5. The wind and its wings
Se c'era una cosa che proprio non mi aspettavo era di trovarmi da sola con Jace... di nuovo. Non appena abbiamo finito di mangiare, infatti, Jordan ha ricevuto una chiamata urgente dal lavoro e Bastian si è offerto di accompagnarlo con la sua macchina, lasciandoci soli da un momento all'altro.
Non me la sono sentita di tornare subito a casa. Non ho niente di importante da fare, se non recuperare qualche film e controllare incessantemente la posta elettronica nel caso qualcuno mi contatti per via del curriculum, e lasciare Jace a piedi – letteralmente – mi sarebbe sembrato brutto. Tralasciando questo, non so ancora come io sia finita in centro. Ci siamo scambiati poche frasi, più per decidere cosa fare piuttosto che per avere davvero una conversazione, e un attimo dopo avevo già parcheggiato.
Mi stringo nel cappotto nero di mia madre, quello che mi ha prestato senza nemmeno saperlo, e un po' mi pento di aver indossato un indumento così pesante. Ha smesso di piovere già da un pezzo, le temperature si sono alzate abbastanza da potermi permettere una giacchetta leggera nonostante l'umidità. Fortunatamente gli anfibi non tengono troppo caldo, altrimenti avrei costretto Jace ad aspettarmi mentre mi cambiavo.
«Quanta gente!» esclamo mentre mi guardo attorno. «Non credevo ce ne sarebbe stata così tanta anche poco dopo pranzo.»
«Dovresti vedere Milano» Jace si infila le mani in tasca, il suo orologio sporge dalla manica della giacca. «Lì nessuno si ferma mai, sono sempre tutti pronti a camminare per le vie che circondano il Duomo.»
«E sono davvero così tanti?»
Stira le labbra in un sorriso. «Più del doppio di quelli che vedi qui.»
Resto senza parole. Non riesco a immaginare una città più affollata di Washington, forse perché non ne ho mai visitate molte. Ma no, non è solo per questo: invidio Jace per aver avuto la possibilità di incontrare altre persone, farsi carico di altre culture e renderle proprie. Lo invidio perché non credo avrò mai il suo stesso privilegio.
«È bella?» gli chiedo. «Milano, intendo.»
Decidiamo di tornare a camminare con un cenno, lui annuisce per rispondere alla mia domanda.
«Molto. Ogni volta che credevo di averla vista tutta, c'era quel qualcosa in più che riusciva a stupirmi. Non parlo solo dei monumenti storici e delle opere d'arte, no...» fa una pausa, si perde con lo sguardo nella folla. «Quella città ha molti più segreti di quanti se ne possano effettivamente immaginare.»
«Ti sei trovato bene, allora.»
«Non è un concetto che posso spiegarti a parole, però sì. Quando partii mi sembrò di morire, ma una volta arrivato è stata tutta un'altra storia.»
Nascondo il naso nella sciarpa. Sentirlo parlare in questo modo della sua esperienza in Italia mi fa stare male e non riesco a capirne il motivo. Ricollego questo senso di estraneità alla mia invidia, eppure riesco a percepire, nel profondo della mia anima, che c'è di più. E quel "più" non so razionalizzarlo, non so dargli un nome, ma non fa altro che aumentare il mio dolore al punto da renderlo viscerale.
Sono davvero, davvero tanto felice per lui. Sono contenta che sia cresciuto in un ambiente diverso, che abbia potuto provare emozioni e sensazioni che io forse non posso nemmeno sognare, ma allo stesso tempo non riesco fare a meno di sentirmi malinconica.
Chissà, forse nemmeno malinconia è la parola giusta.
«Parlami delle persone che hai conosciuto» mormoro, socchiudendo gli occhi quando si alza il vento.
"Voglio sapere tutto, tutto, tutto."
"Di te."
Rallenta il passo per permettermi di camminargli affianco. «In realtà, vorrei raccontarti di una ragazza che ho aiutato prima di tornare qui.»
"La tua?" voglio domandargli.
Silenzio.
«Come si chiama?» gli chiedo, invece.
«Elettra. Elettra Sturlese» pronuncia perfettamente il suo nome, marca un po' troppo la erre. «Quando la conobbi credevo fosse una persona del tutto diversa da te, Avalon, ma a diciassette anni cosa potevo mai saperne, io? Ti ho rivista in lei tante, tantissime volte. Avete persino gli stessi interessi.»
«Disegna?»
«Disegna, sì. Ha decorato da sola il suo negozio.»
«Ha un negozio?»
«Una libreria a pochi passi dalla Galleria Vittorio Emanuele II» si passa una mano tra i capelli e trattiene una risata. «Ed è completamente pazza. L'ha aperta perché, così mi ha detto, "è ciò che mi piace e sarà ciò che farò". Non potevo non aiutarla, capisci?»
"Oh, Jace. Ti brillano gli occhi."
«Immagino non potessi fare altrimenti» rispondo, quieta.
Annuisce con fermezza. «Ha la tua stessa energia. Mi sarebbe sembrato di farti un torto.»
Ridacchio e stringo le mani nelle tasche. Il malessere non scompare, mi resta dentro come un cancro, un peso enorme sul cuore, ma mi piace ascoltarlo. Mi piace sentire la sua voce mentre parla delle cose che l'hanno emozionato.
«Oggi sei piuttosto loquace» arriccio il naso, tiro un filo scucito del cappotto. «È strano.»
«Vuoi che la smetta?»
Scuoto la testa.
"Non cambierebbe nulla in ogni caso."
«Ho lo stomaco un po' pesante, forse non riesco ad apprezzare appieno la tua parlantina per questo. Però no, continua. È uno strano bello.»
Socchiude gli occhi, sembra riderci. «Strano bello. Mai sentita una cosa del genere.»
Arriccio di nuovo il naso, rinunciando in partenza a spiegargli il profondo significato che quell'affermazione ha per me. Non se lo ricorda, è meglio così.
La folla attorno a noi è sempre più fitta. È davvero insolito trovare tanta gente a quest'ora e non so se voglio capire il motivo di questo assembramento, l'unica cosa che so è che ora faccio fatica a muovermi tra i gruppi di persone. Jace è più alto di me, sembra non avere alcuna difficoltà.
Ci troviamo davanti ad alcuni signori rimasti immobili. Sto per parlargli – resto con le parole a mezz'aria, la bocca leggermente schiusa – quando mi volto e non lo trovo più.
«Jace?»
Sgrano gli occhi. Non riesco a vedere oltre le spalle di questo ammasso di imbecilli.
L'ho perso di vista.
Mi mordo il labbro. Se non fossi circondata riuscirei a prendere il telefono nella borsa senza problemi, ma temo che aprirla in una situazione del genere sia molto più rischioso rispetto al restare da sola.
Le mani cominciano a tremarmi. Vorrei che fosse solo per il freddo, vorrei non sentirmi come mi sono sentita quando se n'è andato otto anni fa. In silenzio, senza dire nulla – senza più voltarsi indietro.
"Non è questo il momento di farsi prendere dal panico. Non ora, Avalon."
Cerco di fare un passo a ritroso, qualcuno mi spinge in avanti. I capelli mi si incastrano tra le spalle di due uomini, la borsa mi scivola lungo il braccio nell'istante in cui provo a liberarmi. Mi sembra di essere tirata da tutte le parti quando, in realtà, sono ancorata in quel misero angolo che mi è stato lasciato per respirare.
Il mondo sfuma attorno a me mentre mi sento soffocare.
Questo è peggio del silenzio.
Questo è peggio dei giorni di pioggia.
Questo è peggio di lui.
Provo a chiamare di nuovo Jace, il suo nome mi muore in gola. Non so come muovermi, cosa fare, cosa pensare – aspetto, in silenzio e sotto un cielo che torna a tuonare, e spero di ritrovare quel barlume di sereno che cerco da troppo tempo.
Una mano mi afferra per il gomito e mi trascina verso di sé. Quando sollevo lo sguardo, ancora offuscato, riconosco a fatica il volto preoccupato di Jace.
«Stai bene?» mi chiede, prendendomi il viso tra i palmi e asciugandomi le lacrime con i pollici. «Mi dispiace, mi hanno spinto in avanti... Non piangere.»
"Non piango perché sono rimasta da sola."
Faccio un cenno col capo, mi sento intorpidita e debole. Vorrei soltanto tornare a casa e sparire sotto le coperte.
"Piango perché mi hai lasciata indietro."
«Avalon...» mi chiama, sembra sfiorare con le labbra ogni lettera che compone il mio nome. «Vieni qui. Mi dispiace, davvero... Non succederà più.»
Sento le sue braccia avvolgermi, le mie mani smettono di tremare. È bastato un attimo, è bastata la sua voce perché tutto il panico raggrumatosi nelle mie vene svanisse.
È bastato lui e tutto questo mi fa paura.
Restiamo così per qualche minuto. Mi dà il tempo di smettere di piangere, di pensare alle cose brutte che mi sono tornate in mente e che ha colto nonostante non le conosca, di tornare a respirare come ho fatto fino a poco fa. Mi dà il tempo di essere me stessa e di buttare giù la maschera che non sapevo di indossare.
Inspiro a fondo, quando mi sente meno tesa mi lascia andare. Adesso, in quel misero angolo, ci siamo entrambi.
«Grazie» sussurro, tenendo lo sguardo basso. «Ora sto bene.»
Per qualche istante non dice nulla. Si limita a osservarmi, a cercare la minima traccia di ansia ancora presente sul mio corpo, nella mia anima.
«Ne sei sicura?»
Annuisco. Non ho nemmeno la forza di parlare.
Mi sistema la borsa sulla spalla e mi accarezza la guancia in un gesto distratto, poi fa scivolare la mano verso la mia. Le nostre dita si intrecciano, generano un calore che credevo di aver dimenticato – mi soffermo a guardarle e non trovo niente di più familiare di questa catena.
Le infila poi nella tasca della sua giacca, scopro che è abbastanza grande anche per me. Ci sto dentro, sembra quasi fatta apposta.
«In questo modo non potrò più allontanarmi da te» dice, e sembra quasi mi stia facendo una promessa che non può essere infranta. «Vieni con me, ci sono tante cose che voglio mostrarti.»
Non gli rispondo, mi limito a seguirlo.
Spalla contro spalla, cuore contro cuore.
*
L'entrata dell'edificio davanti al quale ci troviamo è grande, spaziosa persino per una città come Washington. Ha un tocco vintage e classico al tempo stesso, una punta di stile moderno si affaccia sulle vetrate delle finestre e dalle decorazioni luminose. Anche i doccioni, tipici delle cattedrali, hanno un richiamo gotico totalmente lontano dalle altre correnti artistiche.
«Che cos'è?» chiedo a Jace, schiarendomi la voce subito dopo.
Non ho parlato quasi per nulla da quando ci siamo allontanati da quella dannatissima piazza. Forse avrei dovuto farlo.
«Un museo, una galleria... un po' di tutto, in realtà» sorride e solleva le spalle. «Al momento c'è una mostra di arte moderna che vorrei farti vedere. Conosco la persona a capo del progetto e credo gli farebbe piacere avere un tuo parere.»
Aggrotto le sopracciglia. È da quando ho rincontrato Jace che mi chiedo con quante persone sia rimasto in contatto, e non solo: quante di queste l'hanno accompagnato durante la sua permanenza a Milano? Quante sono riuscite ad avvicinarglisi – o a restargli vicine – in questi otto anni?
«Non sono una critica» puntualizzo.
«Ma sai molte cose. Questo è più che sufficiente.»
Socchiudo gli occhi, cerco di non ridere mentre guardo la sua espressione. Sembra così sicuro di sé e vorrei davvero, davvero tanto che trasmettesse anche a me questa sua sicurezza. Una persona incerta come me ne farebbe tesoro.
Cerco l'insegna della mostra, la trovo su un cartellone quasi invisibile all'occhio umano. Riesco a leggerne il titolo a fatica, più che altro perché è scritto davvero in piccolo, probabilmente a causa delle dimensioni della pubblicità. La grafica, però, è bella anche da lontano.
«"Il vento e le sue ali"...» mormoro, assaporando il retrogusto dolceamaro di quelle parole sulla mia lingua. «Sembra interessante. Di cosa si tratta?»
Jace stringe le mie dita tra le sue. Non mi ha lasciata andare nemmeno per un istante e gliene sono infinitamente grata.
«Lo vedrai» risponde soltanto.
La fila di questo museo, per fortuna, si differenzia per attività. A destra, chi vuole visitare quello di Storia Naturale; al centro, chi preferisce la Renwick Gallery; infine, a sinistra, quei pochi emarginati sociali che non si amalgamano alla massa e che vanno alla ricerca di cose mai viste prima. Io e Jace, per una volta, facciamo parte di quest'ultima categoria.
Durante le gite scolastiche delle medie – e quelle poche svolte durante il mio primo anno di liceo, in concomitanza con la sua classe –, i professori erano soliti portarci a vedere cose più semplici, meno impegnative, forse perché credevano che non fossimo ancora in grado di percepire il profondo significato dell'arte e di plasmarlo poi in sensazioni personali. Con il senno di poi non potrei dar loro torto: cosa possono saperne dei ragazzini di undici anni, o di quindici?
La risposta è sempre e solo una. Niente.
Mi affretto a prendere il portafoglio quando noto che Jace è in procinto di pagare anche il mio biglietto, ma con un gesto della mano mi blocca e mi impedisce di fare qualsiasi cosa in merito. Non so se sentirmi lusingata o meno, tuttavia le sue dita sul dorso della mia mano mi lasciano poco tempo di pensare ad altro.
«Non dovevi farlo» lo rimprovero, arricciando le labbra. «Adesso sono in debito con te, e a me non piace essere in debito con qualcuno.»
Jace ride, la sua mano scivola leggera sulla mia schiena. «Oh, lo so bene» evita di guardarmi, continua a sospingermi verso l'entrata della mostra. «Ricordo ancora quando ti offendesti per il ghiacciolo che ti avevo comprato. Quanti anni avevamo?»
«Nove, io. Tu ne avevi undici» sbuffo, incrociando le braccia al petto. «Ma ho il diritto di... di esercitare i miei diritti!»
Il sorriso che spunta sulle sue labbra gli illumina il viso. È un sorriso sincero, più di quanto lo sia stato da quando ci siamo rivisti. Sembra essere sé stesso, come se tra noi non ci fosse mai stata alcuna barriera, come se otto anni, in realtà, fossero stati solo pochi giorni.
È sereno, Jace, e mi piace pensare che forse si sente così anche grazie a me.
«Devo correggermi» dice, quando superiamo l'arcata, «non sei cambiata più di tanto. Sei sempre la solita, eppure...»
«Eppure?»
Pausa. Una pausa che, però, non mi fa paura come prima.
«C'è qualcosa di diverso in te. Sei raggiante, sei quello che hai sempre voluto diventare» una guardia ci ferma per controllare i biglietti, ci lascia passare dopo averci rivolto un saluto. «Sei forte, bella, intelligente e hai la tua indipendenza. Forse hai messo una maschera per anni e forse l'hai portata senza nemmeno accorgertene, ma non mi ci è voluto molto perché notassi tutti i tuoi progressi.»
Mi mordo l'interno della guancia, tento di buttare giù il groppo formatomisi in gola. È sempre stato un buon osservatore, tuttavia... non credevo sarebbe riuscito a capirmi dopo così tanti anni. Tempo fa sarebbe bastato un attimo, probabilmente perché era più facile leggere una personalità acerba e fragile come la mia, ma ora? Ora che scusa ho per non essere riuscita a nascondermi?
Nessuna.
Socchiudo gli occhi, l'aria si è fatta un po' più leggera e pulita. Poco a poco iniziano a susseguirsi piante esotiche, locali e specie che non credevo nemmeno esistessero. Mi sembra di star varcando la soglia di un giardino segreto che solo pochi hanno avuto la fortuna di immaginare.
«Non sono come mi vedi tu... Non sempre» ammetto, perdendomi con lo sguardo a cercare il significato del titolo della mostra. «A volte è difficile tenermi su da sola.»
Non risponde, non a parole: le dita della sua mano cercano le mie, vi si avvinghiano con tutta la forza che hanno senza però costringerle, senza farmi male. Mi volto verso di lui, spaesata, confusa da un gesto così improvviso e banale ma così potente.
«Stai cercando nel posto sbagliato, Avalon» mormora.
Un leggero vento si alza, con un cenno mi sprona a sollevare il capo. Quando i miei occhi incontrano le vetrate trasparenti del soffitto, lo stupore e la meraviglia si impossessano del mio cuore. Resto senza parole perché a volte, purtroppo, le parole non sono abbastanza.
Miriadi di colori si fanno strada nel mio raggio visivo e tutt'intorno, una baraonda di sfumature fino a questo momento tenute nascoste. Veloci, lente, rumorose e silenti, come passi di un waltzer farfalle monarca, morfo blu, occhio di pavone e vulcano si susseguono in una danza senza precedenti, avvicinandosi e allontanandosi da me e Jace di secondo in secondo. Si muovono nella brezza artificiale, quasi si fanno trasportare. Vi si abbandonano senza rimorso, non la temono: la amano.
«Il vento e le sue ali» sussurro, stringendo la presa sulle dita di Jace.
Annuisce, la ricambia, la accoglie come quelle farfalle hanno accolto il Ponente fittizio. E forse non dovrei sperare, forse non dovrei illudermi. Ciononostante spero, mi illudo che forse, un giorno, anche io sarò amata da lui.
"Suggestione" si lamenta Ragione.
"Desiderio" grida Corpo.
"Finalmente" bisbiglia Cuore.
A Cuore non importa che sia suggestione o desiderio. Non gli importa della brevità del tempo, di dover attendere eoni o secondi. Cuore batte nell'istante in cui le mani di Jace si chiudono sulle mie guance, mentre le mie si aggrappano alla sua giacca e le farfalle ci rivestono di nuove, meravigliose speranze illusorie.
Cuore sospira quando le nostre labbra si sfiorano, e noi sospiriamo con lui.
Sbatto le palpebre, il vento si placa. Mi tremano le gambe e Jace se ne accorge. Allontana il viso dal mio tanto quanto basta per guardarmi negli occhi. Faccio fatica a sollevare il capo, a incontrare il mio riflesso nelle sue iridi, ma trovo il coraggio di farlo soltanto grazie al suo respiro.
Non è stato un bacio passionale.
Non è stato niente in confronto a ciò che mi sarei aspettata da lui. Eppure abbiamo il fiato corto, le sue guance si sono colorate di una sfumatura un poco più chiara rispetto alle mie. Le sue mani, ancora a trattenermi il volto, mi bruciano la pelle come hanno fatto i suoi occhi due giorni fa.
«Scusa» mormora, inspirando a fondo e voltandosi. «Mi sono lasciato prendere la mano. Eri così bella e io non...»
«Jace.»
Faccio scivolare le dita dietro al suo collo, mi aggrappo a lui senza però costringerlo a rivolgermi lo sguardo. Non voglio che si giustifichi, ma non voglio nemmeno che...
Persino i miei pensieri si ammutoliscono.
"Cos'è che non voglio?"
«Va tutto bene» gli dico, accennando un sorriso. «Va bene anche se l'hai fatto d'impulso. Posso dimenticarlo, se vuoi... Se ti dà così fastidio.»
"È meglio così. Vero?"
«Succedeva anche quando eravamo più piccoli, solo che non con me. Credi che non ricordi tutte le volte in cui agivi senza riflettere e poi te ne pentivi?» riprendo, giocando con le ciocche chiare dei suoi capelli. «Non avevamo un rapporto tale che potessi farti una ramanzina, ma ora... ora va tutto bene.»
"Sì, Avalon. È meglio così."
«Non sentirti in colpa. Tutti facciamo cazzate, qualche volta.»
Cuore geme di dolore quando Jace torna a guardarmi. Sembra ferito, la sua espressione lascia trasparire una pena che non credevo mi avrebbe mai mostrato. Non conosco questa parte di lui, non l'ho mai conosciuta, dunque perché mi pare di aver tradito la sua fiducia?
Abbassa la testa e fa scivolare le braccia lungo i suoi fianchi. Perché... perché ha questa espressione? Perché sembra così triste?
«Credi davvero che questa lo fosse?» mi chiede, stringendo le mani a pugno. «Credi che l'avrei fatto per impulso e basta?»
Aggrotto le sopracciglia. «Ti stavi scusando.»
«Quindi chiedere scusa, per te, equivale sempre a pentirsi di qualcosa?»
Schiudo le labbra ma resto in silenzio. Non so cosa rispondergli, forse perché so che, se i nostri ruoli fossero invertiti, pronuncerei le sue stesse parole. Il problema, però, è che non mi sia possibile cambiare punto di vista.
Sfilo la mano da dietro il suo collo e me la stringo al petto. A ventiquattro anni credevo di riuscire a decifrare le persone, ma lui... lui è sempre così indecifrabile e irraggiungibile.
Anche quando è a un passo da me.
«Mi chiedo perché,» si interrompe, afferra di nuovo la mia mano e riprendiamo a camminare, «mi chiedo perché, Avalon.»
Osservo i miei piedi fare un passo dopo l'altro, susseguirsi in modo preciso lungo un cammino che non è mai stato tracciato. Accanto a loro ci sono quelli di Jace, più stabili e più decisi.
«Perché cosa?»
Si ferma di nuovo, questa volta abbiamo appena superato il primo salone dedicato alla mostra. Il profumo qui è più intenso, il vento non si ferma mai e le ali delle farfalle producono la stessa eco di quelle degli uccelli in piena primavera.
«Perché hai una così bassa considerazione di te stessa?»
*
«Sono le sei» Jace dà un'occhiata all'orologio che porta al polso, poi si sistema la giacca sul collo e sospira. «Non credevo ci avremmo messo così tanto a finire la mostra. Stephen ha fatto un buon lavoro.»
Annuisco e aggiusto la borsa sulla spalla. «Sì, è vero. È stato divertente.»
Anche se "divertente" non è il termine più adatto a questa nostra avventura. Non è che possa descriverla in altro modo, però...
Lui alza lo sguardo su di me, mi scruta per qualche attimo. Dopo ciò che è successo qualche ora fa abbiamo parlato poco, più a causa mia che sua. Non sapevo cosa dirgli e ho continuato a rimuginare sulla sua domanda, su tutto ciò che è accaduto oggi pomeriggio, e la mia testa era così affollata di pensieri che mi sarebbe parso innaturale continuare a parlare.
Il silenzio non mi piace, ma con lui non ho potuto fare a meno di stare zitta.
«Sei stanca?»
«Un po'» ammetto. «Gli anfibi hanno iniziato a farmi male.»
«Avresti potuto dirmelo.»
Sorrido. «Così saremmo andati a comprarmi un paio di scarpe?»
«No, così saremmo tornati a casa prima.»
Mi piace il modo in cui, seppur involontariamente, abbia parlato di noi e di casa nello stesso momento. È strano sentirgli dire certe cose, tuttavia – dopo oggi – non mi sembra più così fuori dal mondo.
Mi accorgo, però, di starmi abituando fin troppo alla sua presenza. Da quando ci siamo rincontrati non faccio altro che pensare a lui, le possibilità di vederlo sono altissime quasi ogni giorno ed è praticamente impossibile, per me, togliermelo dalla testa. Vorrei riuscire a non farmi influenzare così tanto dal suo ritorno... ma credo sia troppo tardi.
«Domani sei libera?»
Faccio mente locale. Non dovrei avere alcun impegno particolare, anche se forse dovrei uscire con Violet. Mi riprometto di organizzarmi una volta a casa, quindi decido di stare sul vago.
«Credo di sì, perché?»
Solleva le sopracciglia e inclina il capo. «Secondo te?»
«Non lo so» alzo le spalle, sincera. «Potresti chiedermelo per tanti motivi.»
«Voglio uscire con te» pronuncia quelle parole a bruciapelo, con tale nonchalance da mettermi in soggezione. «Pensavo fosse implicito.»
Resto senza parole. Non è la prima volta che qualcuno mi chiede di uscire, anzi, ma cosa intende lui, esattamente? Dopo oggi potrebbe voler significare una miriade di cose e io non sono sicura di non volere una risposta più chiara di questa.
«Avalon, non sei costretta a farlo, se non ti va» mi tranquillizza, allungando il gomito e dandomi un colpetto sul braccio. «Vorrà dire che sarai tu a propormelo, se dovessi...»
«Ci sto.»
Mi chiudo a guscio e abbasso lo sguardo. Non pensavo che avrebbe cercato di non farmelo pesare, ma non ho tenuto conto del carattere rispettoso di Jace – almeno nei miei confronti. Ha sempre chiesto il mio parere, in un modo o nell'altro e su qualsiasi cosa potesse riguardarmi, e io mi sono lasciata sfuggire questa piccola informazione fin troppo facilmente. Non significa che non me lo ricordassi, solo che non posso più dire fino a che punto si spinge la mia conoscenza di lui.
Alzo gli occhi, timida, e lo trovo a sorridermi. È più un ghigno, sghembo e divertito allo stesso tempo, eppure mi rendo conto che mi piace. È sciocco, ma mi piace.
«Ti vengo a prendere alle sette?»
Annuisco. Fra ventiquattro ore.
«Hai qualche preferenza?»
«In che senso?»
«Sul cibo» ride di gusto e finalmente riprendiamo a camminare. «Pensavo di cucinare qualcosa e poi di uscire. È un ottimo modo per risparmiare soldi.»
Sgrano gli occhi. Vuole farmi mangiare a casa sua? Perché? Non sarebbe più semplice cenare in un ristorante?
«E poi mio padre vuole rivederti, sono anni che mi ripete quanto sente la tua mancanza» solleva il capo verso il cielo, meno nuvoloso di oggi pomeriggio, e si passa una mano dietro al collo. «Non penso farà in tempo a cenare con noi, ma è probabile che lo incroceremo prima di uscire.»
«Arrosto.»
Si blocca, mi guarda a labbra schiuse. Non si aspettava una risposta così veloce.
«Arrosto» scuote la testa, sorride così apertamente che gli spunta una fossetta sulla guancia destra. «Arrosto e?»
Arriccio il naso. Sa già quale sarà il contorno. «Patate.»
«Al forno.»
«Sì, patate al forno.»
Ci guardiamo per qualche secondo, poi scoppiamo a ridere entrambi. Credevo che, almeno in mezzo alla folla, saremmo riusciti a trattenerci – ma c'è un abisso tra il pensare di fare qualcosa e il farlo davvero, è stupido cercare di controllarmi.
Scopro che mi mancava ridere così con lui.
Che di lui mi mancava un po' tutto.
Riprendiamo fiato, non smettiamo mai di guardarci. È stato liberatorio e, se fosse per me, lo farei almeno un altro miliardo di volte.
«Torniamo a casa, adesso?» mi chiede, porgendomi il braccio.
Annuisco e infilo la mano tra il suo busto e il gomito, poi la faccio scivolare fino alle sue dita. Di nuovo, queste sono chiuse nella tasca e a me sembra di non sentire più così tanto freddo. Hanno smesso di farmi male persino i piedi.
«Torniamo a casa.»
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