2. The sky kissed the soil

Mi lecco le labbra dopo aver bevuto un sorso di birra. Violet sta parlando da almeno dieci minuti del gruppo di attivisti al quale si è unita durante il college e non riesce a trovare nessun altro argomento di conversazione, forse perché abituata a discutere solo di quelle cose tra le persone che frequenta da qualche anno. Il loro è un progetto interessante – voglio dire, chi non sarebbe eccitato all'idea di salvare le uova di ragno? – e io continuerò a supportarla... ma ora mi sembra solo di starla sopportando.

«E poi cavolo,» esclama, poggiando il calice sul tavolo, «i ragni sono carini. Perché c'è gente come te che ne ha paura? Hanno tutti quegli occhietti... Per non parlare delle zampette pelose. Le zampette, Avalon.»

Tiro fuori la punta della lingua mentre aggrotto le sopracciglia e rimetto la patatina nella confezione di cartone. Improvvisamente mi è passata la fame.

«Non ne ho paura, Vy, mi fanno schifo» le ripeto per l'ennesima volta. «Una sola volta ho provato a farmi piacere un ragno e solo perché era piccolino. Poi è cresciuto e, per l'amor di Dio, che orrore.»

«Ma chi, Tartina?»

Assottiglio lo sguardo. «Ti sembra che abbia adottato altri ragni oltre a Tartina?»

Lei fa spallucce. «Era carina.»

«Soprattutto da morta» ghigno, inclinando la testa. «Decisamente carina.»

Violet tamburella con le unghie delle dita sul ripiano di legno e appoggia il mento sul palmo della mano. Mi scruta per qualche istante, forse alla ricerca di una qualche sorta di pentimento, ma quando non ne trova nemmeno una briciola sospira rassegnata.

«Hai la testa altrove» constata. «È tutto okay?»
Annuisco e sposto le patatine. «Sì, perché?»

«Ti conosco da nove anni e ogni volta che pensi a qualcosa che ti è successo fai questa faccia» mi indica il viso con l'indice laccato. «Quindi? Sputa il rospo, non abbiamo tutta la serata. Ricordati che devo fare conquiste.»

Se c'è una cosa che ho sempre apprezzato del carattere di Violet è che, indipendentemente dalla situazione in cui si trova, riesce a cambiare atteggiamento nel giro di qualche secondo. Spesso si è sentita criticare la sua giocosità, tuttavia non si è mai lasciata influenzare dalle invidie di chi non si era mai preso la briga di conoscerla – anche perché sapeva di non essere così male. Mostrava il suo lato serio solo a chi contava davvero qualcosa per lei, e a distanza di quasi un decennio non posso che essere felice di esserle amica.

Se c'è un'altra cosa che ho sempre apprezzato del carattere di Violet, ma che non ho mai smesso di detestare, è la sua capacità di leggere il mio sguardo. Forse il motivo è sua madre, cartomante professionista da trent'anni da cui ha ereditato questa sua caratteristica.

«Non è niente di che» le dico, cercando di cambiare argomento. «Comunque, Jordan mi ha mandato un messaggio poco fa. Gli ho detto di venire qui, ti dispiace?»

«No, non mi dispiace, ma ti ho fatto una domanda.»

"E anche questa volta mi ha fregata."

La guardo per qualche secondo, indecisa sul da farsi, e alla fine sbuffo. Questa ragazza sarebbe capace di farmi ubriacare pur di sapere una cosa così stupida, il che non va a mio vantaggio: rischio io di farmi ritirare la patente, non lei.

«Al bancone ho incontrato Jace» ammetto, osservando le foglie di insalata abbandonate nel piatto. «E non mi ha riconosciuta. Non prima che gli dicessi di essere la sorella di Jordan, almeno. Ci sono rimasta un po' male, ma è finita lì.»

Violet strabuzza gli occhi e schiude le labbra. «No, no, aspetta. Aspetta. Quel Jace? Quello che è andato in Italia?»

Sollevo le sopracciglia e faccio un cenno di assenso.

«E me lo dici solo ora?» sbotta, spalancando la bocca. «Com'è? È diventato più bello? Situazione muscoli? Barba? Che poi ha solo un anno in più di noi, vero? Perché è tornato solo ora?»

«Non mi mancava per niente farmi tartassare dalle tue domande...» pronuncio, non del tutto ironica. «Calmati, Vy. Una domanda alla volta.»

Lei mi guarda male, ma dopo aver bevuto un sorso di birra fa come le ho detto. «Okay. Perché è tornato solo ora, quindi?»

«Non lo so, e poi non è detto che sia tornato da poco. Io non ero quasi mai a casa quando c'era anche Jordan, è possibile che sia rientrato a Washington già dall'anno scorso.»

«E tuo fratello non te l'avrebbe detto? Non scherziamo.»

Le sorrido. «Evidentemente no, dato che non ne sapevo niente.»

La mia migliore amica resta in silenzio per almeno un minuto e mezzo – un'infinità, considerando che il silenzio non mi piaccia per nulla. Si guarda attorno con fare sospetto, sul suo volto riesco a leggere tutta la sua curiosità anche se non ne comprendo bene il motivo. Non è che abbia mai avuto un rapporto chissà quanto stretto con Jace, così come io non l'ho mai considerato più di un conoscente. Un leader, certo, ma con cui parlavo appena.

«E cosa ti ha detto?» mi chiede, tornando a fissarmi. «Jace, intendo.»

Arriccio il naso. «Che sono cambiata.»

«Grazie al cazzo, sono passati otto anni.»

Scoppio a ridere e mi copro la bocca con la mano. Violet mi guarda come se fossi un alieno appena atterrato nel parcheggio dello Shaw's con una navicella a forma di carretto dei gelati.

«Che c'è? È vero!»

Scuoto la testa e fingo di asciugarmi una lacrima. «Lo so, lo so, tranquilla. È solo che mi ha fatto ridere il modo in cui l'hai detto.»

«A me non fa ridere» sbuffa, incrociando le braccia sotto al seno. «Ti ha davvero detto una cosa così ovvia? Non si è impegnato nemmeno un po'?»

In pochi istanti torno seria. Un po' la capisco – del resto, si sta facendo le stesse domande che mi sono posta io –, ma allo stesso tempo non riesco a biasimare Jace. È sempre stato un tipo più... fisico, ecco.

«Non è detto che avesse qualcosa da dirmi. Nemmeno io sapevo cosa fare» le rispondo, dando una veloce occhiata allo schermo del telefono. «Jordan è qui fuori, andiamo?»

Mi alzo non appena mi fa un cenno di assenso e recupero la giacca. Infilo il telefono in tasca dopo aver digitato una risposta veloce a mio fratello, poi controllo di avere le chiavi della macchina e il portafoglio nella borsa. Già una volta mi è capitato di dimenticarmi cose così importanti in un locale, vorrei evitare succedesse di nuovo.

La calca di persone sembra essersi triplicata, eppure è passata soltanto un'ora e mezza da quando siamo entrate nel pub. Credevo che durante le serate primaverili la maggior parte della gente preferisse divertirsi in altro modo, ma evidentemente mi sbagliavo. D'altronde, perché dovrebbero volere qualcosa di diverso da me? Alla fine qui c'è tutto quello di cui si potrebbe avere bisogno.

Chiedo scusa a un ragazzo dopo averlo urtato e mi affretto a uscire dal locale, temendo che questo fosse già ubriaco o facilmente irritabile. Una volta varcata la porta mi guardo dietro per assicurarmi di non essere stata seguita.

Violet, accanto a me, mi tira la manica della giacca. «Oh, cazzo» mormora.

La fisso, interrogativa, e seguo la direzione del suo sguardo fino a quando non raggiungo la meta predestinata. Vorrei tanto, tanto tornare dentro e farmi prendere a calci da quel tipo.

Mio fratello sta fumando una sigaretta mentre parla con Jace, appoggiato al muretto poco distante, e sembra piuttosto vivace. Per un attimo mi pare di essere tornata a otto anni fa, quando scene del genere erano del tutto normali, e mi tremano le gambe.

"Non è il momento di diventare nostalgica."

Raddrizzo le spalle e mi incammino verso di loro, seguita a ruota da una Violet in preda allo stupore. Probabilmente ha capito anche lei quello che sta succedendo.

Ancora a pochi passi di distanza noto lo sguardo di Jace, un sorriso appena accennato sulle sue labbra, e come se quello fosse stato un segnale Jordan si gira e solleva la mano con la sigaretta.

«Ah, eccoti qua!»

Sospiro giocosa e mi avvicino per lasciargli un bacio sulla guancia. «Ciao, Jordan. Credevo non avrei fatto in tempo a incontrarti, oggi.»

Controllo l'orario mentre dice: «Piuttosto ti avrei rotto le palle anche alle due di notte».

Scuoto la testa e lascio che lui e Violet si salutino. Mio fratello è sempre stato un tipo piuttosto espansivo, uno di quelli che viene definito "alla mano", e non ha mai avuto problemi a rapportarsi con le persone che lo circondavano. Anni fa la faceva sembrare una cosa semplice, e a distanza di tempo mi rendo conto che non è così difficile come credevo. Mi è servito solo un po' di più per capirlo.

«Guarda chi c'è» riprende, facendomi tirare su la testa. «Ti ricordi di Jace?»

Le dita delle mie mani hanno un fremito. Non gli ha detto che ci siamo già incontrati all'interno dello Shaw's. Piuttosto scortese, ma magari non ne ha avuto il tempo.

Annuisco. «Sì, abbiamo avuto occasione di riconoscerci un'oretta e mezza fa. Lo stavi aspettando?» chiedo, rivolgendomi a Jace.

Lui fa un cenno col capo, una ciocca di capelli gli scivola sulla fronte. Una volta non li teneva così lunghi, eppure trovo stia meglio così. Sembra di certo più grande di quanto non sia in realtà.

«Conosci tuo fratello, è arrivato in ritardo come al solito» un ghigno gli illumina il volto. «Otto anni non sono serviti a molto, eh?»

«Fottiti, non è stata colpa mia» solleva le spalle e mi lancia un'occhiata. «Turno domenicale sommato a un cliente insistente, sai. E comunque hai appena scoperto la mia sorpresa.»

Lo guardo allibita. «La sorpresa era lui?»

Violet si mette a ridere e io le tiro una gomitata sul braccio. Non è per niente divertente. Perché dovrebbe esserlo? È una cosa così stupida da farmi addirittura ricredere su mio fratello.

Jace sembra avere più o meno la stessa reazione, anche se è difficile interpretare la sua espressione. Non è mai stata fredda, quanto più... piatta. Era difficile carpire le sue emozioni allora così come adesso, per non parlare delle cose a cui pensa: non lascia trapelare la benché minima informazione.

Mio fratello sbuffa. «Ah... Sorpresa rovinata, perfetto. Ora passiamo alla parte divertente?»

«Che sarebbe?» chiede Violet, sporgendosi verso di lui.

Riesco a sentire la sua eccitazione, tutti i suoi neuroni che mandano segnali in ogni angolo del corpo e gridano: "Sì, cazzo, finalmente possiamo attuare il nostro piano di conquista". Vorrei dirle di non sperarci troppo, però resto in silenzio. A volte è divertente vedere la falsa delusione che le si stampa in faccia.

«Potremmo andare da qualche parte, se vi va» propone. «Anche se non posso fermarmi a lungo, domani mi devo svegliare alle sei e mezza.»

«È mezzanotte, che credevi di fare?» lo stuzzica Jace.

Jordan cerca supporto nel mio sguardo e poi in quello della mia migliore amica, ma quando non lo trova sospira e distende le spalle. Si aspettava forse un'idea stupida che mettesse a rischio il suo posto di lavoro?

Violet alza una mano. «Discoteca?»

«Assolutamente no» rispondiamo in coro io e Jace.

Ci ritroviamo a fissarci e poco dopo sorridiamo. Non siamo cambiati poi così tanto: su alcune cose siamo ancora simili.

La prendo a braccetto per provare a tirarla su di morale – anche perché il suo umore, ora che ha ricevuto una risposta negativa, è sotto i piedi – e le lascio un buffetto sulla guancia. A volte sa essere così dannatamente infantile.

«Però non possiamo stare qui per tutto il tempo» dice Jordan dopo qualche secondo. «Le temperature si stanno abbassando ed è noioso stare fermi nello stesso posto. Propongo di fare almeno una passeggiata qui intorno.»

Io e Jace annuiamo, certi che quella sia una delle poche opzioni contemplabili, ma Violet scuote il capo con riserbo. E ci saremmo aspettati qualsiasi frase, tranne quella che pronuncia dopo essersi staccata da me.

«Ho bisogno di bere per affogare le mie conquiste fallite e ascoltarvi.»

Tutti e tre scoppiamo a ridere.

*

Stiamo camminando da una mezz'oretta e non posso fare a meno di stingermi nelle spalle. Rimpiango di non aver portato una sciarpa perché credevo di non averne bisogno, ma i gradi sono calati notevolmente e mi ritrovo con le mani gelide. In inverno fa molto più freddo, sì, ma una temperatura del genere a metà Aprile è impensabile.

Violet e Jordan chiacchierano davanti a me e Jace. Si sono lentamente staccati da noi durante il tragitto e nessuno di noi due gliel'ha fatto notare, forse perché entrambi eravamo presi dal tentare di non morire congelati. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente, ma siamo troppo orgogliosi per ammetterlo ad alta voce.

     Non abbiamo parlato molto. A dirla tutta, non abbiamo parlato per niente.

     Io, dal mio canto, mi sono limitata a chiedergli se fosse disposto a seguire il piano di mio fratello; lui, invece, si è limitato a rispondermi con un cenno. È sempre stato di poche parole, eppure avrei preferito provasse a rompere il ghiaccio che si è formato in questi otto anni con almeno un "come stai". Sarebbe stato più semplice trovare un discorso da fare con lui, se me l'avesse chiesto.

"E invece no, Avalon, ti becchi il silenzio imbarazzante."

Washington stasera è quieta, forse anche perché si sta facendo tardi e domani quasi tutta la città dovrà andare al lavoro. Si è alzata una leggera brezza che scuote le fronde degli alberi a lato della strada, qualche petalo di ciliegio cade a terra credendo di trovarsi in territorio nipponico.

Lo considererei uno scenario quasi romantico se non facesse un freddo cane.

Rabbrividisco e cerco di scaldarmi infilando le mani nelle maniche del maglioncino e della giacca. Non ho idea di come Violet possa resistere, ma probabilmente riesce a sostenere le temperature solo grazie all'alcol che le scorre in corpo.

«Che serata, eh?»

Sgrano gli occhi e mi volto verso Jace. «Ma parli con me?»

Mi guarda confuso. «Con chi altro dovrei parlare?»

Beh, in effetti non ha tutti i torti. Violet e Jordan sembrano molto presi dalla loro conversazione. Da quello che arriva alle mie orecchie, sembra stiano avendo un improbabile dibattito sull'effetto dei liquori sulle cavie da laboratorio – o magari mi sono ubriacata di freddo, perché pare impensabile persino per quei due.

Provo a sorridergli, per poco non mi battono i denti. «Scusa, credevo che la mia compagnia non fosse gradita. Sai com'è, mi hai ignorata per mezz'ora.»

Torna a guardare il marciapiede, il suo profilo appuntito fa capolino dai capelli. Li ha slegati, me ne sono accorta nello stesso momento in cui l'ha fatto, forse perché voleva coprirsi il collo. Non so a quanto sia servito, ma di certo la mia autostima ha subito una bella botta.

«Non sapevo cosa dirti» ammette, e non so perché ma sembra imbarazzato. «Non volevo annoiarti con domande stupide.»

Io, invece, non so cosa rispondergli. Vorrei chiedergli tante cose, eppure come lui temo che siano sciocche e impertinenti. L'ultima cosa che voglio è infastidirlo con domande per le quali gli manca la voglia di rispondere.

«Puoi chiedermi quello che vuoi» lo rassicuro.

A essere sincera, preferisco fare discorsi senza senso piuttosto che rimanere in silenzio. Il silenzio fa rumore e a me quel rumore non piace.

Jace evita di parlare ancora per qualche istante. Magari sta facendo mente locale, magari sta pensando a tutte le volte in cui ci siamo parlati e si possono davvero contare sulle dita di una mano. Come ho già detto, "conoscenti" è la parola giusta per noi due.

«Alla fine hai fatto l'Accademia di Arte?» mi chiede poi, prendendomi alla sprovvista.

Scuoto la testa. «No, sono andata alla Georgetown.»

«Stai ancora studiando?»

Un altro cenno negativo. «Mi sono laureata l'altro ieri.»

Fa un fischio, un sorriso mi provoca dolore alle guance. Si gira di nuovo a guardarmi e mi porge la mano destra.

«Congratulazioni, dottoressa» dice, scherzoso. «In cosa?»

Gliela stringo, un po' titubante e un po' sorpresa dal gesto, poi gli rispondo: «Lingue e Letterature Nordiche. Tedesco, danese e norvegese, per la precisione».

Si sofferma sulle nostre mani intrecciate e, poco prima di lasciarmi andare, soffia: «Sei gelida» poi, tornando a camminare, continua: «Dimmi qualcosa in tedesco».

Ecco, lo sapevo.

Chiunque venga a sapere le lingue che ho studiato mi fa una domanda simile, alternandosi tra le tre che nomino. È un pattern, ormai. Fortunatamente, mi sono preparata abbastanza frasi da sbandierare in ogni occasione. Benedetta sia la mia previdenza, perché con Jace sarebbe difficile a pensare qualcosa di originale.

"Anche se non può capire quello che dico."

«Es war, als hätt der Himmel, die Erde still geküßt, daß sie im Blütenschimmer von ihm nur träumen müßt

Proprio quello che non avrei voluto dire.

Solleva le sopracciglia, a metà tra l'essere impressionato e il non aver capito mezza parola di quello che ho detto. So già quale sarà la sua prossima domanda, quindi lo anticipo: «È la prima strofa di Mondnacht, una poesia scritta da Eichendorff. Se vuoi te la traduco» dico, provando a fargli l'occhiolino e fallendo miseramente.

Sorride. «Vai.»

«Era come se il cielo avesse baciato silenziosamente la terra, ed essa nello splendore dei fiori dovesse sognare solo di lui

Jace non risponde, non subito. Sembra stia cercando un doppio significato nei versi che gli ho citato, e sollevando lo sguardo al cielo terso sembra persino trovarlo. Una visione decisamente romantica nel senso più letterale del termine.

«È bella» mormora. «A Milano ho conosciuto un tedesco. Hai una pronuncia simile alla sua, credo ti farebbe i suoi complimenti.»

«E tu non me ne fai?»

"Perfetto, sono un'idiota."

Cerco di rilasciare la tensione che io stessa ho creato mettendomi a ridere, ma l'espressione di Jace non è mai stata così seria – e, se dico "mai", lo intendo davvero.

«Ah, stavo...»

«Sei stata brava, Avalon.»

Il silenzio non mi piace, tuttavia questa volta sono io a tacere. È strano: per un attimo lo stomaco mi ha fatto male e il mio cuore ha rallentato il suo battito, eppure non ha detto niente di che. Probabilmente, il motivo è il modo in cui ha pronunciato il mio nome – o il fatto che l'abbia pronunciato per la seconda volta da quando ci siamo rincontrati.

Otto anni fa non mi chiamava quasi mai per nome e nemmeno io lo facevo, ma solo perché non era necessario. Adesso, invece, mi sembra quasi vitale.

Ho bisogno che mi discerna da mio fratello.

Io non sono solo la sorella di Jordan.

Abbasso lo sguardo sul marciapiede. Non so quando ci siamo fermati, non me ne sono neanche accorta. La brezza leggera di prima sembra essersi calmata e ora fa molto meno freddo. Credo.

«Stavo scherzando» ammetto in un bisbiglio. «Però grazie.»

Non so che altro dirgli. Ci sono delle parole, dentro di me, che premono per essere gridate in faccia al vento – i miei polmoni vogliono liberarsene –, ciononostante non sono in grado di esprimerle. Le loro sillabe mi paiono complesse, i loro suoni troppo duri per poter essere pronunciati.

Che brutta situazione.

«Ragazzi, c'è un problema!» urla Jordan in nostra direzione.

Alzo in fretta la testa e mi accorgo che dista almeno cinquanta metri da noi. Accanto a lui, Violet è china a terra e ha le braccia avvolte attorno alla sua vita. La bottiglia di superalcolico è stata abbandonata al lato del marciapiede e i petali di ciliegio sono diventati la sua nuova dimora. Inizio a correre verso di loro e, senza curarmi troppo del freddo penetrante che ho avvertito fino a questo momento, mi sfilo la giacca e la metto sulle spalle di Violet.

«Mi sa che ho bevuto troppo... Mi viene da vomitare» sussurra, dolorante.

Aggrotto le sopracciglia e la squadro. «No, Vy, non è colpa della vodka... Sei una stupida. Ti avevo detto che ti avrei accompagnata a casa a cambiarti.»

Lancio un'occhiata a Jordan, visibilmente preoccupato. È normale che lo sia: Violet si è accucciata a terra in un istante e ha iniziato a sentirsi male dal nulla. Lo sarei anche io, se non la conoscessi così bene.

«Sta' tranquillo» gli dico. «È solo una congestione. Ha bisogno di tornare a casa, andare in bagno e mettersi a letto.»

La mia migliore amica, pur essendo in preda al dolore, trova il tempo e la forza di guardarmi male quando dovrebbe ringraziarmi. Ho evitato apposta di dire ad alta voce che una cagata le avrebbe fatto bene e lei mi ripaga così.

Jace guarda l'orologio sul suo polso, fino a quel momento rimasto nascosto dalla manica della giacca, e poco dopo si rivolge a Jordan.

«È l'una. A meno che tu non vada ora, domani non riuscirai ad alzarti.»

«Cazzo» impreca lui di rimando.

«Jordan, vai. Ho la macchina, posso riaccompagnarla io» gli dico, alzandomi in piedi e tirandola su.

Violet fa un verso strano – sembra il lamento di un animale che viene soppresso – e prova a tirarsi indietro i capelli. Subito la assecondo, ma mi pento di averlo fatto nello stesso istante in cui glieli tengo in una coda. Si gira di scatto verso il lato erboso del marciapiede e si china in avanti, rigurgitando la vodka e la cena da Shaw's.

Jordan fa una smorfia. «Non potete stare in macchina da sole.»

«Vi accompagno io.»

Sgrano gli occhi, mio fratello ha la mia stessa reazione. Guardiamo entrambi Jace, statuario come suo solito, e lo osserviamo senza dire niente per qualche secondo. Non sembra preoccupato, ma non credevo fosse il tipo da mettere a rischio i sedili della sua macchina per una persona che conosce appena.

"In realtà, credo non li metterebbe a rischio nemmeno per Jordan."

«Non è necessario...»

«Insisto.»

Tiene le mani in tasca, i suoi occhi sono leggermente socchiusi. Non sta avanzando alcuna pretesa, vuole farlo e basta e il suo atteggiamento me lo conferma. E io, in fin dei conti, non ho la forza di rifiutare un aiuto.

«D'accordo» sospiro. «Jordan, tu inizia ad andare a casa. Ti chiamo domani.»

Lui è piuttosto perplesso ed esita a incamminarsi. Non credo sia perché non si fida di Jace – al contrario, se potesse affidare la sua vita a qualcuno, quel qualcuno sarebbe proprio il suo migliore amico – quanto perché, in realtà, è davvero in pensiero per Violet. Pensarci mi fa strano, ma ho sempre saputo che tra loro ci fosse del tenero.

«È tutto okay. Ci pensiamo io e Jace.»

Alla fine si arrende. «Mandami un messaggio quando arrivi a casa.»

*

Le minacce non proprio velate di Jace sono state ben chiare. Quando siamo entrati in macchina – nella sua, perché la mia, secondo lui, è troppo complicata da guidare – e mi sono messa sui sedili posteriori con Violet, che intanto aveva appoggiato la testa sulle mie gambe e si era coperta con la mia giacca, mi ha fatto capire in modo piuttosto esplicito che se avesse vomitato di nuovo avrei pagato io il lavaggio. Gli ho detto che non ci avrei pensato due volte, forte del fatto che mi sentissi in debito con lui, ma il suo sguardo sembrava quello degli inquisitori di streghe delle serie televisive e mi ha messa a disagio.

Per tutto il tragitto sono stata ad accarezzare la fronte di Violet, imperlata di sudore freddo, mentre tentavo di distrarla. A un certo punto Jace ha anche messo un po' di musica, ma non ho riconosciuto la lingua. Probabilmente erano canzoni italiane, un qualcosa che si è portato via da Milano quasi senza permesso.

È stato difficile dargli le indicazioni precise, anche perché non ricordava benissimo le strade e io sono una di quelle persone che alla guida ha bisogno di certezze – a dir la verità, ne ho bisogno sotto ogni aspetto dalla mia vita, ma non lo ammetterei mai ad alta voce e sicuramente non a lui. Nonostante ciò, siamo arrivati incolumi davanti a casa di Violet e Jace ha persino aspettato che salissi con lei e la mettessi a letto.

Un gesto carino, devo ammetterlo. Da lui non me lo sarei mai aspettato.

Sto scendendo le scale che precedono il portone del palazzo, ma prima di uscire mi fermo a osservarlo attraverso il vetro oscurante. È appoggiato contro la portiera della macchina e ha lo sguardo basso, tra le dita tiene una sigaretta quasi finita e ai suoi piedi giace un altro mozzicone. Sembra si sia perso nei suoi pensieri, perché non si accorge di me fino a quando non vede le mie scarpe spuntare davanti alle sue. Alza la testa e mi fissa. Io non so bene cosa dirgli.

«La tua giacca» dice, come se quella frase dovesse significare qualcosa.

Faccio spallucce e sorrido. «L'ho lasciata a Violet, tanto domani torno a vedere se si sente meglio.»

«Hai freddo?»

«No, non troppo.»

Resta immobile ancora per qualche istante, la sigaretta gli si è consumata tra il pollice e l'indice. La lascia cadere a terra e la schiaccia, poi mi dà le spalle e si infila in macchina. Faccio per muovermi per andarmi a sedere, certa che ormai stia per rimettere in moto, ma mi ferma con un gesto e torna davanti a me. Tiene una sciarpa chiara sull'avambraccio, con le dita mi sposta i capelli dietro le spalle e, come se niente fosse, me la avvolge attorno al collo.

Schiudo le labbra e mi soffermo sui suoi occhi. Mi scrutano lentamente, indugiando in ogni angolo del mio viso, e mi chiedo che cosa veda. Non voglio alcun complimento, questa volta.

«È italiana» mormora, le sue falangi mi sfiorano l'orecchio mentre ritira il braccio. «Puoi tenerla, se ti piace. Io non la uso.»

Annuisco e sfioro il tessuto. Sembra cashmere, ma non ne sono del tutto sicura. Però la qualità è buona, su questo non ci sono dubbi.

«Grazie» gli rispondo, non trovando il coraggio di dirgli che ha il suo profumo.

«Di niente, è il tuo regalo di laurea.»

Il tono in cui dice quella frase mi fa sorridere. Non era un regalo programmato, eppure il modo in cui me l'ha dato mi fa pensare che lo sia. So che è una speranza stupida – non sapeva nemmeno che mi fossi laureata, del resto –, ma mi crogiolo in quell'illusione ancora per qualche secondo, fino a quando lui non mi dà un colpetto alla schiena e rientra in macchina. Lo imito, sedendomi al posto del passeggero, e aggancio la cintura di sicurezza mentre guardo dritto davanti a me.

La musica va ancora, ma Jace deve aver cambiato playlist perché riesco a riconoscere le canzoni trasmesse dalla radio collegata in Bluetooth. Mi accoccolo contro il sedile e osservo il titolo passare sullo schermo illuminato di giallo.

«Ti piacciono ancora. Hai diffuso il verbo a Milano?» gli chiedo, ridendo.

Jace accenna un sorriso. «Mi sono rifiutato di rivolgere la parola a chi non conosceva i Three Days Grace

«Sei melodrammatico» gli rispondo, allungando la mano e cambiando il brano. «Ah... Meglio ancora.»

Aggrotta le sopracciglia e mi lancia un'occhiata, poi torna subito con lo sguardo fisso sulla strada. Le luci di Washington gli illuminano il viso e fanno sembrare ancora più spigolosi i suoi tratti già marcati.

«Ti concedo di cambiare canzone solo perché i The Fray sono bravi» mi punzecchia, tendendo il braccio sul volante. «Ti porto a casa.»

Non è una domanda, lo so. Sono stanca e vorrei davvero infilarmi subito a letto, ma non posso lasciare la mia macchina nel parcheggio dello Shaw's.

«No, portami al locale, devo recuperare l'auto» ribatto, tirandomi dritta sulla schiena. «Altrimenti domani non posso nemmeno andare da Violet.»

Non dice nulla e per un attimo tutto ciò che sento sono le parole di Be The One. A parte la musica, che non è niente di più di un rumore di sottofondo, c'è silenzio – ma è un silenzio confortante, un nulla che però non sa di vuoto.

Siamo soltanto io, lui, i The Fray e le luci della città.

«Posso sempre accompagnarti domani a prenderla» bisbiglia, più a sé stesso che a me. «Non sarebbe un problema.»

«Jace...»

«È tardi e sei a pezzi, Avalon, si vede. Non sei nelle condizioni di...»

«Jace» lo chiamo di nuovo, questa volta guardandolo.

Si comporta esattamente come mio fratello: entrambi si preoccupano allo stesso modo, entrambi credono di potermi salvare da qualsiasi male del mondo. Jace, tra l'altro, sembra aver ereditato questo atteggiamento in seguito agli anni trascorsi con lui.

«Ci metto venti minuti a tornare a casa» gli dico, seria. «Non mi addormenterò nel bel mezzo di un incrocio. Stai tranquillo.»

Si ferma al semaforo, è appena scattato il rosso. Stringe una mano sul volante e l'altra sul cambio, poi rilassa le spalle e si gira a guardarmi.

«Sicura?»

Annuisco.

«D'accordo, allora.»

Gli sorrido. Sono felice che abbia capito di non doversi preoccupare fino a questo punto, ma provo anche un senso di insolita amarezza. Mi è rimasta sulla lingua, è un retrogusto dolceamaro che non riesco a dimenticare e a cui non vorrei pensare.

Arriviamo davanti allo Shaw's in così poco tempo che, quando Jace si ferma, credo sia solo al semaforo. Mi guardo attorno, un po' intontita dal calore diffusosi nell'abitacolo, e quando riconosco l'insegna mi affretto a slacciarmi la cintura. Sto per scendere e recuperare la borsa quando la mano di Jace si chiude attorno al mio polso.

Mi giro di scatto. È un contatto improvviso, inaspettato, e non so per quale motivo mi stia trattenendo. Non ne ho nemmeno la più pallida idea.

«Jace?»

Forse nota il mio sguardo, forse i miei occhi parlano più di quanto vorrei che facessero. Sta di fatto che mi lascia andare e io mi accorgo di essere schiacciata contro il finestrino.

«Scusa, volevo solo ricordarti di mandare un messaggio a Jordan quando arrivi» mi spiega, piuttosto impacciato. «E di mandarlo anche a me.»

Lo osservo confusa. «Perché?»

«Perché sei una ragazza e sono le due di notte» pronuncia, scocciato, schioccando la lingua contro i denti. «Che domande fai?»

Sento il calore del mio corpo risalire persino nella sua più piccola dose sulle guance e arrossisco. Certo, è ovvio che voglia assicurarsi che sia a casa sana e salva, però... Doveva proprio dirlo in quel modo?

«Non ho il tuo numero» sussurro.

Le sue dita corrono ad afferrare un lembo della sciarpa, e quando lo solleva mi si para davanti agli occhi un'etichetta di stoffa.

«È scritto qui.»

E non c'è solo il suo numero, ma anche il suo nome.

Questa sciarpa è sua e solo sua.

Mi mordo il labbro inferiore, fortunatamente metà del mio viso è nascosto dalla stoffa morbida della fascia.

«D'accordo.»

Stiamo zitti, in macchina non si sentono nemmeno i nostri respiri. Questi però prendono forma contro i finestrini, condensandosi sul vetro ed estraniandoci ancora di più dal mondo al di là dall'abitacolo. C'è imbarazzo tra noi, so di non essere l'unica a percepirlo.

Non sappiamo nemmeno come salutarci.

Cosa si dice a una persona che non si vede da otto anni, ma che in una sola sera sembra essersi riavvicinata come se non fosse passato nemmeno un giorno?

Io non lo so.

«Fammi sapere» dice, lasciando la sciarpa e rimettendosi dritto.

A quanto pare nemmeno lui.

Gli faccio un cenno, poi lo saluto velocemente ed esco dalla macchina. Quando mi chiudo la portiera alle spalle ho l'impulso di riaprirla, di farmi accompagnare a casa da lui, ma l'aria della sera mi investe e mi costringe a tenermi ben stretta la sciarpa.

Probabilmente non gliela ridarò mai più.

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