Prologo: La luna
La Dea vegliava sul mondo, attraverso lo sguardo serio della Luna.
"Desideri compagnia, bambina, o devo lasciarti a dialogare col cielo?"
La ragazza sussultò appena, mentre un fruscio d'erba calpestata s'avvicinava.
"Un dialogo richiederebbe risposte... e la Luna è muta", rispose, "vieni pure, Gwen".
Seduta su un tronco di faggio, divelto da un fortunale, Eléri fissava l'acqua scura del fiume, che a tratti s'increspava, forse rotta da uno scoglio affiorante, forse dal dorso d'un pesce in caccia o dal sinuoso nuotare d'un serpente. Lì dove s'increspava, l'acqua brillava argentea per pochi istanti, mentre l'intera superficie mormorava e gorgogliava, nel perenne fluire del Rhône.
In quell'isoletta tranquilla, Eléri apprendeva dalle compagne adulte i riti per servire la Dea, per entrare in sintonia e compenetrarsi nell'equilibrio che sorregge il mondo, e che gli uomini, tanto spesso, infrangono con la loro arroganza.
"È la Luna che tace, o forse tu non ti rivolgi a lei, ma a te stessa? A chi fai domande, giovane figlia di Eoghan?"
Eléri diede appena un sospiro, senza meravigliarsi per come l'altra leggeva il suo animo.
"Non è follia interrogare se stessi, Gwen? Come è possibile non sapere cosa sentiamo, essere estranei a noi stessi?"
La donna si sedette accanto a lei, aggiustando bene contro le gambe la gonna lunga sino alle caviglie, per riparare la pelle dagli insetti notturni, numerosi e voraci.
"Accade", commentò.
Studiò poi il viso regolare della ragazza affidata alle sue cure. Persino nella pallida luce lunare ne constatava la somiglianza con la madre, sua coraggiosa, antica compagna, uccisa in battaglia quando Eléri aveva appena cinque anni.
Gwen socchiuse gli occhi, dolente, a ricordare. Una battaglia vinta, sì, ma costata un alto prezzo di sangue; e, soprattutto, non era stata una vittoria definitiva!
Le loro tribù, alleate contro i romani, avevano conosciuto dall'inizio alterne fortune.
I figli di Roma pretendevano di portar con sé la civiltà, ma erano i nemici più arroganti che avessero conosciuto, infidi, senza parola. Avevano condotto una politica sporca, dividendo gli alleati col promettere a taluni l'immunità e saccheggiando e annientando altri. Ne era disceso che alcune genti s'erano tirate indietro, contando di salvarsi, e le forze rimanenti non erano più bastate più ad arginare le legioni.
Il loro dunon, la cittadina fortificata in collina poco distante dall'isoletta sacra, era sfuggito fortunosamente ai saccheggi, ma i genitori di Eléri, combattendo nel cuore di quel paese che i nemici chiamavano Gallia, avevano entrambi perso la vita.
"Se la luna non sa, e dentro te non trovi risposta, puoi provare a interrogare me, piccola", disse la donna tornando presente.
Eléri tolse dal braccio l'armilla di sua madre e gliela mostrò.
"Chi sono io, Gwen?", chiese.
E poiché il suo pensiero, confuso, si contorceva come uno stelo flessuoso di convolvolo, proseguì: "Da generazioni la mia famiglia custodisce il sapere del nostro popolo. Ci siamo tramandati oralmente le conoscenze preziose che consentono di curare e di proteggere. In tempo di pace la gente cercava il consiglio di mia madre per dirimere le dispute al villaggio, e in tempo di guerra lei vestì la tunica nera e combatté al fianco di mio padre, come al suo fianco aveva vissuto sino allora. Col suo canto sollevò i venti contro i nemici, e ridiede coraggio ai guerrieri feriti e disarmati. Mio padre, poi, fu un druido potente, un guaritore esperto, un conoscitore e preservatore dell'armonia e della foresta..."
Eléri si interruppe, tormentando l'oggetto prezioso. Ricordava la pira avvolta nelle fiamme, su cui madre e padre giacevano adagiati nelle corte tuniche di battaglia, loro ultimo indumento. Era piccola, ma non poteva cancellare l'immagine, credeva che non avrebbe dimenticato quella scena per l'intera vita.
Gwen, col suo dono, lesse quei ricordi. O forse, solo da quel parlare intorno ai genitori dedusse dove il suo pensiero era arrivato e dove, inorridito, era rimasto inchiodato.
"Sì, da generazioni il sangue che ora scorre nelle tue vene è sangue prezioso, sangue caro agli dei", disse, prendendo l'armilla e tornando a infilarla delicatamente al braccio della ragazza. "Ognuno dei tuoi antenati ha ricevuto un dono, e tu ti chiedi quale sia il tuo. Non ti basta che io te l'abbia detto e che ti abbia preparato, insegnandoti i gesti, i rituali e ogni modo di attraversare il velo e di scoprire ciò che è nascosto agli occhi comuni... Non ti basta e ti chiedi chi sei!"
Eléri annuì, con gli occhi appannati di lacrime, e lasciò sfuggire il suo tormento. "Ho imparato ogni cosa, eppure dentro di me tutto resta muto. I guerrieri sono venuti a interpellarci, e io ho osservato il volo degli uccelli, per giorni interi. Ma, alla luce di ciò che mi è stato insegnato, non ne è venuto alcun messaggio comprensibile. Né alcun altro rituale mi ha indicato alcunché! Hanno bisogno di sapere cosa fare, Gwen! Se cercare alleanze, se combattere, se ritirarsi... da ciò che diremo loro dipenderà la sorte della nostra gente. Ho implorato ogni dio di concedermi un segno, qualsiasi segno! Loro sono venuti da me, dalla figlia di Eoghan e della Guerriera Nera, da colei che tu hai detto avere il dono della divinazione, ma io... non sento nulla. Nulla! Sono solo un povero essere senza alcun talento. E non è di non essere speciale, che mi dolgo, non mi dispero perché non avrò il rispetto e la considerazione di una profetessa. Soffro perché non servo a nulla, non posso aiutare nessuno, non ho risposte a domande che valgono la vita, o la morte, di quelli che vorrei proteggere".
Gwen aggrottò la fronte, riflettendo.
"Tu non ricordi perché ti presi con noi, vero? Perché dichiarai che avevi il dono della divinazione?"
Eléri scosse il capo, il viso rivolto a terra a bagnarsi di lacrime.
"Seguimi", le disse l'altra alzandosi e guidandola verso il fuoco semispento, all'ingresso della capanna in cui le altre dormivano già da tempo.
"Ravviva le braci", le ordinò.
La ragazza frugò nel cerchio di pietre con l'attizzatoio. Spostò le ceneri e la terra con cui avevano coperto i tizzoni, e l'alito fresco della notte s'insinuò tra i rami smozzicati ormai spenti. Il grigio rosseggiò, si sprigionarono fiammelle che accarezzarono i ceppi e in nulla si mutarono in lingue alte, fiori di fuoco che sbocciavano e sfiorivano rapidi nell'aria.
"Canta con me, Eléri".
E come il fuoco, la voce di Gwen si levò ipnotica, in onde che al cielo andavano e tornavano, accompagnando la danza di faville. Eléri si unì al canto, e presto scivolò in una strana condizione di torpore, come se vedesse e sentisse se stessa dal di fuori. Non sentiva più Gwen, né vedeva più il cerchio di pietre.
Nelle fiamme vide uomini lottare. Spettatrice inavvertita, vide un fiume di soldati con loriche e grandi scudi rettangolari e insegne coll'aquila romana, battersi con un numero d'uomini molto inferiore.
Erano Galli, con le tuniche corte allacciate in vita e le braghe a coprire le gambe. Rozze spade di ferro, grandi scudi ellittici coperti di cuoio, dai bordi rinforzati di metallo tagliente. Alcuni combattevano nudi, animati dalla fede nei rituali di protezione dei loro druidi, e dalla confortante convinzione che le anime trasmigrassero.
Vide, tra le loro file, guerriere come sua madre stracciarsi le vesti, per ricordare a chi, affranto, considerava di abbandonare la lotta, la schiavitù che li attendeva. Le vide chinarsi sui feriti, per tentare una magia di guarigione, altre strappare l'arma a un caduto e avventarsi sui romani, come furie.
Vide la battaglia divampare come un incendio, e spegnersi come un incendio sotto una pioggia battente. Vide la rovina che seguiva, il fuoco serpeggiare nei villaggi, l'alleanza tra le tribù sgretolarsi, e da ciascun loro dunon levarsi come uno stormo di uccelli.
Quelle che lasciano la terra in volo, sentì una voce dirle, sono tutte le cose che vi rendevano popolo. Sono i vostri ricordi, le vostre usanze, i vostri pensieri. Perderete voi stessi, diventerete altro. I romani mangeranno le vostre anime, non ascolterete più la foresta, non guarirete più con la sua benedizione, non ci ricorderete più.
Eléri batté le palpebre, nel silenzio della notte. Le braci non fiammeggiavano più, nessuno stava cantando. Gwen la fissava in attesa.
"Ti presi con noi", disse dopo un po', sottovoce, poiché Eléri taceva immobile con gli occhi sbarrati, "perché al rogo funebre dei tuoi genitori avesti una visione. Profetizzasti, quella notte, ma ne perdesti subito il ricordo. Tu non leggi il volo degli uccelli, ma le fiamme. Questa volta, ricordi ciò che hai visto?"
La ragazza inghiottì e forzò gli occhi a mettere a fuoco il viso della sacerdotessa.
"Sì", mormorò, "ricordo ciò che ho appena visto".
"E sai cosa dire ai guerrieri, domani, quando torneranno?"
La ragazza tacque a lungo. Poi chiese: "Li ho visti combattere. Ciò che ho visto, Gwen, è ciò che accadrà o ciò che accadrebbe se combattessero? È il futuro, o solo uno dei futuri possibili?"
La donna inclinò appena il viso verso una spalla, fissando le labbra della giovane tremare.
"È il futuro", le rispose.
"E a che serve conoscerlo, allora, se non può essere cambiato?", chiese ancora Eléri.
"Il futuro vicino non può essere cambiato, è un disegno in cui troppi fili sono già intrecciati", riconobbe Gwen. "Si può cambiare però quello più lontano. Se so che un ponte sta per crollare, non farò in tempo a ripararlo, esso crollerà. Ma posso affrettarmi a passarlo, per non rimanere bloccata sulla sponda sbagliata".
La più giovane si strinse nel mantello, e tirò su il cappuccio.
Il sangue dei druidi andrà protetto nel segreto, non potrà più essere manifestato alla luce del sole. I romani cancelleranno la nostra cultura, tranne ciò che riusciremo a nascondere.
Nonostante l'indumento pesante, si sentì tremare.
Diranno che i nostri doni non vengono dagli Dei, per custodire il mondo, ma dai demoni, per distruggerlo! Ci accuseranno di praticare magia e stregoneria... Fuoco, avvertì poi con certezza dentro di sé, ci costringeranno a temerlo molto, il fuoco...
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