1. Ti voglio
Ti voglio, pensava, ogni volta che mostrava quel sorriso aperto ed entusiasta da bambino. Ti voglio, ogni volta che lo vedeva col naso affondato nel dizionario di greco a impegnarsi anche se avrebbe potuto sbirciare nel futuro le soluzioni e tanti saluti. Ti voglio, ogni volta che gli cucinava qualcosa e poi lo osservava prendere il primo boccone e chiedeva: «allora, com’è?» aspettando una risposta che già conosceva con aria tutta compiaciuta.
E pensava ti voglio quando lo vedeva felice, pensava ti voglio quando lo vedeva triste, pensava ti voglio quando andava a vedere le partite solo perché l’avrebbe fatto contento, quando era a scuola, a casa, vestito, in pigiama.
E gli diceva «sei un idiota» e quello che pensava era ti voglio, e gli diceva «te lo scordi» e quello che pensava era ti voglio, e gli diceva «grazie», «coglione», «aspettami», «certo», «non penso» e in realtà era sempre ti voglio.
Ti voglio, cazzo, ti voglio troppo, ti voglio che mi brucia, che mi fa male, ti voglio che mi metterei a urlare.
«Come stai?»
So che sto per esplodere, cazzo, come fai a non vedere che ti voglio?
«Bene» bofonchiò asciutto, mentre infilava il mozzicone di sigaretta esausta nell’astuccio in metallo.
«Davvero, se ti senti a disagio dimmelo che ce ne andiamo.»
«Sul serio, sto bene.»
«So che non ami conoscere nuove persone…»
«Sono tuoi amici, no? Quanto storto potrebbe mai andare?»
Erano arrivati a Pozzuoli quel pomeriggio, si erano lavati e cambiati dopo il viaggio in treno, e Gennaro lo aveva portato al bar a conoscere i suoi vecchi compagni di classe delle medie.
Lorenzo era un po’ preoccupato da quella serata. Aveva paura perché cosa sarebbe successo se si fosse accorto che Gennaro voleva più bene a quei suoi vecchi amici che a lui? Poteva accettare che lui non lo volesse, non in quel modo, ma non avrebbe potuto accettare rivali anche in amicizia, sarebbe stato troppo.
Però era con Genny, sapeva che lui non l’avrebbe mai portato in alcun luogo che avrebbe potuto metterlo a disagio, farlo sentire in imbarazzo.
L’avrebbe seguito ovunque, a occhi chiusi e senza doverci nemmeno pensare. L’avrebbe seguito ovunque perché con Genny era sempre al sicuro.
«Ti adoreranno, vedrai!» esclamò lui infatti, sfregando le mani tra loro come se si pregustasse già la serata.
«Lo dici perché l’hai visto?»
«Lo dico perché sei adorabile.»
Lorenzo strabuzzò gli occhi e schiuse le labbra per inspirare un po’ d’aria. Di quel passo non sarebbe riuscito ad arrivare vivo non solo all’uscita del bar, ma nemmeno all’entrata. «Finiscila» borbottò, asciutto, cercando di dissimulare l’imbarazzo con una smorfia seccata.
«Oddio, Genny!» una voce improvvisa lo fece sobbalzare. Un ragazzo e una ragazza, presi per mano, si avvicinavano a passo spedito.
Gennaro gli aveva accennato che due dei suoi amici stavano uscendo insieme, che li avrebbe visti quel giorno. Lorenzo aveva risposto un annoiato «mhm» ma quello che avrebbe voluto dire era sempre ti voglio.
I due si lasciarono andare, e il ragazzo strinse Gennaro in un abbraccio enfatizzato da due vigorose pacche sulla schiena.
La scena lo rassicurò parecchio. Anche lui aveva abbracciato Gennaro una volta, ma non aveva avuto bisogno di nessuna pacca. Si erano stretti forte, si erano detti che si volevano bene tantissimo sempre, Gennaro gli aveva premuto le labbra sul collo e Lorenzo aveva pensato che sarebbe svenuto a breve.
Se avesse visto Genny premere le labbra anche sul collo di quel tizio, allora sì che si sarebbe preoccupato… ma lui non l’aveva fatto, aveva risposto alle pacche con altre pacche e poi–
La ragazza entrò nella sua visuale, coprendoli alla vista. «Tu devi essere il famoso Lorenzo, quello bravo a calcio!»
Lui alzò un sopracciglio, scettico. «Quello è Edoardo.»
«No, Edoardo è quello che veste sempre firmato. Tu sei l’altro, no?»
Lorenzo sbatté le palpebre, incredulo. «Immagino di sì?»
«Teresa, tanto piacere!» esclamò, e gli strinse la mano. Sorrideva.
«Piacere» rispose, a mezza voce.
Che Gennaro avesse davvero raccontato ai suoi amici che era quello bravo a calcio? Che pensasse questo di lui? Che pensasse che era più bravo di Edoardo?
Si morse il labbro forte per non sorridere come uno stupido.
«Giuseppe, Lorenzo. Lorenzo, Giuseppe» si inserì Gennaro, che si era separato da quell’abbraccio tiepido e lo stava presentando all’amico.
«Ciao.»
Quel tipo si voltò verso la ragazza e le afferrò la mano di nuovo, con fretta. «Che facciamo, entriamo o aspettiamo Mauro e Bizio?»
Fu Gennaro a rispondere. «Entriamo. Occupiamo il posto anche per loro ed è fatta.»
Giuseppe spalancò la porta del locale, un baretto di paese parecchio frequentato, e li guidò all’interno. Era decorato per natale, con qualche ghirlanda e un abetino, e il personale portava dei lunghi cappelli rossi col pompon bianco.
Individuarono l’unico tavolo libero, che però aveva solo tre sedie. Gennaro si avvicinò a lui e gli posò una mano sulla spalla, stringendola. C’era chiasso là dentro, e caldo, e per farsi sentire il ragazzo gli parlò all’orecchio, facendolo rabbrividire.
«Siediti, okay? Vado a cercare altre sedie, torno subito.»
Gennaro fece per allontanarsi, ma Lorenzo voleva di più. Gli cinse i fianchi con un braccio e lo fermò.
«Cosa?» chiese, anche se aveva capito, perché era proprio uno stupido, e patetico.
L’amico si avvicinò ancora, Lorenzo sentiva il suo fiato sull’orecchio e sarebbe rimasto là tutto il giorno a farsi ripetere la stessa frase ancora, e ancora e ancora.
«Cerco le sedie» gli disse. «Tu siediti, io arrivo.»
Sentì la tentazione di chiedergli di ripetere per l’ennesima volta che avesse detto, ma aveva ancora una dignità. Lo lasciò libero e si sedette.
«Allora» esclamò Teresa, coi gomiti sul tavolo e piegata verso di lui. «Come si sta su al nord?»
Lorenzo alzò le spalle. «Bene. Fa freddo.»
«Anche qui fa freddo» gli disse Giuseppe, «ogni tanto nevica pure.»
«È vero» concesse lui. «Ma su fa più freddo ancora.»
«Almeno l’estate non si muore di caldo…» sospirò la ragazza. «Qua è un pianto ogni volta.»
«Non credere, sai? In pianura padana d’estate si sta di merda, e non c’è manco il mare a stemperare.»
«Niente sedie libere!» una voce familiare lo spinse a voltarsi. Gennaro aveva sbuffato forte, e in quel momento si stava abbassando la zip del piumino. «Quando arriva un cameriere gliele chiediamo, magari.»
«Posso stare in piedi sinché non si avvicina qualcuno a prendere l’ordine» intervenne Lorenzo, già pronto ad alzarsi.
«Non ci sarà bisogno» rispose l’amico, con un sorrisino. L’attimo dopo, come se fosse stato il gesto più naturale e logico del mondo, gli si sedette sulle ginocchia.
Lorenzo si irrigidì, le luci del locale sfarfallarono, sollevando un leggero brusio.
«Ti do fastidio?»
Gennaro era seduto su di lui, voltato di tre quarti, e lo guardava in attesa di una risposta. Lorenzo restò qualche attimo pietrificato e immobile, incapace di articolare la parola. Quando riuscì a scuotersi dallo shock, le lampadine parvero tornare a funzionare e cacciò fuori un debole: «No.»
Gennaro parve convincersi a quella risposta. Si mise comodo e si appoggiò all’indietro, facendo aderire la schiena al suo petto. Lorenzo deglutì.
Sentiva le guance in fiamme, tanto che poteva quasi sentire il suono del sangue che sfrigolava sottopelle, in tutto il volto e sulle orecchie. Sapeva di dover essere arrossito, sperava solo che nel locale poco illuminato non si vedesse.
«‘Fanculo» ringhiò, tra i denti. Se avesse continuato così avrebbe fatto qualche accidentale di sicuro, ma se avesse iniziato a imprecare per disinnescare Gennaro gli avrebbe chiesto il perché. «Porca troia» sibilò tra sé e sé, per non farsi sentire. «Cazzo.»
Gennaro cominciò a chiacchierare coi suoi vecchi amici, ma per quanto ci provasse Lorenzo non riusciva a capire una parola. Tutto quello a cui riusciva a pensare era a cosa fare delle sue braccia che in quel momento erano buone ai due lati del corpo. Voleva allacciarle intorno ai fianchi del ragazzo su di lui, per tirarlo a sé e tenerlo vicino. Forse, però, abbracciarlo in quel modo mentre gli stava in grembo sarebbe stato sospetto.
Eppure era Genny che si era seduto, era Genny che stava appoggiato a lui, era Genny che si era buttato all’indietro e gli stava tutto appiccicato addosso.
Dio, sarebbe diventato invisibile. Forse avrebbe dovuto invitare qualche malato terminale al bar, l’avrebbe guarito di sicuro.
Mentre i tre amici parlottavano tra loro, si concentrò su Edoardo. Si immaginò di raccontargli cos’era successo, che era mancata una sedia, che aveva deciso di aspettare i suoi amici sulle sue ginocchia.
Si immaginò Edoardo che gli chiedeva: E tu che hai fatto?
Si immaginò di rispondere: Niente, che avrei dovuto fare?
Si immaginò Edoardo alzare gli occhi al cielo e dire: Sei proprio un coglione.
Le braccia gli prudevano da quanto voleva muoverle e afferrarlo, stringerlo, come una coppia vera. Ma se farlo l’avesse messo in imbarazzo? Se si fosse alzato e fosse andato a cercare una sedia? No, non avrebbe potuto muovere un muscolo, e se fosse stato un po’ fortunato i camerieri si sarebbero dimenticati di loro e Gennaro sarebbe stato costretto a restare dov’era tutta la sera.
Fa’ qualcosa, cretino! Gridò Edoardo nella sua testa, e lui non riuscì più a trattenersi. Con uno sforzo simile a quello che ci sarebbe voluto se le sue braccia fossero pesate una tonnellata, le sollevò e gliele strinse intorno ai fianchi.
Trattenne il respiro nell’attesa di una sua reazione, ma Gennaro non sembrò né turbato né infastidito. Anzi, portò le mani sulle sue e iniziò a giocherellare con le sue dita in modo distratto.
Lorenzo ingoiò una bestemmia che forse era troppo, sentì le punte delle dita fremere ma riuscì a ricacciare indietro quell’agitazione che era arrivato quasi a sputare fuori facendo saltare in aria qualcosa – o qualcuno.
Prossimo passo: gli appoggi il mento sulla spalla, suggerì Edoardo.
Tu sei tutto matto! Rispose lui.
Ah, io sarei quello matto? Non ci sono neanche, qua dentro, stai pensando da solo tutto il tempo!
Edoardo riusciva ad avere ragione anche quando non era davvero lui a parlare. Che fastidio.
Eppure dovette ammettere a sé stesso che, se fosse davvero riuscito a poggiargli il mento sulla spalla, sarebbe stata di sicuro una figata. Magari avrebbe potuto premergli le labbra sul collo, come Gennaro aveva fatto a lui quando si erano abbracciati quella notte dopo la festa.
Voleva farlo. Voleva riempirsi i polmoni del suo profumo, voleva che restasse per sempre sulle sue gambe, che si spostasse appena più indietro per strusciarsi un po’, voleva…
Non esagerare! Lo sgridò Edoardo, un po’ ipocrita dato che gli aveva messo lui quell’immagine in testa. Comunque era troppo tardi, pensarci l’aveva eccitato, e Gennaro era seduto sulle sue gambe, se ne sarebbe accorto.
Cercò di pensare ad altro ma non ci riuscì. Aveva la pelle morbida del suo collo a portata di labbra, il suo peso sulle gambe, e tutto quello che voleva era continuare a toccarlo, continuare a essere toccato.
L’aveva tanto duro che gli faceva male, e come faceva Gennaro a non essersene accorto? Però sembrava impassibile, continuava a torturargli le mani e a parlare come se non gli importasse, come se neanche sapesse di trovarsi sopra una bomba pronta a esplodere.
Avrebbe dovuto pensare a sua nonna. A sua nonna che gli dava le raccomandazioni per partire. A sua nonna che gli dava le raccomandazioni per partire nuda, la cosa meno eccitante del mondo.
Gennaro si mosse su di lui, creando attrito, e Lorenzo ingoiò un verso di frustrazione e piacere a quel gesto.
E grazie al cielo che “ce l’ho tanto duro che tra un po’ mi metto a urlare” non era un’emozione abbastanza evoluta da scatenare qualche incantesimo, altrimenti quello sì che sarebbe stato imbarazzante.
«Lore?»
“Lore” era diverso da “Colo”. Sentirsi chiamare così fu tanto strano che lo distrasse per un attimo.
«Mh?»
«Tutto a posto?»
Si schiarì la voce per riuscire ad articolare parola. «Sì, perché?»
«Niente, non hai più parlato.»
«Sto bene.»
«Forse gli pesi, poverino» intervenne Teresa. «Chiamiamo un cameriere, ci porta almeno una sedia.»
«Hai ragione» rispose Gennaro, Lorenzo lo sentì tendersi pronto ad alzarsi.
In tutta risposta gli strinse le mani in una morsa e tenne le braccia ferme intorno a lui, per impedirgli di allontanarsi. «Sto comodo.»
«Sicuro?»
Per rispondere si sporse in avanti, e gli appoggiò il mento sulla curva tra il collo e la spalla. Lo strinse più forte tra le braccia e lo sentì aggiustarsi soddisfatto. «Sicuro» gli sussurrò all’orecchio.
Quanto lo voleva, cazzo, cazzo, Genny se ne sarebbe accorto per forza. Voleva mangiarselo, cazzo. Aveva già detto “cazzo”?
Notò che Giuseppe li stava guardando, come impensierito. Forse aveva capito. Forse gli avrebbe detto qualcosa, qualcosa tipo “quel tuo amico ci prova, per caso?”, forse Gennaro avrebbe iniziato a farci caso e si sarebbe allontanato da lui. Forse quel gesto aveva appena rovinato tutto.
Non riuscì a pentirsene. Poteva davvero sentire il suo profumo, e la sua pelle era bollente, e avrebbe voluto che il resto del mondo sparisse per passargli le mani sulle gambe e sentirlo tremare al suo tocco, per succhiargli la gola sino a lasciare un segno rosso.
Okay, se Gennaro non si era accorto di quello che stava accadendo tra le sue gambe neanche in quel momento la situazione era grave parecchio. Eppure, se anche se n’era accorto, non si scostò con una smorfia disgustata. Anzi, si strofinò ancora e diede una stretta forte alle sue mani, facendo partire una scarica elettrica che costrinse Lorenzo a mordersi la lingua per non emettere suono.
La cameriera arrivò e prese l’ordinazione. Genny non disse nulla su nessuna sedia, ma un attimo prima che se ne andasse fu Teresa a farlo per lui. Lorenzo avrebbe voluto strozzarla.
I posti liberi apparvero, e le scuse per restare avvinghiati finirono. Il ragazzo si alzò e si accomodò sulla sedia accanto alla sua, Lorenzo si schiarì la voce, a disagio. Si avvicinò al tavolo perché coprisse ogni segno evidente tra le gambe.
Arrivarono anche gli altri due, Mauro e Fabrizio. Fabrizio era simpatico, gli ricordava un poco Edoardo. Certo, Edoardo era più divertente, più bello e di sicuro anche più brillante, però Fabrizio non era male.
Lorenzo scoprì presto che non avevano scelto quel bar a caso. Lo avevano scelto perché non chiedeva i documenti ai ragazzini che ordinavano alcolici, così si ritrovò davanti due bicchierini da shot pieni all’orlo.
«Cosa mi hai preso?» domandò, Gennaro aveva ordinato per lui perché da solo non avrebbe saputo cosa prendere.
«Un chupito!» annunciò lui, con un sorriso entusiasta che gli illuminò lo sguardo. «Devi prima buttare giù il rum, e poi il succo alla pera per pulirti la bocca.»
«In un sorso?»
«Certo! Si chiama shot apposta. Ne ho uno anch’io, vedi?»
«Okay» rispose, deciso. Si preparò ad afferrare il bicchierino, ma Gennaro lo fermò.
«Aspetta! Mando una foto a Edo e Chiara, prima!»
Tirò fuori il cellulare e inquadrò i quattro bicchierini sul tavolo. Lorenzo infilò la mano nell’inquadratura all’ultimo, mostrando il dito medio.
«Questo era per Marchesi!»
«Sei sempre il solito. Si può sapere perché ti sta antipatica?»
«Non mi sta antipatica. Solo che Edoardo mi fa sempre la testa a pallone con lei, mi annoia» protestò. La vocina dell’amico nella sua testa gli diede del bastardo ipocrita che non faceva altro che parlare della sua stupida cotta non corrisposta dalla quarta ginnasio. «E poi ha delle brutte amicizie.»
«Rebecca?! Ancora questa storia?»
«Quella tipa non mi piace.»
«A te non piace mai nessuna che ti presento.»
«Forse hai un cattivo gusto in fatto di donne.»
«Forse ti piace rompere il cazzo.»
«Forse sì» sbuffò, e distolse lo sguardo per puntarlo sul chupito che lo aspettava. «Forse son nato con la rottura di cazzo incorporata, per questo non sono mai contento.»
«Ehi» la voce di Gennaro si era addolcita. «Ora Rebecca non c’è. Non sei contento neanche adesso?»
Lui si strinse nelle spalle. «Siamo in vacanza. Certo che sono contento.»
Il ragazzo accennò un sorriso. «Io sono contento che sei con me.»
«Confermo» commentò Fabrizio, con un tono da sborone che lo irritò. «Da quando ha scoperto che non sarebbe sceso da solo non è stato zitto un attimo. E Lorenzo qui, e Lorenzo lì, e ve lo devo proprio presentare, e vi piacerà, e dovreste vederlo giocare a calcio…»
«Non ho fatto così!» esclamò Gennaro, che aveva arricciato le labbra in una smorfia adorabile. «Stanno esagerando, non ascoltarli.»
«Chi è Rebecca?» intervenne Teresa, forse per salvarlo.
Lui sbuffò. «Rebecca è la mia ex dell’anno scorso.»
«Ohhh, e ti piace ancora?»
Fu Lorenzo a rispondere. «No che non gli piace.»
Gennaro lo appoggiò. «Storia vecchia. Ho altro a cui pensare.»
«Altro o un’altra?» ghignò la ragazza.
Lorenzo si voltò di nuovo a guardarlo. Genny non gli aveva parlato di nessun’altra cotta, di recente. Non poteva piacergli qualcun’altra, giusto? Lui l’avrebbe saputo. Quando gli piaceva qualcuna glielo diceva sempre. Erano amici, a questo servivano gli amici.
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere» tagliò corto lui, e per mettere fine alla discussione butto giù il suo shot senza aggiungere altro.
Lorenzo, che preferiva non arrovellarsi troppo su quella risposta, lo imitò.
Il sapore forte dell’alcol gli bruciò la gola e poi lo stomaco. Sperò che l’effetto gli salisse in fretta, voleva smettere di torturarsi, smettere di rosicare, voleva solo sciogliersi un pochino, fare amicizia e godersi una serata col suo amico e i suoi vecchi compagni di classe, nient’altro.
Quando uscirono da quel bar era brillo, incasinato, e malfermo sulle gambe. Gennaro rideva, e quando Gennaro rideva il mondo era sempre bellissimo.
«Buona notte a tutti!» esclamò allora lui, quando le risate si furono calmate ed ebbe dato a Teresa due baci sulle guance. «Noi ce la filiamo!»
«Ciao, Genny! Buona notte!»
Lorenzo vide Teresa e Giuseppe che si prendevano per mano di nuovo, e gli sembrò tanto ingiusto che passò un braccio attorno alle spalle di Gennaro, tirandolo a sé. Lui si appoggiò di buon grado, assecondando il suo bisogno di tenerlo vicino.
«Allora, ti sei divertito?»
«Sì» rispose, e la sua mente aggiunse: ti voglio.
«Sicuro che non ti ho dato fastidio, prima? Seduto su di te e tutto il resto?»
«Fastidio? A me?! Ma se peserai quindici chili bagnato!»
«Gli altri ti sono piaciuti?»
«Sono tipi a posto» rispose, stringendosi nelle spalle. Poi, perché parlare con l’alcol era più facile, gli chiese: «Davvero pensi che sono bravo a calcio?»
Aveva bisogno di accendersi una sigaretta, ma per farlo avrebbe dovuto lasciare la presa sulle sue spalle e non ne aveva nessuna intenzione.
«Io non penso niente» disse, «io lo so. Ti ho visto giocare un sacco di volte, so come sei in campo»
Deglutì. «Edo è più bravo di me, però.»
«Non è vero. Perché lo pensi?»
«Intanto è il capitano…»
«Che c’entra? Il capitano non è mica per forza il più bravo in campo.»
«Poi segna più di me…»
«Perché tu gli fai gli assist migliori mentre lui a te non ne fa mai!»
«E comunque gioca da più tempo…»
«Questo è un punto a tuo favore, non il contrario.»
«Sarà, a me sembri un po’ fazioso.»
«Io sono sempre di parte, quando si tratta di te.»
Perché doveva sempre essere così carino con lui? Non capiva che così continuava a torturarlo? Non capiva che rendeva solo le cose più difficili? Non capiva che di illudersi non se lo poteva permettere?
«Non fare così» borbottò, lo sguardo fisso sulle luminarie appese in strada.
«Così come?»
«Così» ripeté, perché era brillo, e stanco, e camminava stretto a lui, ed era troppo tempo che teneva tutto dentro. «Sei… gentile con me.»
«Dovrei fare lo stronzo?»
Lorenzo sbuffò. «Non capiresti.»
«Prova a spiegare.»
«Meglio di no.»
«Come vuoi.»
Calò il silenzio. Camminarono a passo malfermo sino a casa, senza che nessuno dei due avesse cuore o voglia di sciogliersi da quell’abbraccio.
Quando furono davanti alla porta del palazzo, Gennaro si fermò. Si frugò in tasca e tirò fuori le chiavi, Lorenzo lo liberò.
Lo vide infilare le chiavi nella toppa e poi esitare, voltarsi verso di lui e puntare gli occhi scuri nei suoi. Si avvicinò di un passo e gli si parò davanti. «Come sto?»
Sei perfetto. E ti voglio. «Come sempre.»
«Si vede che sono sbronzo?»
Anche Lorenzo fece un passo in avanti, si avvicinò troppo e finì per farlo arretrare contro il muro del palazzo. «Non si vede che sei sbronzo.»
«Con te si vede.»
«Perché?»
Gennaro gli passò le mani intorno ai fianchi e se lo tirò addosso. Lorenzo appoggiò le mani al muro per non cadere, bloccandogli la strada e schiacciandolo sulla parete.
«Hai meno paura del solito.»
«Paura? Perché dovrei avere paura?»
«Non dovresti mai, ma in genere ce l’hai.»
«Non capisco.»
Il ragazzo sorrise. Mosse appena le dita, massaggiandogli i fianchi. Lorenzo avvicinò il volto sinché non gli arrivò il calore del suo respiro sulle labbra. «Questo è evidente» soffiò, gli occhi scuri che brillavano alla luce dei lampioni della strada. «Ti servono i cartelli stradali, mi sa. I segnali di fumo. Le indicazioni luminose. Il manuale di istruzioni. Devo continuare?»
Edoardo iniziò a scampanellare con furia nella sua testa. Bacialo, bacialo, bacialo. Per una volta nella tua vita, una sola, abbi un po’ di fegato e bacialo. Smettila di fare il coglione e prenditi quello che ti meriti, porca di quella–
Per zittirlo, fu costretto a fare un salto indietro. «Scusa. Non credo di stare tanto bene. Io... forse ho bevuto troppo.»
Gennaro si sgonfiò in un sospiro. «Hai la nausea?»
«Un po’.»
«Ora dormiamo, domani sarai come nuovo» gli disse. Le sue labbra sorridevano ancora, ma gli occhi no. «Promesso.»
Note autrice
Entrare nella testa di Lorenzo significa sentire i suoi sproloqui su Gennaro tutto il giorno, tutti i giorni. Ha una fissa seria, di quelle potenti, lol. Povero Edoardo che se lo sorbisce in quelle condizioni da tre anni...
Parlando di Edoardo, sarà presente in questa prima parte di storia sia attraverso il cellulare che nella testa di Lorenzo, come avete visto. Vi piace come escamotage? A me fa un po’ ridere che si immagini l’amico dargli consigli e ci litighi pure, lo trovo carino.
Comunque sia, ci aggiorniamo prossimamente! Nella prossima puntata, sul finire, ci ricorderemo che questo è un Urban Fantasy e vedremo anche un po’ di magia... tenetevi la curiosità per questo sabato ~
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