Atelophobia.

Zayn Malik era questo, era tutto questo.

Lui era un sospiro che si infrangeva negli angoli della casa, era un sussurro con voce spezzata, era un urlo con le lacrime agli occhi, lui era la pioggia in una calda giornata d'estate, lui era il contrario della visione che avevano le persone, lui era l'Autofobia:  si tratta di una senso anormale e persistente di solitudine, di essere da solo. Ma lui non era solo, lui aveva me, e non ho fatto in tempo a farglielo capire.

Era entrato da quella porta scorrevole con un gruppo di amici, sorrideva beffardo osservando l'unico biondo del gruppocon il volto divertito e una mano poggiata nella tasca davanti dei suoi jeans a cavallo basso neri. Il suo profumo Light Blue della "Dolce e Gabbana" entrava nelle mie narici, mentre il suo sguardo penetrava cosi a fondo nel mio che socchiusi le palpebre, preoccupata che potesse leggere davvero ciò che stessi pensando. Si era avvicinato al bancone portandosi una sigaretta alla bocca, gli altri quattro ragazzi osservavano con attenzione i disegni che coloravano i muri bianchi ,mentre il suo sguardo era interessato più al colore dei miei occhi che alle sfumature che lo circondavano.

"Vorrei farmi questo tatuaggio".

Sorrise, incastrando la lingua tra i suoi denti perfetti e bianchi, troppo bianchi per chi ispira nicotina. Mi indicò un piccolo ed innocente disegno che era posto in bella mostra proprio sulla prima pagina del mio giornaletto. Feci un cenno positivo col capo e lo invitai a sedersi sulla poltrona, nei suoi occhi leggevo la ribellione e la paura per quello sarebbe stato il suo primo segno indelebile, la sua prima avventura, il suo primo marchio.

Morivo dalla voglia di chiedergli cosa significava per lui quel piccolo yin yang con "sfumatura nera e blu", colori un pò insoliti, emozioni un pò insolite, ma non lo feci: a volte un tatuaggio è semplice follia o una semplice dichiarazione, dipende dai punti di vista, dipende dalla vita a cui si è soggetti. Un sorrisetto si dipinse sul mio volto quando notai che stava cercando di decifrare la scritta tatuata poco più sotto al mio ombelico, mi fermai un attimo scrutando il suo sguardo e mi alzai quel poco della maglia dei Nirvana che serviva per fargli leggere la mia parola, la mia paura.

"Atelophobia" sussurrò.

Gli rivolsi un sorriso debole, docile, come quello di un cagnolino alla prima carezza e  poi continuai; Forse avevo fatto bene a non chiedere, perché a volte non si vuol essere domandati, a volte spiegare il significato dei propri tatuaggi è come spiegare una parte della propria vita impossibile dimenticare. Ed infatti, per me era cosi. Da piccola ripetevo più volte il nome di una cosa sperando che me la scordassi, ma con le mie paure non accadeva, avevo imparato a conviverci. Anche se però convivere, è una parola grossa. Le paure erano parte di me: erano in ogni mio gesto, sospiro, disegno o brivido, ero una paura, un incessante tormento.

Il moro dopo che ebbi finito incrociò i suoi grandi occhi caramello con i miei, piccoli e azzurri, e mi rivolse un sorrisetto suadente, era stato il tatuaggio più straziante che avessi mai fatto. Fare un tatuaggio è come farlo per la prima volta, non sei completamente pronto, mai, a qualsiasi età, è una scritta che ti resta in ergastolo sulla pelle, una scritta che anche sotto la doccia, quando le goccioline d'acqua porteranno via il rancore, rimarrà li.

Lui subito dopo era andato via, non lo avevo più rivisto. Non conoscevo il suo nome, non sapevo niente della sua vita. Ogni giorno era sempre più deprimente, vedevo ragazzi accomodarsi su quella poltrona in pelle e sorridermi, ma nessun sorriso era bello quanto il suo, nessuno era lui. Facevo una vita monotona, non andavo più a scuola, mi ero trasferita in uno dei quartieri più malfamati di Bradford solo perché non avevo abbastanza soldi per pagarmi una vera casa. Mia madre soffriva di Alzheimer, non ricordava neanche della morte di mio padre e di aver concepito subito dopo tre mesi due gemelli, io e mio fratello Jamie.

Jamie.

Lacrime scendevano lungo le mie guance, e si infrangevano su quella pagina di diario, a quel ricordo, era passato un anno ed io continuavo a vivere nella perenne attesa. Un attesa che mi consumava mentalmente e fisicamente, nel giro di dodici mesi avevo perso le persone a me più care, vivevo sola, ed il dolore mi stava logorando viva. Diedi uno sguardo alla porta e il ritmo delle mie lacrime accelerò, quanto avrei voluto che fosse entrato da quella porta dopo un attesa infernale, come fece tre anni fa, portandosi via ogni preoccupazione.

Quella mattina il campanello catturò la mia attenzione, sbuffai quando chiusi il libro che stavo rileggendo per la quarta volta e diedi uno sguardo alla porta.Il mio cuore accelerò i battiti, sembrava mi stesse per uscire dal petto. 

Era Lui.

Aveva il ciuffo all'insù, tinto leggermente di biondo, sorrideva come il primo giorno che lo vidi ma questa volta con più sicurezza, più sfacciataggine. La sua pelle ambrata era avvolta in un opera d'arte: tatuaggi sparsi per tutto il braccio, accavallati, colorati e significativi. Tutti ruotavano intorno a se stessi e poi lo notai, sul braccio opposto, il disegnino che sette mesi fa ci aveva fatti conoscere, che lo aveva e mi aveva marchiato.

Si avvicinò al bancone, passandosi una mano tra i capelli: era sempre lui, la stessa linguetta tra i denti, lo stesso pacchetto di sigarette che sbucava dal taschino della camicia, e lo stesso profumo che mi aveva avvolto tempo fa. Non conoscevo niente di lui, se non quel poco che i dettagli del suo essere permettevano, ma lo sentivo cosi vicino, cosi costante, come un silenzio che fa troppo rumore.

"Allora, cosa vorresti farti?" gli chiesi, leggermente più vispa e imbarazzata della scorsa volta.

Mi scrutò attentamente, forse per vedere se ero cambiata o se avevo un nuovo tatuaggio mordicchiandosi il labbro inferiore. Nessuno fiatava, i nostri respiri si erano momentaneamente bloccati e nell'ara si sentiva solo il ticchettio dell'orologio. Si voltò verso la porta pronto ad andarsene, con quell'aria un pò seccata di chi sembra aver perso solo tempo. Liberai il mio stomaco da quel macigno e picchiettai le dita sul bancone, frustata, delusa, speranzosa che quella non fosse solo un'allucinazione.

"L'ultima volta non ci siamo presentati, io sono Zayn Malik". Disse senza neanche voltarsi, senza chiedermi quale fosse il mio nome, senza notare l'effetto che mi aveva fatto la sua voce. Ma mi sembrò giusto cosi, lui era Zayn.

Zayn Malik.

Da quel giorno era venuto sempre nel mio negozio, entrava senza dire buongiorno, si sedeva e aspettava che io mi presentassi. Non capivo a quale gioco stessimo giocando: due estranei che passano ore a guardarsi negli occhi senza proferir parola. Avrei solo voluto chiedergli cosa facesse nella vita, ma non potevo iniziare un discorso cosi, senza neanche dirgli chi fossi, cosi stavo zitta e lui stava zitto. Ma entrambi ridevamo. 

Un giorno, dopo circa un mese di visite continue, era venuto nel tardo pomeriggio, stranamente, e mi aveva rivolto la parola. Mi aveva chiesto un nuovo tatuaggio, e solo in quel momento mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato il suono della sua voce cosi rauca.

Lo avevo fatto accomodare sulla poltrona ed avevo preso l'occorrente, questa volta aveva detto che dovevo dare libero sfogo alla mia fantasia, cosi presi il colore nero, l'ago e mi misi all'opera.  Mi sentii leggermente in imbarazzo quando gli chiesi di togliersi la maglietta, quando vidi i suoi addominali e quasi mi sentii in colpa a macchiare quella pelle cosi bella, cosi pulita. Lui mi sorrise, e posò la sua mano sulla mia, mi guardò negli occhi e mi chiese di procedere, con quell'aria sconcertata di chi ha capito le mie intenzioni ma non vuole rimangiarsi la parola.

Ci avevo messo circa dieci minuti a scegliere il posto, a scegliere che fare, a scegliere le parole giuste da usare per poterglielo spiegare. Alla fine avevo scelto la scapola, un posto duro e forte come quello che stavo disegnando: il contorno di un piccolo luogo geografico, ed un piccola parola, tanto piccola quanto bella da leggere, bella da pronunciare, ma difficile da capire.

Alaska.

Sorrisi ricordando la sua espressione quando aveva saputo il mio nome, come si dice? Ah si, "un bambino dopo aver scoperto il suo regalo di Natale." Mi aveva sorriso e poi ci eravamo abbracciati, per la prima volta avevo notato la differenza d'altezza, la differenza tra ciò che vivi e ciò che sogni e la differenza tra ciò che provi e ciò che fai. Ed io lo sapevo in quel momento che qualcosa stava per cambiare, che lui non sarebbe stato più uno sconosciuto e io una senza nome, ma volevo che tutto ciò andasse cosi.

Era passato circa un anno da quando io e Zayn ci eravamo conosciuti.Ogni giorno veniva al negozio e con una scusa cercava di sapere più cose possibili su di me: frugando tra la galleria del mio cellulare, tra i miei sogni nel cassetto, leggendo tutto ciò che tenevo sottolineato nel mio libro preferito. Era diventata una gara a chi scopriva più difetti, o meglio dire, a chi si innamorava prima, ed io avevo ufficialmente perso.

Un pomeriggio, mentre lui era seduto con il suo I phone tra le mani avevo ricevuto una chiamata: un urlo soffocato e atroce uscì dalle mie labbra e senti le ossa del mio corpo spezzarsi.

Jamie era morto in un incidente stradale.

Zayn mi era stato accanto durante tutta la cerimonia, durante tutta la settimana, durante tutte le crisi isteriche di mia madre che voleva ricordare e durante tutte le volte in cui io volevo dimenticare. Ogni sera arrivava con la sua Range Rover nera e si addormentava accanto a me, su quel cuscino bagnato da tante lacrime e da tanti rancori, senza mai un gesto fuori posto, senza mai toccarmi più del dovuto, senza mai usare il mio dolore per uno scopo personale. Un dolore che mi accompagnava ogni notte e che lui era sempre, prontamente, lì per mandarlo via.

Una sera era entrato dalla finestra, forse avendo capito il trucco che usavo fingendo di stare bene ogni volta che gli aprivo la porta, e per la prima volta mi aveva vista scomposta. Con le mie piccole gambe scoperte che scendevano dai bordi del letto e il mio corpo minuto avvolto nel maglione preferito di Jamie, dove ancora si poteva sentire la sua fragranza ed il suo sogno di avere una borsa di studio per giocare in un prestigioso Collage di Londra.

"Crolliamo insieme".

Mi aveva sussurrato prima di poggiare le sue labbra sulle mie e baciarmi. Quel bacio non fu certo lungo come quelli che si vedono nei film, non fu sotto la torre Eiffel, ma fu comunque meraviglioso. Uno di quei momenti che ti lascia i capelli rovinati, le labbra rossastre e il cuore scombussolato. Fu una piccola pace inattesa durante la guerra che stavo vivendo.

"Morivo dalla voglia di dare un pò di colore alla tua pelle pallida"

Aveva detto prima di lasciare un violaceo succhiotto. Quella notte avevamo fatto l'amore e per un momento mi ero sentita viva: sorridevo beffarda ad un mondo che non mi avrebbe mai avuta come Zayn. Era stata la nostra prima volta, un unico respiro che implorava di continuare. 

Avvolti tra le lenzuola che coprivano i nostri corpi sudati e privi di vestiti, gli avevo raccontato le mie paure, e lui mi aveva detto che se pur bene non avesse dolori emotivi, soffriva di una paura che non lo lasciava vivere, che lo consumava dentro. Ed io mi ero sentita così egoista in quel momento, cosi infelice al pensiero di averlo costretto a vivere tra i miei scheletri senza dargli tempo di liberarsi dei suoi. 

Per un breve periodo era riuscito a far rinascere quel leone chiuso dentro di me, una sera, proprio sulla poltrona del mio negozio aveva sussurrato di amarmi. Aveva preso l'ago, con quella goffaggine che avevo usato io la prima volta, mi aveva tolto, senza chiederlo, la maglietta e mi aveva sussurrato "Adesso siamo pari". Mi sono rivista al nostro primo incontro, con gli stessi occhi e lo stesso desiderio. Zayn sapeva essere cosi bello e maestoso senza il minimo sforzo, era avvolto da una luce che quasi camuffava il dolore che lui diceva di provare, camuffava ogni ferita, ogni ricucita.

Quella notte aveva ripetuto più volte di amarmi mentre con accuratezza lasciava una piccola linea rossa sul quel nome messo in bella mostra sul mio corpo. Aveva coperto la mia paura, proprio come si fa con gli errori, con i ricordi.

Erano passati 4 mesi da quel giorno ed io lo avevo visto sempre di meno, sempre più cupo, sempre di sfuggita. Finché una sera mi è arrivata una telefonata da sua madre, dove mi diceva, con la voce rotta dai singhiozzi, che Zayn si era tolto la vita. Non era stato ucciso, si era suicidato. E io con il cuore a pezzi aveva capito il motivo, avevo capito che non riusciva più a vivere quella convivenza, che era riuscito ad alleviare il mio dolore, a far scomparire le mie paure, mettendo in secondo piano le sue. 

La madre, prima di riattaccare, mi aveva pregato di non odiarlo ed io avevo annuito, consapevole che non mi avrebbe sentito, ma che sicuramente mi avrebbe capito. Non l'ho odiato, l'ho amato ancora di più e guardando verso l'alto avevo sussurrato un piccolo "Grazie Zayn".

Grazie perché con quell'aria da ragazzetto sei venuto e hai creato una rivoluzione: hai distrutto tutto ciò che c'era di sbagliato nella mia vita e mi hai fatto conoscere l'amore, qualcosa per cui vale la pena lottare.Grazie e scusa se non ho saputo aiutarti come tu hai fatto con me, ma io quegli occhi vispi non li scordo mica e allora di dico solo "Abbi cura di splendere" che i tatuaggi li farò io per te, che la partita la vedrò io al tuo posto e ti manderò un messaggio per farti sapere, che il tuo cellulare sempre scarico lo caricherò, che al capo di quell'azienda glielo dirò io che non puoi più andarci. Penso a tutto io, tu solo, vivi bene.

Non sopportavo più ricordare, cosi chiusi il diario e mi adagiai nuovamente sul letto. Dopo la morte di Zayn, tutto era cambiato: la sua squadra del cuore aveva perso, il negozio in cui compravamo la birra aveva chiuso, ma io avevo fatto in tempo a scrivere tutto su questo piccolo quadernino. Il tempismo non era mai stato il mio forte, ma per una volta mi sono adattata: ho scritto tutto, ogni gesto, ogni carezza, prima che l'Alzheimer me lo portasse via.

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