Cap. 6 L'esame
"Hai meditato in questo mese, Jeanne?"
Un mese di clausura. Ci ero quasi impazzita. Acqua e cibo lasciati nella stanza accanto alla mia, la porta di comunicazione sbloccata per mezz'ora, il tempo per mangiare, naturalmente da sola, e poi ancora in camera, in quindici piedi per quindici di spazio. Il segno blu dei suoi schiaffi sullo zigomo era sfumato nel verde, poi nel giallo e infine era scomparso. Dentro, la rabbia era montata in furia, poi si era stemperata in astio, e infine in calma determinazione: uscirò di qui. Per sempre.
Ma mio padre aveva scompigliato i miei pensieri. Era entrato e mi aveva ordinato di seguirlo, dopo avermi solo chiesto, con sarcasmo, se avevo pensato. Senza altre parole mi aveva preceduto nel cortile ed era salito a cassetta di un carrozzino, dopo avermelo additato. Mi ero infilato nel monoposto, quasi una lettiga coperta su ruote, con un tiro robusto e il suo cavallo preferito legato dietro.
Si era avviato deciso verso il bosco e mi aveva ordinato di cambiarmi, intanto. Nel cubicolo mi ero mossa a fatica, infilandomi ciò che ci avevo trovato, ed ero scesa dal carrozzino vestita come un uomo, con parecchie domande in punta di lingua che avevo trattenuto a stento. Eravamo fermi sul limitare d'una vasta pianura verde che mi aveva indicato, ordinando sbrigativo: "Monta e fammi vedere".
Il suo sauro non era abituato a esser cavalcato da alcuno, fuorché da lui, e notoriamente non era un animale docile. Mi ero chiesta se avesse intenzione di punirmi così, facendomi rompere l'osso del collo cadendo da un animale imbizzarrito. Ma non gli avrei dato questa soddisfazione. Mi ero avvicinata e avevo sganciato la cinghia che stringeva il torace possente. Con pochi gesti avevo tirato giù la sella. Un trucco bieco è quello d'infilare qualcosa tra pelle e sella, per far smaniare e rendere isterico un cavallo. Avevo scosso e rimesso su solo la coperta sottosella. Poi avevo raccolto le briglie e messo saldamente le mani sulla groppa.
Il bestione era fin troppo alto per me. E sì che ho una statura rara per una donna. Non avendo gradini o uno stalliere a darmi una mano non restava che saltare, per arrivare a mettere la pancia sul suo dorso. Certo non avrei chiesto aiuto al conte. Piuttosto, mi rompo una gamba.
Mi ero data uno slancio molto buono ma il sauro aveva deciso di dare uno strattone alle briglie e di muoversi inquieto. Per qualche istante avevo rischiato di brutto di finir male, di scivolare e cadergli tra gli zoccoli, ma con un colpo di reni ero riuscita a restar su, ventre contro dorso, e un attimo dopo avevo inforcato.
E ora, mio caro, vediamo chi comanda.
I cavalli sono bestie singolari. Orgogliose, intelligenti. Permalose, ma anche generose. Nei pochi istanti in cui una mano sconosciuta impugna le loro briglie, si svolge un vero dialogo silenzioso, fatto di movimenti. Un cavaliere vien messo all'istante alla prova; il principiante può essere tollerato da vecchi ronzini mansueti che accettano rassegnati il disonore della sua monta, ma un cavallo di razza lo spedirà nel fango senza pensarci due volte.
Un cavaliere più esperto sarà ammonito: finirà male se crede di poter essere sgarbato, di poter strattonare, di potersi imporre con un frustino. Un cavallo di temperamento se ne libererà alla prima occasione, con una sgroppata furiosa, una ribellione eclatante e magnifica.
Poi ci sarà il cavaliere deciso ma che sa rispettare l'animale. Risponderà alla tensione delle briglie, al tendersi dei muscoli sotto le gambe; serrerà le ginocchia, per far sentire che è pronto, ma allenterà appena le briglie, perché non facciano male; sentirà il morso inquieto e si schiaccerà sul dorso, dando qualche colpetto rassicurante sul collo. Chiederà disponibilità e l'offrirà, si farà sentire tranquillo e sicuro.
Attraverso un linguaggio che entrambi capiscono, cavalcatura e cavaliere si presenteranno e si faranno reciproche richieste. Quando avevo spingo i talloni nei fianchi ero pronta e il sauro lo sapeva, ma non era soddisfatto e aveva voluto mettermi alla prova. Non aveva sgroppato, ma il galoppo in cui si era lanciato passando dal passo all'andatura forte e poi alla precipitosa era stato talmente rapido che avrebbe disarcionato anche gente in gamba. Non me: io adoro il galoppo! Adoro la sensazione di potenza che risale dalle gambe e che scorre, scorre in ogni fibra del corpo. Ogni movimento fluido dell'animale va assecondato, come in una danza, ogni passo deve essere in assoluta sincronia, pena esser sbalzati via. Io vivo il galoppo come sia il mio stesso cuore che batte: istintivamente sono col cavallo, saldata fermamente e animale quanto lui, che corre con la gioia selvaggia di essere libero. Il sauro galoppava e questo mi sembrava che sognasse, come me: la libertà!
Infine, avevo tirato lieve le briglie; rallenta, avevo ordinato. Avevo ricordato dove ero, perché correvo nel campo. Avevo frenato il sauro, ringraziandolo sottovoce, e l'avevo riportato alla strada. Dall'alto avevo fissato il Conte, senza alcuna paura. Non ho paura di nulla, in realtà.
Mio padre aveva preso le briglie e io ero scesa, con un movimento che avevo ostentato sciolto. Per fortuna mi aveva girato subito le spalle per andare a legare nuovamente il cavallo al carrozzino, le mie gambe avevano ceduto. Per qualche attimo camminare era stato strano, un mese ferma in quella stanza mi aveva infiacchita.
"Ora vediamo questo", aveva detto tornando verso di me, e mi aveva porto l'impugnatura di un'arma. Stentavo a crederlo, ma voleva che mi battessi; e prima che potessi realizzare d'aver brandito un coltello, mi aveva attaccato.
Mio padre si teneva in forma, nasceva come soldato, e io ero solo una giovane inesperta; eppure ero riuscita a saltar via, d'istinto. Avevo provato a tenermi lontana, sgusciando d'agilità tra le traiettorie della sua lama. Non per tanto, ma quanto bastava per dimostrare che se qualcuno, con me, si fosse illuso di cogliere di sorpresa una fanciulla inerme per farne ciò che vuole, davvero avrebbe fatto i conti con una amara sorpresa. Il Conte mi aveva bloccato infine, con non poca fatica, e senza commentare mi aveva tolto il coltello.
Mi aveva porto un arco, e fatto un gesto vago. Era un vero esame, dunque!, voleva sapere se con Bazil mi ero divertita perché ero una svergognata pervertita o se, davvero, gli avevo chiesto di insegnarmi qualcosa. Soprattutto, voleva sapere cosa e quanto avevo imparato. Bene. Mi ero guardata intorno e poi avevo mirato.
Su un albero in lontananza, un ramo caduto aveva lasciato uno spuntone sbeccato, un segno nel tronco ben visibile anche se appena alla portata dell'arma. Mi ero presa il tempo di rallentare il battito, di concentrarmi sull'obiettivo, sul vento, sul respiro. Avevo scoccato sapendo che lo stavo centrando. E che avessi mirato esattamente a quell'imperfezione era evidente.
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