In Fabula, Parte III

La sua stanza non era grande, ma aveva visto di peggio. Rispetto alle fredde camere di alcune cliniche, quella residenza offriva degli spazi piuttosto accoglienti. I soffitti erano alti, le finestre, seppur sbarrate, ampie. C'era perfino un odore piacevole.

"La finisci con queste descrizioni? Non gliene frega niente a nessuno." Hume era sdraiato sulla sua branda, rosso in viso. Per diversi minuti non disse altro, rimanendo immobile.

Quando si fu finalmente calmato, si alzò a sedere. Fissava un imprecisato punto oltre il soffitto.

"Mi vuoi spiegare cosa è successo lì dentro? Ho fatto qualcosa che ti ha fatto arrabbiare?" Le sue parole risuonano tra le pareti candide, senza produrre alcun effetto.

"Sto parlando seriamente, scrittore. Perché hai lasciato che quel dottore mi attaccasse così?" Dei passi risuonarono nel corridoio, unico suono in quell'ala del palazzo. Dopo poco anche quel rumore si affievolì.

"Allora? Smettila di divagare e rispondimi. Mi aspettavo che seguissi più o meno il copione delle altre volte. Questo... Eimund, però, non mi sembra proprio intenzionato a guardare le cose dal mio punto di vista. È un mastino. Come farò a convincerlo che siamo in un racconto? Dammi una mano, almeno ammorbidiscilo un po'!"

"Vuoi starti un po' zitto!" L'urlo provenne da una camera lì vicino. Un paziente infastidito. A giudicare dai mormorii che seguirono, non era l'unico nelle vicinanze a essere stanco di quel monologo. Hume non sembrava curarsi della cosa, ma decise di abbassare il volume. Non voleva essere interrotto di nuovo.

"Dici bene, non voglio essere interrotto. Ma soprattutto non voglio essere ignorato. Parlami!" Ovviamente non giunse nessuna risposta.

"Che significa 'ovviamente'? Maledetto, cosa cerchi di ottenere lasciandomi parlare da solo?" Hume si rese conto di quanto dovesse sembrare ridicolo. Se ne stava lì a discutere col soffitto, senza un interlocutore. Proprio adatto a una clinica di igiene mentale.

"Si, beh, se tu non mi rispondi certo che sembro un pazzo. Se proprio non vuoi rovinare la tua prosa scadente rispondendomi decentemente, almeno fammi trovare un pezzo di carta con ciò che hai da dire, o mandami un inserviente che parli a nome tuo." Ricordò le parole del dottore. Se davvero si trovavano in un racconto, la sua era la voce dello scrittore.

"No, quella non è la tua voce. Ti conosco, il dottore è solo un antagonista che alla fine sarà sconfitto. E poi io da lui non ci torno. Mandami qualcun altro. Ross non sarebbe male, mi piace quel ragazzo." Non arrivò nessuno.

"Perché? Perché fai così? Non ti capisco." Senza rendersene conto, aveva di nuovo alzato la voce. "Ti è successo qualcosa? Lo sai, non ho modo di conoscere i tuoi problemi, ma se ne parli potrei esserti d'aiuto. Prendertela con me, però, non è certo la soluzione. Santo cielo, dì qualcosa!"

Da un luogo lontano, giunse finalmente una risposta.

"Eccomi, figliuolo."

"Scrittore?"


"Sono io."

"Davvero? Di solito mi parli in un modo più... indiretto."

"Lo so, figliuolo, ma il messaggio che ho per te è troppo importante. Ho provato a fartelo capire mandandoti in questa clinica. Ci ho riprovato facendoti parlare con lo psicologo, e infine lasciandoti discutere da solo. Ora te lo dirò io stesso. La verità è che..." Una risatina fece capire subito ad Hume cosa stesse succedendo. Non fece in tempo a fermarlo "... è che sei pazzo, razza di idiota!" La cosa divertì molto tutti quelli che si trovavano nei dintorni. "Ora lasciaci riposare in pace!"

"Vai al diavolo!" Urlò Hume. Non era diretto al paziente. Si rigirò nel letto, dando le spalle alle stelle che cominciavano a colorare il cielo, oltre le sbarre della finestra.

"Ti prendi pure gioco di me adesso. È meglio se risolvi questa situazione in fretta, o ti garantisco che le conseguenze non ti piaceranno." Anche quelle parole si persero nell'aria, minacce vuote rivolte a nessuno. Dopotutto, cosa poteva fare? Di nuovo, la voce dello psicologo tornò a tormentarlo. O era pazzo, e in quel caso nessun deus ex machina avrebbe garantito le sue sorti, oppure il suo destino, le sue scelte e ogni sua azione erano in mano all'individuo che aveva appena minacciato.

"Ah, è così? Mi credi solo una tua pedina allora. Beh, in questo caso tanto varrebbe dare ragione a Eimund. So bene di essere libero di fare le mie scelte, lo sento, non è qualcosa che si possa mettere in discussione. Io non sono un tuo fantoccio, faccio quello che voglio." Poteva fare ciò che desiderava, vero, ma dovette chiedersi: chi era a definire questi desideri?

"La vuoi mettere così, eh? Saresti tu a decidere per me?" Sorrise sprezzante. "Piuttosto che accettarlo preferirei scoprire di essere semplicemente pazzo." Nel silenzio che seguì, potè riconsiderare ciò che aveva appena detto. Stava dando ragione al dottore. Per un attimo gli parve che la spiegazione a tutto ciò che stava accadendo fosse terribilmente ovvia. Perché il suo amato scrittore, sempre tanto amichevole, era improvvisamente avverso? Perché non riusciva più a leggere i pensieri altrui? Perché questo psicologo gli sembrava più tenace di quelli dei racconti precedenti? Forse il passato che ricordava non era così vero come gli sembrava. Forse il suo presente era diverso dalle sue memorie perché le aveva solo immaginate. Forse, pensò, era davvero semplicemente pazzo.

"No! Non ci provare! Non ti azzardare a scrivere i miei pensieri! Io non ho mai pensato quelle cose. Ciò che sta nella mia testa è roba mia. Tu non puoi..." Si interruppe, come se avesse appena capito qualcosa. Sorrise, poi cominciò a ridere. Una risata amara, aggressiva.

"È questo il tuo piano? Questo è il motivo per cui mi tratti così? Quasi non ci credo, ma è così ovvio." Il suo volto si fece duro.

"Vuoi finire il racconto facendomi passare veramente per un pazzo." Rimase immobile, contemplando quella possibilità. Non si rendeva conto che, come aveva spiegato il dottore, stava giustificando la sua pazzia con spiegazioni astratte. Forse la realtà era per lui troppo dolorosa.

"Zitto! Stai zitto! Ti posso dimostrare che ti sbagli. Forse col dottore ho fallito, è troppo testardo per vedere come stanno le cose, ma con te è diverso. Quando vedrai cosa io ho in mente per te, dovrai ammettere che non mi controlli. Ti renderai conto che esisto veramente. Ti renderai conto che sono libero."

Si alzò rapidamente dal letto, dirigendosi verso la porta. La maniglia era bloccata.
"No, questo è barare. Al secondo piano ci sono i pazienti tranquilli, l'hai detto tu, e questa camera non ha nemmeno un bagno. Devo poter uscire." Diede uno strattone alla maniglia, sbloccandola. "Uno a zero per me." Senza nascondere la sua soddisfazione, si diresse verso le scale. Il suo sorriso scomparve, quando notò che erano chiuse da un cancello.

"Cosa?!" I pazienti non pericolosi erano liberi di girovagare di giorno, ma la sera, per motivi di sicurezza, i vari piani venivano isolati. I malati potevano muoversi solamente nell'ala a loro riservata. Un diritto che Hume avrebbe perso, non appena il dottore si fosse reso conto del degenerare della sua condizione.

"Chi è che minaccia a vuoto, adesso?" Arrabbiato, ma non arreso, il paziente percorse in fretta il lungo corridoio.

"Ross parlava di zone sconosciute e bloccate. Grazie per quel particolare, scrittore. Ho la porta di una di queste zone proprio davanti a me. È un peccato che la serratura sia così vecchia e rovinata, verrà via con un calcio." Forse Hume non si era reso conto della segnalazione di divieto e pericolo sulla vecchia ma solida porta.

"Bel tentativo, ma direi che proseguirò comunque." Con un violento calcio, spalancò l'anta di legno. La stanza che si aprì davanti ai suoi occhi era tanto buia da far paura. Solo la polvere che aveva agitato con la sua entrata suggeriva che fosse un luogo inabitato da decenni. Intanto nel corridoio cominciarono a sentirsi delle voci preoccupate. Aveva fatto troppo rumore.

"Sei patetico. 'Buio da far paura'? Questo dovrebbe fermarmi? E come la mettiamo con la luce che passa dal corridoio? A me sembra sufficiente a farmi notare una porta poco più avanti. Porta dalla cui soglia, peraltro, filtra un po' di luce. Quell'entrata conduce alle scale, è ovvio. Mi sa proprio che sono diretto lì."

Avvicinandosi notò un nuovo cartello di pericolo, seppure più antico. Il pavimento sembrava dissestato.

"Non abbastanza da costringermi a tornare indietro." Inoltre la porticina era bloccata da assi di legno inchiodato.

"Assi marce, vorrai dire. Dimentichi che io posso interpretare tutto ciò che tu non descrivi. E non puoi descrivere tutto." Diede una violenta spallata alle travi, che cedettero spalancando il passaggio. Fu per miracolo che si aggrappò alla maniglia, vecchia ma abbastanza salda. Sotto di lui non c'era pavimento, né un piano inferiore. Tutta quella parte del maniero era crollata a seguito di un violento terremoto, molti anni prima.

"Questo è ridicolo! Semplicemente ridicolo! Chi avrebbe lasciato una porta che si apre sul nulla?" Hume non poteva sapere che, quando il dottor Eimund ereditò la casa, dovette spendere quasi tutti i propri soldi per sistemarla e convertirla in clinica. Sfortuna volle che il terremoto, poco dopo, se ne portasse via una parte. Senza fondi, il dottore chiuse quell'area della redidenza, limitandone come poteva l'accesso. Era comunque una zona troppo elevata perché qualcuno potesse approfittarne per fuggire.

Come se la sua situazione non fosse già abbastanza difficile, dal lontano corridoio giunsero i passi delle guardie che avevano notato il trambusto. Per il paziente non c'erano vie di fuga.

"Vedo che hai pensato a tutto, bravo. C'è solo un dettaglio che ti sei perso: questa non è una fuga. È una guerra." Dopo quell'imbarazzante affermazione, aggrappandosi alla porta spalancata sul vuoto, cominciò ad arrampicarsi su per la parete scoperta della magione. Approfittando degli appigli offerti dal crollo, raggiunse il piano superiore. Superò, come aveva fatto poco prima, le porte bloccate.

"Dimentichi che stavolta ho fatto attenzione a non fare rumore." Bisbigliò, mentre si infilava nell'ultimo passaggio che si era aperto. Quando notò dove era finito, sbiancò. Aveva fatto bene a evitare rumori: il terzo piano era dedicato al personale. Quell'ala, in particolare, era occupata dagli infermieri.

C'erano dieci letti nella sala. Sei di questi cullavano il sonno di altrettanti uomini.

"Un dormitorio comune?" Sussurrò appena Hume. "I pazienti hanno stanze singole e gli infermieri no?" In verità la maggior parte degli infermieri dormiva in un'altra zona dell'edificio. Quel posto era per gli addetti al turno di notte. In questo modo potevano dormire se non c'era bisogno di loro, ma in caso di emergenza erano pronti a intervenire.

"Tanto varrebbe dirmi: 'è così e basta'. Le tue scuse sono ridicole." Si mosse molto lentamente, un passo alla volta. Sembrava stesse camminando in un covo di serpenti. Ogni volta che riusciva a superare un letto, si asciugava in silenzio il sudore dalla fronte. Immaginava che sarebbe bastato un minimo suono a farli scattare, e aveva ragione. Quelle persone dormivano con un orecchio aperto, pronte ad essere chiamate qualora fosse successo qualcosa. Gli parve un miracolo quando raggiunse finalmente la porta, e trovò ancora più incredibile riuscire ad aprirla senza cigolii.

Si allontanò abbastanza da poter parlare tranquillamente.

"Ero sicuro che ne avresti approfittato. Hai perso una perfetta occasione per..."

"Eccolo lì!" Urlò un infermiere. Era appena arrivato con a un collega dal piano inferiore, dove avevano cercato proprio lui fino a quel momento.

Hume cominciò a correre lungo l'infinito corridoio, inseguito a poca distanza. "Sei un bastardo." Sussurrò mentre imboccava un passaggio alla sua destra. Era un vicolo cieco. I due infermieri raggiunsero quella svolta, ma furono colti di sorpresa. Hume si era fermato dietro l'angolo, con una piccola statua di bronzo in mano. Colpì il primo alla tempia, facendolo subito crollare a terra. Il secondo gli bloccò il braccio armato, ma lui reagì in fretta. Gli diede una testata sul naso, facendolo arretrare. Poi lo assalì con la stessa efferatezza con cui aveva atterrato il suo collega. Il colpo ebbe lo stesso, orribile effetto.

Si poggiò con la mano al muro, riprendendosi dal fiatone. Le gambe gli tremavano per la scossa di adrenalina.

Lente e spaventose, due macchie nere cominciarono ad allargarsi sul pavimento di marmo. La consapevolezza di ciò che aveva appena fatto fu tanto violenta da farlo barcollare. Voleva controllare il polso di quegli uomini, ma aveva paura di ciò che poteva scoprire. Li aveva...

"No! Non provare a dare la colpa a me. Sei stato tu a mandarmeli, tu a farmi trovare un vicolo cieco. Questo sangue è sulle tue mani, non sulle mie. Tu li hai ammazzati!" Nel suo sfogo, non si era reso conto che aveva qualcuno alle spalle. Intravide solo un braccio che si allungava verso di lui. Prima che la mano potesse raggiungerlo, vibrò un colpo alla cieca e fuggì, senza nemmeno controllare chi fosse lo sconosciuto. Fece appena in tempo a sentire il tonfo del terzo corpo che si accasciava al terreno, prima di lanciarsi in un nuovo corridoio.

Quel che non sapeva era che tutto quel rumore aveva svegliato gli altri infermieri, che ora lo stavano cercando. Uno di loro lo aspettava al termine di quel passaggio, in agguato come era stato lui poco prima. Era un tipo grosso e molto deciso, armato di una siringa di sonnifero. Attendeva il momento giusto per intervenire, nascosto nell'ombra. Dopo cinque minuti, però, ancora non era successo niente. L'infermiere allungò cautamente la testa nel corridoio, temendo un attacco. Non trovò nulla. Il paziente era sparito.

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