un momento all'altro.

«Alzati.»

Lo stregone gli pose una mano. Bastò quel semplice gesto, piccolo e quasi insignificante a cambiare totalmente le cose. Tutto l'odio che provava per quell'uomo sparì all'improvviso, il rancore che accompagnava ogni suo passo scomparve, quella tremenda ombra che si contorceva al suo interno si dissolse. Maximilian accettò l'aiuto dell'assassino come se si trattasse di un vecchio amico.

«Io farò in modo che tu non commetta i miei stessi errori» disse, allontanandosi verso una piccola porta che portava fuori dalla stanza.

«Aspetta!» gridò Maximilian. «Qual è il tuo nome?»

«Mi chiamo Alexandros.» rispose, fermandosi ad un passo dall'uscita «E il tuo?»

«Maximilian.»

«Bene, Maximilian, con le mie parole ti ho trascinato qui. Ora è mio dovere mostrarti una nuova via da percorrere.»

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