La Strega Di Zanzibar
Era immersa nel vuoto immobile della sua mente. Seduta sulla tavola della cucina, con la testa china e quasi riversa sul piatto bianco e pesante di ceramica spessa che, dolente, le premeva contro l'osso più basso dello sterno. Confusa, non riusciva a riemergere da quel silenzio apparentemente sepolcrale. La vista le si era offuscata, quasi le pupille fossero, lì per lì, sul punto di spegnersi, avvolte da una strana ed impercettibile pellicola rossa e bianca. Non vedeva e non udiva più nulla. I pochi rumori ovattati che le aleggiavano attorno non avevano, ancora per il momento, la forza di scalfire la barriera di quel suo personale isolamento post-traumatico da stress. Persino i cinguettii intermittenti di due canarini in gabbia, assetati ed affamati, che da ore erano rimasti dimenticati nelle tenebre del corridoio d'entrata, le parevano uno strano graffiare metallico e indistinto di piccole punte di coltelli affilati che picchiettavano, con rabbia cadenzata, contro una fragile e sottile lastra di vetro.
Di tutti e cinque i sensi di cui disponeva, solo il tatto non l'avrebbe tradita, e ad esso avrebbe dovuto aggrapparsi per uscire definitivamente dalle grotte labirintiche e nebulose dell'incoscienza in cui si trovava. L'asprezza ruvida della tovaglia, sotto gli avambracci glabri, cominciava a infastidirla, penetrandole gentilmente le spalle di brividi formicolanti. Fremiti e tremolii che, in una repentina scossa elettrica di ricordi violenti e sanguinosi, la riportarono in men che non si dica all'eccitazione del momento presente, alla folle e sanguinolenta rifrangenza di se stessa. E ora poteva vedere. Sì, poteva osservare e percepire l'intera stanza, come nel ventre di un'opera d'arte partorita dai demoni più efferati della mente, quelli che per tutta la notte le avevano sussurrato strane idee dal di dentro. Idee tramutate in una raccapricciante ma concreta realtà. La diapositiva oscura di sé stessa la rimirava curiosa dallo specchio evanescente di un televisore spento e coperto di spruzzi di sangue. Schizzi rossi e gocciolanti che le coprivano il viso, raggrumati ma ancora non del tutto secchi. Gocce di rubino umidiccio che si mimetizzavano in una riccia criniera color dell'ebano. Lacrime ondulate che le tagliavano le guance sorridenti di sadico piacere mentre si apprestava gioiosa a proseguire, con pregiate forchette d'argento inzaccherate anch'esse di emoglobina rappresa, quell'interminabile pasto cominciato senza indugio alcuno la sera prima.
Non c'erano dubbi: il fegato di un uomo sano è davvero una pietanza che solo i palati più delicati possono comprendere. Per prima cosa lo si deve saper cucinare bene: fiamma di cottura media, qualche grano di pepe verde, uno spruzzo di vino rosso e un soffio leggero di farina. «Non ho mai mangiato niente di simile in vita mia. È divino! Non sei d'accordo, Popo Bawa?» sbottò sarcasticamente rivolgendosi al grosso serpente dormiente che custodiva nella teca vicino alla finestra. Quelle spire bianche e nere sembravano capirla, mentre sinuose e stritolanti avvolgevano il torso, mutilato e tarlato dai morsi, del suo primo e vero amore, per nascondersi al riparo di una tana di costole e carne macilenta. Ricordava, in tutto il suo grottesco splendore, il busto decapitato e senza braccia di un manichino da boutique d'alta moda ormai in disuso, lasciato lì a consumarsi con una testa di rettile per cuore e, come ultimo lascito della vittima, una mano amputata con fede nuziale. Proprio quell'anello, ci rimuginava ancora, l'aveva incuriosita. Chissà come si chiamava quella povera demente che aveva avuto la sfortuna di portare all'altare un tale schifoso pezzo di merda vanitoso ed egoista, capace forse di amare nessun'altro che se stesso? Qualcosa la tentava nel rimuoverlo per leggerne l'incisione, ma si trattene. Pensava che a quel punto saperlo non avrebbe più avuto alcun senso. O forse era lei stessa, per prima, a non volerlo sapere; e comunque, chiunque fosse stata la novella vedova, era certa di averle fatto un grande favore massacrandole il marito. «Dentro ogni donna» ripeté a se stessa, dopo essersi pulita la bocca con un colorato tovagliolo di stoffa, «c'è una strega che balla nuda al focolare del diavolo, in macabra danza caleidoscopica, con le spoglie dell'uomo che non ha saputo amarla, con la carcassa del maschio che non ha voluto averla».
Ma Lui, e questa era la domanda chiave, l'aveva amata? Quali sentimenti aveva provato per Lei? Importava ancora conoscere questo frivolo dettaglio, adesso, dopo averlo fatto a pezzi con mille colpi d'accetta cospargendo l'intera casa col suo sangue fresco e denso? Eppure non riusciva a strapparsi dalle cervella quella domanda. Continuava a sentirla rimbombare sorda nel cranio per poi correre piano piano verso il petto, come un principio di ictus intento ad alterarle i battiti del cuore. No, alla fine era meglio non sapere. Credere per seppellire, ignorare per il bene dei giorni futuri.
Si alzò in piedi per avvicinarsi al banco della cucina e afferrò a presa stretta, da una scatola portavivande in plastica da quattro soldi, un grosso ratto lercio e peloso che aveva trovato rovistando nella spazzatura del condominio. Lo tenne a mezzaria per qualche istante cercando di evitare che quell'aggroviglio indomito di pelo, con la pancia ancora piena e calda di chissà quale tipo di avanzi, cercasse di liberarsi dalle sue dita giovani e affusolate per morderla. Lo guardò fisso negli occhi piccoli e luminosi, e per un momento lo confuse con Lui. Spalancò quindi l'apertura del microonde e ce lo accomodò dentro chiudendo di scatto la porticina. Senza alcun indugio o ritrosia morale, girò la manovella e impostò la temperatura massima. Non le rimaneva altro che gustarsi impassibile la visione di quel piccolo mammifero squittente e incosciente mentre si trasformava in una fumante poltiglia malforme e odorosa di morte. Con le lunghe unghie, appuntite e dipinte di smalto corvino, ne raccolse le frattaglie. Le esaminò, spappolandone la molle carne, e le fece scivolare gelatinose in un calderone bollente di sangue umano dove, già da lunghe ore, infusioni di piante officinali, mistiche e velenose, si congiungevano disgustosamente al fetore delle ossa di qualche nero felino sventurato. Alzò di poco il fuoco miscelando il tutto con un pesante mescolo d'acciaio. Un mescolo antico e di buona fattura che, nell'atto del suo uso, sbatteva tintinnando, di tanto in tanto, contro il cranio scarno di un giovane cervo selvatico. Un effluvio acre di stregoneria e di putrefazione cominciò a montare, impregnando le pareti della stanza, richiamando a sé famiglie di mosche da ogni fessura d'aria.
Mancava davvero poco tempo, e Lei, l'antitesi di ogni figura mariana, doveva prepararsi a siglare definitivamente, con quel sacrificio finale, il suo patto con l'ombra oscura che in silenzio l'aveva guidata, e che ancora su di lei vegliava dalla porta più importante di tutta la casa. Non si trattava di una porta come le altre, fatta di legno, ma di un particolare disegno in gesso bianco tracciato meticolosamente sul muro del salotto e che sezionava, in tanti strani triangoli e pentagoni, i decori raffinati di una vetusta e variopinta carta da parati in stile fin de siècle. I pochi mobili, accantonati via alla rinfusa, quasi non si notavano. Anzi, impallidivano alle infinitesimali punte luminose di candela che, come una incomprensibile costellazione rettilinea tracciavano sul pavimento il sentiero di passaggio. E Lei era lì, pronta a mostrarsi, nuda e tremante, al demone pipistrello. A Popo Bawa, lo spirito maligno dell'isola di Zanzibar. All'efferato signore delle serpi, il violento incantatore che, sibilando dalle profonde tenebre, la scrutava avanzare verso di sé.
Avvolta nelle spire del suo stesso serpente, si apprestava ad offrire, con la semplicità di due mani giunte, il cuore dell'uomo che aveva sempre amato. Lui, il ragazzino che molti anni prima le aveva fatto battere forte il cuore prima di strapparglielo dal petto per pestarlo e sputarci sopra senza ragione. Lui, l'uomo ricomparso nella sua vita dopo undici anni solo per illuderla giocando con la debole profondità dei suoi indistruttibili ricordi. Ricordi di un amore perduto, il terreno più fertile di cui il tempo possa disporre per far sgorgare dagli arbusti, forti e spessi, del rancore quella bile nera che tanto presto può condurre anche la fanciulla più innocente alla stregoneria, a succhiare come una vergine corrotta il capezzolo sinistro del maligno. Popo Bawa l'avrebbe fatta trasmigrare nel suo regno di sangue e di veleno per accoglierla tra le sue regine in un universo di soprusi infiniti. In ginocchio di fronte alla sua porta, con un pugnale affilato e ben alzato, era pronta all'atto finale. Ma all'improvviso quella apparentemente silente, ma inestinguibile, paura che le covava dentro si insinuò nuovamente in Lei. Questa volta però le si gelarono le vene: «Ma Lui... mi ha mai amata?».
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