3. Shivers on my skin
Quando Violet apre la porta di casa, le prime cose che noto sono il suo pigiama giallo canarino e la vaschetta di gelato al cioccolato che tiene in mano. Il cucchiaio è tra le sue labbra, la sua espressione è piuttosto annoiata. Non sembra essere dell'umore per fare qualcosa.
«Buongiorno, principessa» sollevo le sopracciglia quando rutta. «Immagino tu ti senta bene, adesso.»
Lei lecca via il gelato dalla posata e chiude la porta alle mie spalle dopo avermi fatta entrare. Mi precede, a passo svelto si fionda sul divano e ferma l'episodio della serie TV che stava guardando prima che arrivassi.
«Per niente, ma ho fame.»
«Non potevi pranzare?»
Mi sistemo accanto a lei dopo essermi tolta le scarpe e mi porto le gambe al petto. Violet solleva gli occhi dalla vaschetta e mi scruta.
«Questa è la mia colazione» afferma, senza il benché minimo rimorso.
Dalle mie labbra esce una risatina, più per confermarle quanto sia senza speranza piuttosto che per giudicarla. Sono abituata al suo post-sbronza – e la sbornia ha un effetto orribile su di lei –, quindi decido di non impuntarmi troppo sul suo mangiare sano. A meno che non esca in pantaloncini e crop-top dubito possa congestionarsi di nuovo.
Faccio scivolare lo sguardo nel salotto, assicurandomi che sia ancora tutto in ordine. Una persona normale sarebbe capace di non creare caos in dodici ore, di cui almeno dieci passate a dormire, ma Violet ha lo strano e improbabile dono di mettere sottosopra una casa intera. Il fatto che viva da sola non l'aiuta e la maggior parte delle volte sono io a sistemare le stanze, ma in fondo mi illudo ancora di una sua possibile ripresa da questo disordine compulsivo.
Per fortuna, però, ogni cosa è al suo posto. I quadri sono ancora appesi alla parete e le tele non sembrano avere nemmeno una macchia di sugo o gelato, nessun completo intimo giace a terra e, soprattutto, i mozziconi di sigaretta sono nel posacenere. L'aria nella stanza non è per nulla pesante, forse perché non ha ancora fumato o perché ha già fatto il cambio.
«Tranquilla, lo spazzolino è in bagno» mi dice, prendendo un'altra cucchiaiata dalla vaschetta. «Vuoi un po' di gelato?»
«Ho finito di pranzare mezz'ora fa, Vy» frugo nella borsa e finalmente trovo i fazzoletti. «E poi sono a dieta.»
«Zero percento di grassi e zero zuccheri» ribatte, dopo essersi lasciata pulire gli angoli della bocca sporchi di cioccolato.
«E allora mi spieghi di cos'è fatto?»
Sa che la sto prendendo in giro. Violet non ha mai comprato vaschetta di gelato più calorica di quella, e persino chi non soffre di glicemia si farebbe venire il diabete mangiando una cosa del genere. Non la giudico, anzi, ma non ho intenzione di rovinare completamente il mio piano dietetico dopo soli due mesi.
«Allora?»
«Allora cosa?»
Stira le labbra. «Non fare la finta tonta. Quella sciarpa non è tua.»
Colpita e affondata.
A volte mi stupisco della schiettezza di Violet, ma soprattutto della sua incredibile abilità nel riconoscere le cose fuori posto. Di certo non credevo che non se ne sarebbe mai accorta, però... non mi aspettavo ci facesse caso anche da appena sveglia.
Le mie guance si colorano di rosso mentre abbasso lo sguardo. Non è che non voglia dirle cos'è successo ieri notte dopo averla accompagnata a casa, tuttavia il suo sguardo è così penetrante da farmi sentire in colpa – come se avessi rapinato una banca e avessi lasciato la mia partner in crime a casa e ignara di tutto.
«Me l'ha data Jace come regalo di laurea.»
«Ma non lo sapeva» mi ricorda, socchiudendo gli occhi.
Sollevo le spalle e rivolgo le mie attenzioni al muro che separa il salotto dalla cucina. È così bianco. Davvero, davvero molto bello.
«Era sua, vero?» mi chiede, continuando a mangiare. «E te l'ha data perché avevi freddo spacciandola come regalo. Mica stupido.»
"Mayday, mayday. È troppo arguta."
Sollevo il lembo della sciarpa e le faccio vedere la targhetta di stoffa all'interno. Ieri sera non ho fatto in tempo ad accorgermene, ma è di un bel beige chiaro che si intona perfettamente al bianco avorio del tessuto.
«E ha anche risolto il problema del numero!» esclama, indicando il recapito telefonico stampato in caratteri eleganti. «Gli hai già scritto?»
«Solo per dirgli che sono tornata a casa sana e salva e solo perché mi ha detto lui di farlo. È stato imbarazzante.»
«Non ti ha accompagnata lui?»
La fisso perplessa. Si aspetta davvero che le risponda di sì? O meglio, si aspetta davvero che avrei lasciato volontariamente la mia macchina parcheggiata davanti allo Shaw's?
Intuisce i miei pensieri e torna ad ammirare la vaschetta di gelato ormai semivuota. Non ho idea di quello che le sta passando per la testa. So che sta zitta apposta per farmi dire di più, ma allo stesso tempo so che non potrei darle i dettagli che spera di ricevere. È senza speranza, anche se in senso positivo.
«Vy, è Jace. Non ti illudere» le dico, appoggiando la schiena al bracciolo del divanetto di tessuto color crema. «E poi sono stata io a insistere per farmi portare allo Shaw's. Se non l'avessi fatto, ora non sarei qui.»
«Saresti nel suo letto a mangiare la pizza di Gigi.»
Allungo il piede e le tiro un colpetto sullo stinco. «Assolutamente no!»
«No al letto o alla pizza?»
Mi copro le guance con le mani e scuoto la testa più e più volte, ritrovandomi le ciocche di capelli sul naso e sugli occhi. Le sistemo al loro posto – forse dovrei tagliarli un po' e comprare uno shampoo che risalti il colore – e mi stringo nelle spalle.
«No a entrambe le cose» ribatto, decisa.
Mi guarda con aria di sufficienza per qualche secondo e sembra starmi dicendo: "Povera piccola, quanto mi dispiace per lo psichiatra a cui verrà affidato il tuo caso", poi torna a ignorarmi. Credo sia delusa.
Non è che Jace non mi piaccia fisicamente... Voglio dire, è un bel ragazzo e chiunque dica il contrario dovrebbe andare da un oculista – uno di quelli bravi –, ma l'ho appena rincontrato dopo otto anni e nemmeno prima avevamo chissà quale rapporto. Certo, è cambiato molto e ieri sera me ne ha dato prova, ma resta il migliore amico di mio fratello e un mio conoscente.
«Non finirò come le sedicenni delle fanfiction su Wattpad» pronuncio ad alta voce, più a me stessa che a Violet.
Lei storce la bocca. «Jace è molto meglio di Cameron Dallas, Justin Bieber e Harry Styles messi insieme. Se dovessi finire come loro, di nuovo, non ti biasimerei.»
«Di nuovo?»
Sgrana gli occhi e mi punta il cucchiaio verso il viso. Una goccia di gelato cade nella vaschetta.
«A te Jace piaceva e io lo so. Ti eri presa una bella cotta per lui, quindi un ritorno di fiamma è inevitabile.»
Scoppio a ridere, le mie guance ormai sono paonazze e questa volta non è a causa dell'imbarazzo. Violet è sempre stata convinta di molte cose e spesso ha avuto ragione... Ma non su quello. Mai.
«Anche no!» le lancio il cuscino a forma di cuore sulla faccia e per poco questo non si sporca con il gelato.
«Ammettilo!» grida, le risa le muovono il petto.
Scuoto la testa e riprendo il cuscino. Sarebbe un peccato se si sporcasse, soprattutto perché gliel'ho comprato io sei anni fa e non è nelle condizioni per essere strapazzato. Violet, tra l'altro, ci ha già fatto un buco.
«Beh, e quindi? Ti ha risposto?» incalza.
«Non proprio... Non lo so, credo.»
Mi guarda come se avesse appena visto un alieno. «Ti ha risposto o no? Se sì, che cosa ti ha detto? La conversazione c'è, controlla!»
Tiro fuori il telefono dalla tasca e glielo porgo, lei apre WhatsApp e va sulla chat con Jace. Aggrotta le sopracciglia, forse nemmeno lei riesce a risollevare le sue speranze ormai infrante.
«Scrive come un ottantenne» dice, appoggiando la vaschetta e il cucchiaio sul tavolino accanto al lato del suo bracciolo. «Però è stato carino. Voglio dire: "Avevo qualche dubbio sulla tua incolumità, sogni d'oro". Wow.»
Mi succhio l'interno della guancia. «È ancora più imbarazzante se leggi ad alta voce.»
Uno squillo improvviso fa saltare Violet e il telefono cade sul divano, la canzone dei Breaking Benjamin parte a tutto volume dopo qualche secondo di vibrazione. Si porta una mano al cuore e mi guarda in cagnesco, e sono sicura che se facessimo parte di un anime in questo momento avrei disegnata una gocciolina sulla fronte.
«Ops, scusa» provo a dirle, recuperando il cellulare e spegnendo la sveglia. «Devo andare a consegnare i curriculum in alcuni negozi e aziende... Non credevo ci avrei messo così tanto, da te.»
Storce il naso, probabilmente prova pena per me. «Ti sei appena laureata e già pensi a trovarti un lavoro» si accascia contro lo schienale e sospira. «Non sarebbe più facile chiedere ai tuoi di trovarti qualcosa?»
«Non mi piace avere un posto di lavoro su raccomandazione, Vy. E poi loro sono nell'artigianato, io ho un bachelor in lingue. Non potrebbero offrirmi molto.»
«Che noia» sbuffa, ma quando mi alzo mi accompagna alla porta.
Recupero la giacca che le ho lasciato ieri sera dall'attaccapanni, poi mi giro verso di lei e le lascio un bacio sulla guancia. È un po' più bassa di me e mi diverte da morire vederla arrabbiata quando mi chino per salutarla.
«Dopo mi fai sapere?» mi chiede, aprendo la porta.
Annuisco. «Ti faccio uno squillo dopo cena, ho qualche commissione da fare prima di tornare a casa e credo ci metterò un po'.»
Esco dall'appartamento, lei mi fa la linguaccia e io ricambio la sua smorfia con un sorriso. Funziona sempre – si sente in colpa a lasciarmi andare così. Infatti, subito dopo, mi manda un bacio e finge di star sventolando un fazzoletto.
Decisamente teatrale.
«Chu.»
*
Non ci metto molto a consegnare i curriculum, a dir la verità. È facile, soprattutto considerando che avessi fatto una lista dei negozi e delle aziende in cui ci sono posti vacanti. Non credo che lavorare come commessa da Bershka possa c'entrare qualcosa con la mia laurea, ma preferisco portarmi a casa qualche dollaro in questo modo piuttosto che non fare niente – o peggio, piuttosto che chiedere aiuto ai miei vecchi compagni di liceo.
Alla WHS, la scuola "speciale" che io e quasi tutte le persone che conosco abbiamo frequentato, sono sempre andati i figli di papà, coloro che un giorno – maturità permettendo – avrebbero ereditato l'impresa di famiglia. Io e mio fratello siamo casi a parte: ci siamo impegnati così tanto alle medie da riuscire a ottenere una borsa di studio, facendo dunque risparmiare tantissimi soldi ai nostri genitori. Ciò però non ha mai significato che potessimo comprare le stesse cose che avevano gli altri studenti, anche se non ci è mai interessato. La maggior parte di loro era ed è superficiale, non riesce a comprendere il significato delle parole "lavoro" e "sacrificio" perché sanno già cosa li aspetta.
Mi hanno sempre fatto tanta tristezza.
Tuttavia, ci sono persone che sono riuscite a guadagnarsi il mio rispetto pur avendo il culo nella panna. Violet è una di queste. Non ha mai sfruttato l'influenza dei suoi genitori né si è fatta beffa di chi non poteva permettersi una Louis Vuitton a settimana, e credo che ciò sia dipeso anche da me. Sono stata un esempio costante di come si possa vivere senza sguazzare nell'oro e le ho dimostrato che non servono migliaia di dollari sulle spalle di un'impresa per ottenere buoni risultati.
Forse è mia amica per questo. Voglio dire, ho tirato fuori il meglio di lei e Violet nemmeno lo sa.
Controllo l'orario. Sono le quattro e mezza e ho già finito tutte le cose da fare, commissioni comprese. Non che andare in banca per ritirare i soldi con cui poi comprarsi vestiti nuovi sia una commissione... ma almeno sono stata produttiva. E poi me lo merito, cavolo, sono uscita dalla Georgetown con il massimo dei voti.
Sospiro. Sono ferma in mezza a una delle piccole piazze del centro e non so cosa fare. Non voglio ancora tornare a casa.
"Forse dovrei approfittarne per fare spese. Giorno più, giorno meno."
Mi do un'occhiata in giro, in questo quartiere ci sono più bar che negozi. Anche un caffè non sarebbe male, però...
«Avalon?»
Giro lentamente la testa e mi ritrovo a fissare un ragazzo. Un sorriso mi schiude le labbra, i miei occhi si spalancano. Che piacevole coincidenza.
«Ciao, Andrew» lo saluto, alzando la mano. «Da quanto tempo!»
Lui si sistema gli occhiali dalla montatura sottile sul naso, annuisce. Non sembra cambiato molto dall'ultima volta in cui l'ho visto, anche se pare più alto. Probabilmente è solo una mia impressione.
«Sono almeno sei mesi che non ti fai sentire» mi rimprovera, poi però si avvicina e mi dà una stretta veloce. «Che ci fai qui?»
«Sono tornata, questa volta definitivamente» sollevo le spalle in un gesto di noncuranza – ormai ho ripetuto così tante volte queste parole che, se potessi, eviterei il discorso. «Ormai mi sono laureata. Tu, invece? Come mai sei in centro?»
Andrew fa un cenno e indica qualcosa alle mie spalle. «Lavoro in quello studio medico.»
«Ah, vero! Alla fine ti hanno preso, eh?»
Aggrotta la fronte e si copre la bocca con una mano. Sta sorridendo, me lo dicono i suoi occhi.
«Cinque mesi fa. Se qualche volta mi avessi chiamato, te l'avrei detto» mi stuzzica. «Comunque ho ancora qualche ora libera. Ti va di andare a prendere un caffè?»
Annuisco e gli sorrido. Averlo incontrato è stata una coincidenza, sì, ma mi conosce così bene da sapere quali fossero le mie intenzioni anche senza chiedere. Il nostro rapporto è sempre stato così, e anni fa eravamo talmente convinti di essere anime gemelle che abbiamo persino provato a stare insieme – alla fine, con un po' di rammarico, ci siamo resi conto che siamo meglio come amici. Non che ci sia dispiaciuto, ma è stato difficile fare finta di nulla dopo essere andati a letto insieme.
Scegliamo un locale poco frequentato per sfuggire alla calca di persone che si riversa nei bar a quest'ora. È nuovo, sono sicura di non averlo visto l'ultima volta che sono venuta qui in centro, però è confortevole: i tavoli sono di altezza media e le sedie sono elegantemente informali; le pareti, rivestite di stampe floreali e quadri, lo fanno somigliare a una galleria d'arte. In vetrina hanno diversi dolci che mi fanno venire l'acquolina in bocca, ma decido di rimanere fedele a ciò che ho detto a Violet e a ciò che mi sono imposta.
"Posso resistere. Posso, vero?"
Andrew si siede al tavolo vicino al vetro del bar e afferra la carta. Scruta il menù con aria assorta – probabilmente sta cercando di calcolare entro quando digerirà tutti gli ingredienti – e alla fine sbuffa. Credo si sia arreso.
Afferro l'altro menù e controllo i tipi di caffè proposti. «Troppi grassi?»
«Non solo» risponde, stizzito. «Sembrano cose per bambini.»
«Nessuno ti obbliga a mangiare» gli ricordo.
Sento il suo sguardo su di me. Ho come l'impressione che abbia socchiuso gli occhi, ancora più piccoli attraverso le lenti, e che stia cercando le parole adatte per insultarmi. Ma non lo fa, non si scompone: non è mai stato quel tipo di persona.
«Io prendo un macchiato» aggiungo, rimettendo il menù nel grazioso portacarte bianco sporco. «Tu?»
Si toglie la giacca e la appoggia allo schienale della sedia. «Anche io.»
Una ragazza di qualche anno più piccola rispetto a noi si avvicina e prende le ordinazioni. È carina, su questo non ci sono dubbi, però ci fissa come se ci avesse riconosciuti e non dice niente. Inquietante, insomma, ma piacente.
«Allora?» inizia lui, appoggiando i gomiti al tavolo e sporgendosi verso di me. «Non ti sembra il momento di iniziare a raccontare qualcosa?»
Arriccio il naso e sventolo la mano. «Niente di che, davvero. Non ci sono grandi novità nella mia vita.»
«Sì, certo. Nessun ragazzo? Non hai trovato lavoro?»
«Oggi sono andata a consegnare qualche curriculum, spero mi prendano almeno in un negozio di abbigliamento.»
Inclina il capo, un riccio castano gli scivola sulla fronte. «Non capisco. Perché in un negozio di abbigliamento? Con la tua laurea puoi fare molto di più.»
«Lo so, ma non è detto che mi prendano in una delle due aziende a cui ho fatto domanda. Fare la commessa sarebbe solo un impiego temporaneo» gli spiego, torturandomi il pollice con l'unghia dell'indice. «Non voglio chiedere favori a nessuno, soprattutto perché significherebbe svalutare sei anni di università e di sforzi. Ho fatto un percorso affidandomi alle mie sole forze... Se chiedessi aiuto adesso, non riuscirei più a guardarmi allo specchio.»
«Posso capire il tuo discorso e la tua riluttanza, però...» indugia, mi guarda, abbassa la testa mentre tiene le mani congiunte davanti al viso. «In una società come la nostra è difficile avere la propria indipendenza. Ti ho sempre ammirata per aver scelto un percorso diverso da quello dei tuoi genitori, ma non ti spaventa non avere agganci? Non hai paura di non riuscire a trovare il posto di lavoro che fa per te?»
Allungo una mano verso di lui, gliela poggio sul braccio. Un sorriso spunta sulle mie labbra mentre scuoto il capo. Sin da quando l'ho conosciuto, Andrew si è rivelato essere un ragazzo disponibile e senza peli sulla lingua. Nel momento in cui qualcosa lo preoccupava, se quel qualcosa riguardava me o una persona a lui cara, non si faceva problemi a parlarne. Era più riservato circa i suoi grattacapi, ma niente che io non sia riuscita a tirargli fuori, ed erano i suoi valori e le sue convinzioni ad avermi convinta. Sincero, schietto e amorevole, Andrew sarebbe il compagno perfetto per qualsiasi ragazza.
"Ma non per me."
«Non ho bisogno di trovare qualcosa che sia uguale per tutti. La mia indipendenza nasce dalla mia voglia di fare, e se anche l'impiego non mi soddisfacesse mi creerei da sola il mio posto nel mondo.»
Sgrana appena gli occhi, le sue mani sembrano sciogliere la loro stretta. Forse non si aspettava queste parole – forse credeva che, giunti a quel punto, avrei ceduto e gli avrei chiesto aiuto –, e ne è rimasto sorpreso. Forse non pensava che fossi in grado di parlare in questo modo.
«Sei cambiata così tanto e sono passati solo sei mesi» sospira, si massaggia una tempia. «Non oso immaginare come saresti stata se ci fossimo incontrati fra un anno.»
Mi sfugge una risata, subito torno con la schiena contro la sedia. Stare con Andrew mi infonde una tranquillità tale che persino la mia ansia pare svanire del tutto.
«Quindi? Nessun ragazzo?» riprende, sollevando le sopracciglia. «Perché adesso mi aspetto di leggere la lista di chi ce l'aveva troppo piccolo e chi troppo grande.»
Smetto di ridere.
A volte le sue battute mi lasciano senza parole – penso esista una parola per descrivere questa sensazione di stupore e incredulità, eppure in questo momento non riesco a ricordarla – e l'unica cosa che possa fare è guardarlo a occhi sgranati. Sono cose troppo improbabili anche per lui.
Non ho avuto molte avventure in questi ultimi sei mesi, almeno niente che possa interessargli davvero, ma c'è una novità di cui lui non è a conoscenza e che, forse, potrebbe fargli piacere. Non ne sono del tutto sicura.
«Nessun ragazzo in quel senso, però...» fingo di spolverare il tavolo, titubante. «C'è una cosa che non sai.»
«Sarebbe?» chiede, curioso.
"Ma sì, ne sarà felice."
«Jace è tornato.»
La sua espressione si incupisce in un attimo. Gli occhi sembrano diventare del colore delle sue ciglia, così scure e folte che gliele ho sempre invidiate, e la sua mascella si indurisce. Stringe le mani a pugno e assottiglia le labbra.
"Felice... Sì, come no."
«Ah, davvero?»
Annuisco, per nulla convinta di voler portare avanti questo discorso. Ero quasi certa che le cose tra loro si fossero tranquillizzate, che ormai nessuno dei due portasse più il rancore con cui si erano lasciati prima che Jace partisse... E mi sbagliavo. Andrew non sembra aver dimenticato nemmeno per un attimo il modo in cui se n'è andato.
«E perché?»
Scuoto la testa perché davvero non so il motivo del suo ritorno. Tutti sapevamo che la sua partenza dipendesse dall'incontrare la madre a Milano, fino ad allora ritenuta scomparsa, ma nessuno di noi ha idea della ragione che l'ha riportato qui. Magari gli mancava suo padre, magari gli mancavamo noi – o magari gli mancava il tempo, anche se ritengo impossibile si possa preferire a quello mediterraneo.
"Noi" siamo il gruppo unitosi grazie a Jace e anche Andrew ne fa parte. "Noi" lo abbiamo riaccolto nelle nostre vite, ma Andrew non sembra intenzionato a fare la stessa cosa.
«Non gliel'ho chiesto» gli rispondo, sincera. «Ero occupata a rendermi conto della sua presenza. Non me l'aspettavo.»
«Chi altro lo sa?»
Ci rifletto. Non credo abbia avuto il tempo di contattarci tutti, siamo davvero tanti e da quanto ho capito è tornato da poco.
«Senza contare me e te, credo solo Violet e Jordan. Jordan lo sapeva già, ma non mi ha detto niente» mi mordicchio l'unghia, un vizio che non mi sono mai tolta, e penso a quanto in fretta possa essersi sparsa la notizia conoscendo la mia migliore amica. «Forse lo sanno anche Morgan, Aric e Jack.»
Sospira e appoggia le mani sul tavolo. «Allora lo sapranno anche Catherine, Sam e Athena.»
Faccio un cenno di assenso e mi porto i capelli dietro la testa. Dentro questo bar fa troppo caldo, forse dovrebbero abbassare il riscaldamento. Ormai è primavera e, anche se di sera fa ancora freddo, non si sta così male durante il giorno. Una giacchetta basta, almeno a me.
«Sembra che ti dia fastidio» insinuo, guardandolo dritto negli occhi. «E non sono sicura di capirne il motivo. Se davvero ne siamo tutti a conoscenza... è un'ottima occasione per una piccola reunion.»
«Preferirei di no» ribatte, secco, spostando le mani quando una cameriera si avvicina e ci mette i caffè davanti. «Non mi importa granché di Jace.»
La cameriera, che fino a questo momento è rimasta in silenzio e che noi non abbiamo degnato nemmeno di uno sguardo, si blocca mentre mi sta sistemando la tazzina davanti. Alzo la testa e sgrano gli occhi.
«Layla?»
Andrew non si gira nemmeno. Mormora qualcosa che non riesco a capire e sbuffa, mentre io abbasso subito il capo e torno a guardare il tavolo. Nessuno di noi due sa come comportarsi: di certo non ci aspettavamo di trovare l'ex ragazza di Jace, una delle più ricche ereditiere di Washington, a lavorare come cameriera in un bar.
«Jace è tornato?» chiede in un filo di voce.
Annuisco senza trovare alcuna parola per risponderle. Prima che Jace se ne andasse, Layla era una ragazza abbastanza simpatica e a modo – pur essendo limitata a sé e alla sua cerchia ristretta di amiche –, ma da quando l'aveva lasciata, partendo poi per l'Italia, era diventata insofferente e odiosa. Forse otto anni l'hanno cambiata – o forse l'ha cambiata lavorare in un posto che lei considerava adatto alla plebaglia senza cultura –, ma immagino che nemmeno per lei sia facile accettare la ricomparsa del ragazzo che l'ha scaricata.
Non dice niente per diverso tempo, resta bloccata nella stessa posizione. Andrew è impaziente e diverso da solito, la sua presenza non gli piace e lo lascia intendere senza farsi alcun tipo di problema. Una volta l'aveva definita "cagacazzo" ed è probabile che lo pensi ancora.
Layla si riprende e lascia lo zucchero sul tavolo. «Capisco» dice. «Salutatemelo.»
Si allontana, io e Andrew ci guardiamo. Lui prende una bustina di dolcificante, io una di zucchero di canna – e pensare che una volta entrambi ne usavamo tre di zucchero bianco. Mi porto la tazzina alle labbra, bevo un sorso di caffè.
«Non fidarti di lui» mormora, dopo aver bevuto in fretta la bevanda. «Otto anni non cambiano una persona, Avalon. Alla fine si rimane sempre gli stessi.»
Il caffè non è mai stato così amaro.
*
Le parole di Andrew mi sono rimaste impresse nella mente e non riesco a smettere di pensarci nemmeno mentre decido cosa fare. Ci siamo lasciati da poco – lui è dovuto tornare allo studio medico per lavorare –, il tempo con lui è passato abbastanza in fretta. Abbiamo parlato per un'ora e mezza di fronte a delle tazzine vuote, nessuno dei due ha ordinato altro: lo stomaco gli si è chiuso appena gli ho detto di Jace, il mio non ha voluto saperne dopo quella frase.
Siamo sempre stati piuttosto sensibili, anche se in modo differente, e aver rivisto Layla non ha contribuito a migliorare il nostro umore. L'aria tra noi era pesante, la tensione era palpabile e non posso biasimare la sua reazione. Forse nemmeno io mi fiderei ancora, se fossi al suo posto.
Non sono mai scesa in dettaglio, nessuno del gruppo l'ha mai fatto. Magari definirci ancora un gruppo è sbagliato, perché non tutti hanno mantenuto i rapporti – per esempio, io non parlo con Catherine, Sam e Athena da anni –; ma mi piace pensare che, in passato, lo siamo stati. Harry aveva l'Esercito di Silente, noi avevamo l'Esercito di Jace. Senza di lui sarebbe stato tutto diverso.
Al tempo non mi rendevo conto di quanto la sua presenza fosse importante per il semplice fatto che credevo niente sarebbe mai cambiato. Lui sarebbe sempre rimasto lì, a osservarci mentre costruivamo i tasselli da usare per il nostro castello di Lego, ad aiutarci nel caso ne avessimo avuto bisogno. Appianava le nostre divergenze, ci faceva andare d'accordo anche se ognuno di noi era diverso dall'altro, ci ha uniti quando nulla avrebbe potuto farlo. Era un ottimo leader, il filo conduttore che legava a sé matasse di colori differenti e che le rendeva un'unica cosa.
Poi se n'è andato e tutto è cambiato.
I fili si sono spezzati, il castello è caduto. Sono rimaste solo le macerie di quello che era riuscito a creare e che Jace stesso rappresentava. Si è frantumato davanti ai nostri occhi e non abbiamo potuto fare niente per impedirlo.
Mi fa strano pensare alle conseguenze della sua partenza, così come mi fa strano credere di aver fatto parte di un qualcosa di così grande. Involontariamente, tutto girava e gira ancora attorno a lui, e che noi lo vogliamo o meno sarà difficile staccarsi dallo status quo che ci ha cucito addosso.
Mi lascio andare a un sospiro e mi passo la mano tra i capelli. Violet dice sempre che fare shopping aiuta a schiarirsi le idee e si dà il caso che abbia prelevato dei soldi dalla banca... Quindi perché no? Magari mi aiuta davvero.
Decido di incamminarmi verso vie con più negozi. Non ho un budget troppo alto per il semplice fatto che non voglio spendere in modo eccessivo, dato che al momento non ho un lavoro, ma mi farò bastare quello che ho senza pensarci troppo. Tanto, come la maggior parte delle volte che vado per negozi, finisco con il comprare solo due capi.
Ci sono molte più persone in giro. Gli uffici ormai sono chiusi e gli studenti sono liberi di uscire dopo le attività dei club di cui fanno parte, affollando le strade come le spiagge di Atlanta Beach in piena estate. Pasqua è passata da un po', eppure i negozi sono ancora addobbati con tanto di coniglietti e uova decorate. A volte mi stupisco di quanto l'America abbia reso commerciali festività come questa – ed è un peccato, perché pian piano stanno perdendo sempre più di valore.
Mi fermo davanti a una vetrina, incuriosita da un vestito di cotone a collo alto. Ci sono più varianti, tuttavia quello nero mi attira di più.
«Ti piace?»
Mi giro di scatto e porto una mano al petto. Jace mi sorride, ha le mani in tasca come al solito.
«Mi hai spaventata» gli dico, cercando di far rallentare il mio cuore mentre faccio respiri profondi. «Non farlo mai più.»
Solleva le spalle. «Peccato, è stato divertente vedere la tua reazione.»
Aggrotto le sopracciglia e storco il naso. «Non è giusto che sia solo tu a divertirti, Groove.»
«Ouch» si stringe la maglietta all'altezza del cuore, il suo volto diventa una maschera di falso dolore. «Non chiamarmi più usando il mio cognome, ti prego. Muoio d'amore ogni volta che le tue labbra pronunciano il mio nome.»
Resto interdetta per qualche istante. Otto anni fa faceva recitazione, era davvero bravo. Forse ha continuato a farlo anche in Italia.
«Non vale» mormoro, abbassando la testa e nascondendo le mie guance. «Non puoi dire certe cose con un'espressione così seria.»
È nella stessa posizione di prima, ma ora mi guarda. No, non mi sta solo guardando: scruta ogni angolo del mio viso e, quando trova quello che stava cercando, torna a sorridermi come se non fosse successo niente.
Sì, è proprio bravo.
«Quindi, ti piace?» mi indica il vestito con un cenno.
Annuisco, poi gli do le spalle. Mi metto a cercare il cartellino per il prezzo, ma le commesse di H&M hanno ben pensato di nasconderlo. Furbe, se si considera che così sarò costretta a entrare in negozio e arriveranno a farmelo provare pur di vendere.
Magari anche io farò così, se e quando mi prenderanno.
«Vuoi entrare?»
Torno a osservarlo. «Sì, tanto dovrei comprare qualcosa. Perché? Vuoi venire con me?»
«È un problema?»
"Ah."
Sghignazzo. «Non ti facevo il tipo che gira per negozi con una ragazza.»
Solleva le sopracciglia, sembra voglia dirmi qualcosa. Probabilmente vuole ribattere con una frase imbarazzante, eppure sta zitto. Si limita ad alzare le spalle e precedermi all'interno dell'esercizio.
Ci sono alcuni completi primaverili a cui do un'occhiata ma che non convincono né me, né Jace, il quale si è improvvisato consigliere di alta moda e vuole darmi una mano a scegliere abiti carini. Ignoro la sezione di intimo anche e soprattutto perché non ho intenzione di avere pareri su quella roba, ma il vero motivo per il quale sono entrata qui è solo uno: quell'abito. Lo cerco con lo sguardo e non lo trovo nemmeno dopo aver spulciato la sezione apposita.
Sto per arrendermi quando Jace, serissimo, torna da me – "Quando si è allontanato?" – con il vestito in ben due colori diversi. Io non l'avevo nemmeno visto e lui, invece, me ne ha portata addirittura una variante.
"Bene così."
«Spero di averti preso la taglia giusta» mi dice mentre mi porge il capo, rispettivamente nero e verde oliva. «Porti la quarta, vero?»
Arriccio il naso. «Dimmi che non l'hai chiesto a Jordan, per favore.»
Sorride. So già che quello che sta per dire mi farà pentire di averglielo chiesto, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro.
«No, sono abbastanza sicuro che mi avrebbe detto la taglia dei tuoi reggiseni invece che dei tuoi vestiti.»
"Ecco, appunto."
Arrossisco e gli do le spalle, dirigendomi poi a grandi passi verso i camerini. Non dovrei farmi influenzare così tanto dalle sue parole, soprattutto perché sono volte solo a farmi imbarazzare, però non posso farci niente. La frase di Andrew risuona nella mia mente come un'eco dimenticata – ma come posso non fidarmi di Jace quando con me si è sempre comportato così bene? Certo, è stato rispettoso e non ha mai valicato i limiti che ci siamo auto-imposti nel nostro rapporto, tuttavia non ha fatto niente di sbagliato. È soltanto sé stesso.
"Andrew, Andrew... Mi farai impazzire" penso, sfilandomi i vestiti e indossando prima l'abito color oliva.
Il modello mi piace, eppure non sono del tutto convinta di come mi stia proprio a causa della sua sfumatura. E poi siamo in primavera, va bene portare una cosa così smorta quando si dovrebbero mettere colori sgargianti?
«Jace, sei lì?» lo chiamo, attaccandomi alla porta.
«Sì, dimmi.»
È incredibilmente vicino al mio camerino. Se questa porta non ci fosse, forse sarei tra le sue braccia.
«Quello nero lo prendo perché la taglia è giusta e mi piace, ma non so se prendere anche quello verde» gli dico, poi mi affretto a spiegargli. «Il modello è perfetto, solo che non credo un colore del genere mi stia bene... Non in primavera.»
«Quindi sei disposta a indossare il nero ma non il verde oliva?» ride, dal suo tono intuisco che, se potesse, mi guarderebbe basito e stupito al tempo stesso. «Esci da lì e fatti vedere. Ti dico io se ti sta bene.»
«Ma è imbarazzante.»
«Muoviti, Black.»
Apro appena la porta, la prima cosa che vedo è il suo braccio e il vestito bianco che ha piegato su di esso. Non riesco a dedurre il modello, ma sembra carino. Quando alzo lo sguardo su di lui, pronta a fargli una battutaccia, lo trovo intento a osservare le pieghe del vestito che indosso.
I suoi occhi bruciano su di me.
Mi chiudo nelle spalle, il mio cuore batte un po' più veloce. Non mi ha mai guardata in questo modo e ora mi sento a disagio. Non sembra starmi guardando come farebbe il migliore amico di mio fratello con la sorella di quest'ultimo, bensì come Jace con Avalon, la ragazza. È strano, elettrizzante e piacevole allo stesso tempo.
«Compralo» mormora, poi mi porge l'altro abito voltando il capo. «Provati questo. Se ti piace, te lo regalo.»
«Perché dovresti?» gli chiedo, accarezzando la stoffa morbida e non troppo pesante del tessuto.
Sospira, si passa una mano tra i capelli e mi rivolge un ultimo sguardo. Non sono mai riuscita a capire cosa gli passasse per la testa, eppure, in questo momento, riesco a comprendere quello che vuole trasmettermi senza alcuno sforzo.
«Perché è sicuramente un regalo migliore e meno improvvisato della sciarpa che indossi.»
Mi dà le spalle e si allontana. Io rimango ferma, imbambolata davanti alla porta aperta del camerino, con il viso completamente rosso e il cuore a mille. È in questo momento che mi rendo conto di una cosa – una cosa che non pensavo avrei mai potuto pensare, ma che invece mi scombussola lo stomaco e mi dà i brividi.
"Guardami, Jace. Mi piace essere guardata da te."
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