2. Solo un sasso
Allora? Com’è andato il primo giorno?
Il messaggio di Edoardo fu la prima cosa che vide quando si svegliò. Non aveva la nausea, proprio come Gennaro aveva detto, e sprazzi di ricordi della sera prima continuavano ad affiorare a tradimento, facendogli salire una voglia matta di sorridere come un coglione e di seppellirsi vivo dalla vergogna allo stesso tempo.
Una merda, grazie. A te?
Cioè “una merda”? Che è successo?
Comunque, credo di piacerle. Ci siamo quasi baciati, ieri sera. Secondo me ci stava.
Certo che ci stava. Quella là ti sta sotto, te l’ho detto mille volte.
Perché “quasi”?
Perché prima che potesse succedere è entrato il padre nella stanza.
Perché “una merda”?
Che palle quell’uomo.
Comunque mi si è seduto sulle gambe.
Oddio, e tu che hai fatto?
E io l’ho abbracciato, tipo. E mi ha preso le mani, le stringeva, e te lo giuro non c’ho capito più un cazzo.
Io qua ci muoio. Uccidimi.
Ma scusa–
Perché è andata una merda?
Sono cose positive, mi sembra.
Ti sembra un cazzo!
Tanto non significa niente. E rischio davvero di fare il guaio se continua così, io te lo dico.
Cosa ci perdi a dirglielo? Al massimo ti dice di no.
Sì, e magari poi smette di parlarmi per sempre perché gli fa schifo. E io devo cambiare continente, o buttarmi giù da un ponte, o magari tutte e due, perché no.
Scommetto che in Bolivia è pieno di ponti
Ne sai niente?
Ma che dici?!
Genny non è mica uno stronzo.
«Buongiorno» sentì biascicare, dal letto accanto al suo. Si portò il telefono al petto in un gesto istintivo, anche se nessuno avrebbe potuto sbirciare lo schermo a prescindere. «Già sveglio?»
Alzò lo sguardo. Gennaro doveva aver appena aperto gli occhi, sbatteva le palpebre ancora intontito dal sonno. «Sì, Edo mi stava dicendo una cosa…»
Il ragazzo si accigliò in una smorfia confusa. Carino. «Ha scritto nel gruppo?»
«No, lui…» sospirò. «Niente, si è quasi baciato con Marchesi, tutto qui.»
«Perché quasi?»
«Perché il padre di lei li ha interrotti.»
«Ma dai, che palle.»
«Quello che ho detto io» borbottò. «Tanto quei due prima della fine delle vacanze qualcosa la combinano.»
«Sì, per forza» commentò Gennaro, che si era voltato di schiena e osservava il soffitto. «Lui piace a lei, lei piace a lui… se non fanno niente sono due idioti.»
«Io gliel’ho detto, ma quella è tonta.»
La smorfia confusa aumentò. «Hai parlato con Chiara?»
«Sì, l’altro giorno. Le ho detto di darsi una mossa, che vedere chi è ricambiato e fa il codardo mi fa rosicare.»
«E lei che ha detto?»
«Di farmi i cazzi miei, e che tanto potevo avere tutte le ragazze che volevo.»
«Questo è vero. C’hai la fila.»
«Non sono tutte. L’ha ammesso anche lei, alla fine. Lei non mi vuole, per esempio.»
«E ti dispiace?»
«Cosa? Che Marchesi non mi vuole? E che me ne frega, scusa?»
«Che ne so? Magari ti piace.»
«A me? Chiara Marchesi?!»
«Non posso vedere niente che la riguarda, se ti piacesse non potrei saperlo.»
«Non c’è bisogno della vista per capire che non mi interessa Chiara Marchesi.» Solo l’idea gli faceva pizzicare la pelle dal fastidio. Non avrebbe toccato Chiara Marchesi manco se avesse avuto il cazzo al posto della figa.
Gennaro sbuffò. «Odio che non posso vederla. Questi punti ciechi stanno iniziando a irritarmi sul serio.»
«È per questo che siamo qui, no? Per capire perché non ci vedi quando c’è lei di mezzo.»
«A proposito, penso che dovremmo entrare nella grotta a capodanno.»
«A capodanno? Perché proprio a capodanno?»
«Perché ci sarà gente in paese, daremo meno nell’occhio, e la polizia sarà impegnata con gli ubriachi quindi non farà caso a noi.»
Lorenzo fece una smorfia. «Ha senso.»
«Mentre oggi ti porto a Napoli!»
Lorenzo si voltò da un lato per vederlo meglio. Gennaro fissava il soffitto, sorrideva e sembrava… felice. «A Napoli?» chiese, non riuscì a evitare di sorridere di rimando.
Dio, quanto era cotto.
«A Napoli, sì. Andiamo a mangiare la pizza, e sul lungomare, e a San Gregorio Armeno, e poi oh, come tramonta il sole devo portarti al San Martino, per forza!»
«Per forza?»
«Per forza» sospirò lui, sognante. «Devi vederlo. Là sopra facevano il Comicon, una volta, però poi ci andava troppa gente e l’hanno spostato. Noi eravamo troppo piccoli, quindi non ci sono mai stato. Magari un giorno ti ci porto proprio, al Comicon. Ci sono i cosplayer, e vendono tanti gadget carini, e ci vendevano il boba tea prima che andasse di moda, e dove lo fanno ora c’è anche un laghetto dove ti puoi sedere a mangiare! Ci verresti con me?»
L’ultimo anime che Lorenzo aveva visto era stato quello dei Pokémon a nove anni, e non gli interessava nulla che fosse stato prodotto più a oriente di Molfetta, ma Gennaro questo lo sapeva benissimo. «Mi piacerebbe molto.»
«Sarebbe bello. Sai, quando programmo di fare una cosa bella mi viene sempre la tentazione di sbirciare, vedere come sarà, ma poi se cedo non riesco a godermela quand’è il momento, come vedere un film che sai già come finisce, capisci?»
«Immagino di sì, più o meno.»
«Ci sono delle eccezioni, certo, ma è più raro.»
Lorenzo sarebbe stato ore a sentirlo parlare. «Tipo?»
«Tipo cosa?»
«Che cosa hai visto che è stato bello anche se lo sapevi già?»
Lo vide stringersi nelle spalle. Era ancora di schiena, guardava in alto senza distogliere lo sguardo dalla lampadina spenta che pendeva sopra il suo letto. «Non so, tipo… tipo quando i miei mi hanno portato a Disneyland a undici anni.»
«Mi ricordo che me ne hai parlato.»
«O tipo quando hanno messo i vocali su WhatsApp!»
A quello rise. «I vocali su WhatsApp? Davvero?»
«Sì, ti ricordi che palle dover scrivere sempre tutto? I vocali mi hanno svoltato la vita! Non sai quanto li ho aspettati prima che si decidessero a metterli, l’avevo visto da un secolo…»
«Tu sei un caso umano.»
«O tipo quando è nata mia sorella, Anna, ho saputo che mamma era incinta un anno prima che lo fosse, ma ero così contento quando l’ho vista…» sospirò. «E anche tipo quando ho incontrato te.»
L’ultima frase aleggiò nell’aria, leggera come un pulviscolo e più pesante di un macigno. «Me?»
«Te. Non ho dormito per una settimana, prima di quel primo giorno. Ti ho aspettato tanto, sai?» gli chiese, come se fosse una cosa normale. Come se Lorenzo se lo fosse potuto aspettare. «Ti ricordi la prima volta che mi hai visto?»
E come avrebbe potuto dimenticare? Era stato allora che l’aveva scelto, gli era bastato un solo secondo, a colpo d’occhio. «No che non me lo ricordo.»
«Ti sei presentato, persino! A me! E io sapevo benissimo chi eri, ti avevo visto, e te l’ho anche detto! Da ragazzino ero proprio cretino… ti ho detto di aver già sentito il tuo nome all’appello.»
«Sì, ora che me lo dici non mi è nuovo…»
Le immagini di quel giorno tornarono a galla. L’imbarazzo di presentarsi al ragazzo carino, lo sforzo di non incepparsi quando gli rivolgeva la parola, erano rimasti gli stessi dopo anni.
«È normale che non ricordi» lo rassicurò. «Del resto io incontravo… te. Io ai tuoi occhi ero ancora un compagno di classe come un altro.»
Un compagno di classe come un altro. Ma certo.
«Ragazzi!» La voce di Pia, la madre di Gennaro, gli risparmiò l’onere di rispondere. «Vi conviene andare a fare colazione, poi la Cumana si affolla e vi fate tutto il viaggio in piedi!»
«Sì, sì, ma’, siamo svegli, ora ci alziamo!»
Lorenzo si accigliò. «La Cumana?»
Solo allora Gennaro si decise a guardarlo. Sembrava davvero contento, e Lorenzo decise di fare finta che lo fosse perché lui era lì. «Sì, la metro si chiama come la Sibilla, hai sentito bene. Lo sapevi che viene da qui, no? Siamo venuti apposta.»
«Quindi prendiamo il tuo treno?»
«In un certo senso…»
Tre quarti d’ora dopo erano puliti, vestiti, a stomaco pieno e fuori di casa. «Allora» gli disse, infilando le mani in tasca con tono quasi disinteressato, «dov’è che mi porti, quindi?»
«Al mattino al lungomare, direi. Poi per merenda ci prendiamo un cuoppo in via Toledo, saliamo a San Gregorio Armeno, a pranzo pizza, ci facciamo un pomeriggio in centro, quando cala il sole andiamo a San Martino e poi prendiamo la Cumana di ritorno prima che chiuda. Mamma a cena ha detto che ci fa la genovese!»
Che bello. Suonava quasi come un appuntamento. Gli sarebbe piaciuto fare finta che lo fosse, ma poi sarebbe stato male nel ricordare che non era vero. «Capito.»
«Devi decidere dove andiamo a pranzo. Puoi scegliere: posto famoso se vuoi farti il figo su Instagram, posto dove fanno una pizza decente ma il dolce più buono, posto che se la tira un po’ ma se lo possono permettere, o posto dove non c’è mai fila ma è comunque buono.»
Lorenzo ci pensò su, tentò di ricordarsi le opzioni e di riflettere, poi capì che la risposta poteva essere soltanto una: «Qual è il tuo preferito?»
«Non ci provare! Voglio che decida tu!»
«Ho deciso. Ho scelto il tuo posto preferito.»
«Ah sì? E se il mio posto preferito fosse il Burger King?»
Fece finta di pensarci su un’altra volta. Gennaro non amava i fast food, non l’avrebbe mai portato lì, men che meno là nella sua zona, ed entrambi ne erano più che consapevoli.
«Lo è?» gli chiese, infine.
«Magari oggi sì.»
Lorenzo si strinse nelle spalle. «Se il tuo posto preferito fosse il Burger King, pranzerei con un menù grande, il tè alla pesca e il loro panino al maiale che non ricordo più come si chiama.»
Gennaro fece una smorfia. «Hai detto tè alla pesca. Non possiamo più essere amici, mi dispiace.»
«Non dirmi che ti bevi il tè al limone!»
«Il vero tè è al limone. Quando lo bevi caldo ci metti il limone o il succo alla pesca?»
«Il tè caldo fa schifo in ogni caso.»
«Okay, dopo questa non possiamo più essere amici per forza.»
«Ma magari!» borbottò. «Chi è che ti vuole come amico? Non io, questo è poco ma sicuro.»
«Ti prego. Non dureresti due giorni senza di me…»
La Cumana si rivelò essere diversa da come si aspettava. Un treno che si chiamava come Genny sarebbe dovuto essere molto più bello di così, che affronto era mai quello?
Pia, comunque, aveva avuto ragione. Era fine dicembre, tutti erano in vacanza, e uscire presto si rivelò un’ottima idea. I mezzi erano semi deserti, e benché il giorno prima si fosse svegliato tardi si accorse di non avere neanche un po’ di sonno, nemmeno un minimo.
Sentiva scorrere un’energia sottopelle che gli faceva pizzicare i muscoli, non riusciva a smettere di sorridere e – era normale che le luci della metro brillassero tanto?
Parve notarlo anche Gennaro, perché sollevò il naso all’insù, verso le lampadine sbeccate sul soffitto sferragliante, e sorrise. «Oh, guarda quanta luce! Ci dev’essere uno stregone felice qua a bordo.»
«Cazzo, Genny» sbottò, coprendo l’imbarazzo con un colpo di tosse. Se avesse sospettato qualcosa, in breve ci sarebbe stato anche uno stregone invisibile.
«Cosa c’è?»
«No, no, niente.»
Arrivarono al lungomare che lui aveva fumato meno del solito, e si godeva l’aria gelida del primo mattino che gli riempiva i polmoni.
Lorenzo non vedeva il mare da quando l’anno prima Edoardo l’aveva portato a Stintino, e come ogni volta gli sembrò la seconda cosa più bella che avesse mai visto.
«Mi manca, un po’. Il mare, dico. Prima potevo andarci quando volevo. Era bello passeggiare al lungomare in inverno, come stiamo facendo.»
Ouch. «Ti dispiace esserti trasferito?»
«No, quello mai. Mai, capito?»
Mah. Chissà se era sincero. Lorenzo si strinse nelle spalle. «Okay.»
Lo sguardo di Lorenzo spaziò verso l’orizzonte, faceva freddo ma il cielo era sgombro da nubi. Sentiva i passi di Gennaro accanto a lui, ma non si voltò a guardarlo perché altrimenti avrebbe capito qual era per lui l’unica cosa migliore del mare su tutta la faccia della terra e sarebbe stato un vero casino.
«Lo vedi quel castello lì?» gli indicò, e Lorenzo annuì. «Si chiama Castel dell’Ovo, è il più antico di Napoli. Si chiama così perché si dice che il poeta Virgilio ci abbia nascosto l’uovo di una sirena, e che sinché l’uovo fosse stato intatto alla città non sarebbe accaduto nulla.»
«Io pensavo che Virgilio fosse romano, non napoletano.»
Gennaro ghignò. «Lo era, nel senso che viveva nell’impero romano… non tutti gli antichi romani abitavano a Roma, sai? Lo chiamano “impero” apposta.»
Lorenzo di rado si era sentito più stupido di così. «Hai ragione.»
«È anche sepolto a Napoli! La tomba si può ancora visitare, è in un parco che si chiama virgiliano. Che fantasia… ma comunque è chiuso al pubblico perché è pericolante pure quello.»
«Non credo abbia messo davvero un uovo di sirena nel castello, però.»
«No, non penso neanch’io. O magari sì… magari le sirene si sono soltanto estinte, tipo le streghe» commentò, a mezza bocca. «Ti va un cuoppo?»
«Cos’è?»
«È la cosa più buona che avrai mai mangiato nella tua vita sinché non andremo a pranzo.»
«Alla fine dove andiamo a pranzo?»
«Nel posto dove mangerai la pizza migliore della tua vita.»
«Qua volano paroloni, mi pare.»
Gennaro lo abbagliò con uno dei suoi sorrisi illegali in almeno venti stati dell’Unione Europea. «Dovresti averlo imparato, ormai. Quando parlo, parlo sul serio.»
Lorenzo scoprì in fretta che Gennaro aveva ragione, non che la cosa lo sorprese. Si divorò il cuoppo, ordinarono tre pizze in due, frugarono la via dei presepi da cima a fondo – Lorenzo non pensava di aver mai visto così tanta gente tutta insieme – e quando furono le quattro e mezza presero la metro per andare su al quartiere del Vomero, che a quanto pareva era in cima a un colle.
«Sai, quelli che vivono al Vomero sostengono di non essere di Napoli, alcuni quando vanno in centro dicono che vanno “giù a Napoli”» spiegò, mentre il sole basso sull’orizzonte allungava le ombre e tingeva d’arancio le strade della città.
«Che boriosi» commentò Lorenzo, che iniziava un po’ ad accusare la stanchezza, dopo aver camminato tutto il giorno.
«Sì, sono considerati un poco snob. Forse anche io sarei snob, se vivessi in un posto così.»
«Non mi sembra un posto molto diverso dal centro.»
«Solo perché non siamo ancora arrivati dove voglio portarti.»
«Non credo che saresti snob in ogni caso.»
«Come mai lo pensi?»
Che domande. Da dove cominciare? «Sei l’unico discendente in vita della Sibilla Cumana, cazzo, dovrebbe bastare questo. E sei anche ricco, hai più soldi di quanti un sedicenne dovrebbe averne. Piaci alle ragazze, vai bene a scuola, la tua famiglia ti vuole bene» spiegò, con gli occhi bassi e le mani nelle tasche. «Hai tutto, ma… ma non hai mai fatto sentire nessuno meno di quello che è, per questo.»
«È… è un pensiero bellissimo. Grazie di averlo detto.»
«Non è un pensiero. È la verità.»
Il suo volto si illuminò. «Eccolo! Questo a destra è Castel Sant’Elmo, mentre lo spiazzo a sinistra è il balcone di San Martino. In genere la gente ci festeggia i compleanni, le lauree o cose così. È carino» ammise, a voce bassa come se d’un tratto fosse più insicuro. «Cioè, magari non è niente di che, ma a me piace.»
Camminarono qualche altro passo e lo vide.
Oltre una ringhiera di marmo bianco, si estendeva giù da colle tutta la città. Il sole stava appena svanendo a mollo nel golfo, e i lampioni e le luci delle case in contrasto con il nero della piana vesuviana facevano sembrare anche Napoli una piccola galassia, un firmamento sulla terra che si specchiava a quello ancora acerbo del cielo.
«Quella linea dritta al centro è Spaccanapoli, che taglia la città a metà. Beh, non credo la tagli proprio a metà, ma almeno è davvero dritta. La vedi?»
«Sì» rispose a fior di labbra. Con una corsetta coprì lo spazio che lo separava dal balcone e vi si appoggiò, sporgendosi per vedere meglio.
Gennaro lo raggiunse e gli si mise accanto. Le loro spalle si sfiorarono mentre anche lui si appoggiava al balcone coi gomiti e guardava giù.
Lorenzo gli rivolse un’occhiata di sfuggita. Il suo viso in penombra gli faceva i tratti più affilati, e le sue lentiggini erano quasi sparite al buio. Gli occhi scuri erano più pensierosi che mai mentre osservava la sua città in silenzio. «Ti piace?»
Se avesse potuto, a quella domanda si sarebbe messo a ridere. «Dire che quello che vedo mi piace sarebbe come dire che la luna alla fine è solo un sasso.»
Lo vide sogghignare, compiaciuto, poi gli disse: «Piano coi complimenti» e Lorenzo ebbe paura che avesse capito. Prima che potesse giustificarsi, però, l’altro aggiunse: «Siamo sempre in terronia, che figura ci fai se ti sbilanci così?»
Anche a Lorenzo sfuggì un sorriso. «Hai ragione, siamo in terronia, queste sviolinate dovrei tenermele per me.»
«A proposito, io… non ti ho mai ringraziato per quello.»
«Per cosa? Darti del terrone?»
«Per aver menato quelli che lo fanno.»
«In realtà ho menato solo Luca, gli altri li ho minacciati soltanto.»
Gennaro faceva scorrere gli occhi per le vie del centro, Lorenzo lo osservò mentre prendeva un profondo respiro. «Grazie. Ha significato molto per me, sai? Non credo che immagini quanto.»
«Ma figurati. Non è stato difficile, tipi come quell’idiota me li mangio a colazione.»
«Ti hanno sospeso, abbassato la condotta e tua nonna ti ha messo in punizione.»
«Sai che mi importa…» borbottò, con noncuranza. «Quello che conta è che poi hanno smesso. Il resto non mi riguarda.»
«Perché l’hai fatto?»
Lorenzo deglutì. Perché l’aveva fatto? Domanda dalla risposta immediata da pensare quanto impossibile da pronunciare.
Diglielo, la voce di Edoardo, spuntata all’improvviso, lo pungolò dall’interno. Digli perché. Digli che l’hai fatto perché già allora saresti diventato pazzo piuttosto che permettere a qualcuno di fargli del male. Merita di saperlo da te.
«Eri mio amico.»
«Non è vero. Ero un tuo compagno di classe, tutto qui.»
«Beh, mi sei sempre stato simpatico.»
Giuro sulla nostra amicizia che se non apri quella cazzo di bocca adesso, domani mattina appena mi sveglio gli mando gli screen di tutte le volte che ti sei lagnato per lui da quando lo conosciamo.
«Già, in effetti stare simpatico a te è più unico che raro» scherzò lui.
Lorenzo prese una boccata d’aria gelida. È il momento perfetto, fa’ qualcosa. Fa’ qualcosa, santo cielo, fa’ qualcosa!
Edoardo aveva ragione. Era là, in un posto bellissimo, con un ragazzo bellissimo, e Gennaro gli si era seduto sopra e gli aveva detto che incontrarlo l’aveva reso felice, e gli aveva fatto vedere i suoi posti preferiti, e mannaggia a lui forse si stava illudendo davvero, che errore da principiante.
«Non è vero» buttò fuori, le gambe gli tremavano e si stringeva tanto al parapetto che le braccia gli facevano male. «Non è vero che mi stavi simpatico.»
«Ti stavo antipatico?»
«Sì. Cioè… no, certo che no.»
«Non ti seguo.»
«Non è vero che mi stavi “simpatico”. Riccardo mi stava simpatico, Alessandro mi stava simpatico, non tu. Ma non mi stavi… non mi stavi nemmeno antipatico.»
«Ti stavo indifferente?»
Sei davvero una frana.
«Oh, taci tu!»
«Che ho detto?!»
«Niente!» esclamò, strizzando forte gli occhi. «Porca puttana infame» sibilò, per calmarsi, poi li riaprì. Gennaro ancora non lo stava guardando, proprio come quella mattina, e Lorenzo si chiese se stesse cercando di rendergli le cose più facili. Magari sapeva già cosa lui voleva dirgli, magari voleva addirittura incoraggiarlo.
Non poteva essere, giusto? Se Gennaro avesse saputo non l’avrebbe invitato per le vacanze, non avrebbe dormito in stanza con lui, non si sarebbe cambiato con lui presente, non l’avrebbe portato in un posto così. L’avrebbe allontanato, perché questo si faceva con un interesse indesiderato.
«Non so se posso dirti perché l’ho fatto.»
Gennaro distolse lo sguardo dal panorama e lo abbassò sulle sue mani, osservandosi i pugni chiusi. Si mordicchiò il labbro e sospirò. «Credevo l’avessi capito. Credevo di aver fatto abbastanza per dimostrarti che puoi fidarti di me.»
«L’hai fatto, Genny, l’hai fatto, ma…»
«Perché hai spaccato la faccia a Luca in quarta ginnasio?»
Gennaro aveva ragione. Gli aveva dimostrato di potersi fidare di lui. Non l’avrebbe respinto in modo crudele, non l’avrebbe nemmeno deriso. Anni prima aveva confessato a Edoardo che aveva avuto una cotta per lui e ora l’idea lo faceva ridere. Perché con Gennaro avrebbe dovuto essere diverso? Anche lui era suo amico, e magari un giorno ne avrebbero scherzato insieme, tipo “Ti ricordi quando avevi una cotta per me? Eri così goffo, non riuscivi manco a dirlo!”
Solo che quella non era solo una stupida cotta. Solo che Gennaro avesse scherzato sui suoi sentimenti avrebbe fatto male. Non avrebbe potuto sopportarlo.
«Ho spaccato la faccia a Luca in quarta ginnasio perché… perché…» perché ti voglio, ti voglio, ti voglio, cazzo.
Gennaro lo guardò, per la prima volta da quando si erano affacciati lassù. Annuì, esortandolo a parlare.
Lorenzo si fece forza, schiuse le labbra e non disse niente.
Non disse niente perché Gennaro gli aveva dato una spinta senza preavviso, facendolo barcollare indietro di tre passi, poi un incantesimo l’aveva colpito ed era crollato a terra come un peso morto.
Note autrice
Ma dai, proprio sul più bello!
Almeno abbiamo quasi scoperto cosa intendevano Lorenzo e Gennaro quando hanno raccontato che qualcuno ha cercato di farli fuori, e che Genny ha parato il culo all'amico come sempre.
Come si evolverà la situazione? Cosa succederà? Lo scoprirete mercoledì, ma intanto potete fare teorie se volete ~
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