Cap. 2 La bastarda
Azzurri. Come pezzetti di cielo. Come acqua di mare... Ah! Che svenevolezze!
Chiudo il volume di scatto, disgustata. Di certo i miei occhi nessuno oserebbe definirli così. Il mio è un azzurro cattivo, glaciale. Lungo il bordo esterno la mia iride è attraversata da fitti raggi grigi e, se la luce scarseggia e la pupilla si dilata, gli occhi mi diventano grigio ferro. Tagliano, affilati come lame.
Mio padre è un gran signore di queste terre e tra i prediletti del Duca, addirittura; un suo amico, coetaneo, consigliere. Questo, perché Dio sceglie gli uomini migliori e affida loro la custodia del popolo. Grandi scelte! Che popolo fortunato!
E poi io sono temuta come una indemoniata, dai servi di mio padre, perché sogghigno beffarda davanti ai paramenti sacri! O meglio, dietro. Davanti no, so essere compita, educata come una signora nonostante le mie origini; ma dietro non nascondo il mio disprezzo per questa chiesa serva che ammanta simili uomini, additandoli come prediletti del Signore. Quale Dio miope sceglierebbe questi campioni?
O forse, ha il senso dell'umorismo. Come mio padre, che ha voluto prendermi nel castello. Devo capire ancora quale siano state le sue ragioni... Sospetto sia stato il gusto del beffardo, appunto; benché qualcuno sussurri abbia dimostrato generosità, e qualcun altro, addirittura, rimorso. Pare che mia madre fosse la più bella donna della nostra contrada; anzi, dicono, anche delle vicine. Si racconta che mio padre l'avesse invitata al castello offrendole un lavoro decoroso e che lei avesse rifiutato.
Perché era consapevole della sua origine umile, una perla di modestia!
Oppure una stupida. E una selvaggia ingrata e indomabile. Opinioni varie, ma mi son fatta un'idea mettendo insieme mille cose sentite e mille cose viste, in diciassette anni in questo castello. Forse aveva un innamorato, forse ingenuamente credeva di poter scegliere. Mio padre, allora, le insegnò generosamente come vivere: ne fece la sua prediletta e nessun altro uomo osò mai avvicinarla, perché aveva su di sé un marchio peggio di quello tatuato sul bestiame. Le nacque una figlia, ma quando attese il secondo si impiccò. Niente terra consacrata, per la suicida dannata, come tutti sanno. Possesso del demonio. Probabilmente lo era già da viva, la bellezza può essere un segno del favore del diavolo. Strega, sicuramente.
Fatto sta che mio padre fece portare a casa la bambina rimasta sola. Io, di un anno appena, che responsabilità potevo avere? E mi fece allevare dagli educatori delle figlie legittime. Due, le figlie giuste. E tre maschi. Nati, tutti questi cinque, da due mogli che una di seguito all'altra aveva sposato e sepolto. Dopo la seconda si era rassegnato al volere di Dio.
Le serve mormoravano che finalmente gli si fosse addormentato, con buona pace di tutte loro, e che liberato da quella ossessione che lo spingeva ad appartarsi con tutte quelle che, per disgrazia, avevano un bel corpo pieno e giovinezza sulle gote, finalmente fosse diventato il buon Signore che le nostre terre meritavano.
Ed eccomi a indossare abiti decorosi; non certo di lusso, ma bastevoli, per una figlia bastarda. Infinitamente sotto sorelle e fratelli che presenziano alle feste e alle funzioni sacre, ma più su di qualsiasi servo, che posso comandare a piacere.
Ho potuto studiare, quando ho voluto. E l'ho fatto, divertendomi a essere molto più pronta e intelligente di ciascuno dei cinque figli ufficiali. Che mi odiano, cordialmente. Ho potuto persino risparmiarmi le lezioni sgradite, quelle di musica e canto, per le quali non avevo genio. Arti inutili, ma imposte a una donna di rango, che io non ero. Mi avevano sempre fatto ridere, quegli insegnamenti femminili, imposti quasi che attraverso quelle arti si potesse davvero compiacere un uomo.
'Vieni caro, ti suono una triste canzone sulla cetra...'
'Sì, mia Signora, quale onore... sono tutto eccitato!'
Che grandissime idiozie. Nei racconti delle cucine avevo ben appreso che suonate cercassero gli uomini, e che strumenti gradissero sentire sfiorare e pizzicare, dalle mani femminili.
Comunque, avevo potuto saltare il canto e il cucito, e appartarmi piuttosto nella sala d'armi a seguire, nascosta dietro certi provvidenziali tendaggi, le lezioni dei fratelli che imparavano a maneggiare spade, e poi uscivano nel cortile a tirare con l'arco.
Ma s'impara così poco guardando, maledizione! Poi un giovane, che era sempre con i miei fratelli per imparare a far da servitore e da scudiero, mi aveva scoperto.
Figlio di un faccendiere di mio padre, non nobile ma sveglio, era fisicamente ben costruito e pronto a lottare per conquistarsi un posto migliore: era abile ad adulare e riverire i miei fratelli, e arrogante quanto può esserlo un quattordicenne, con già peluria sulle guance, voce fonda e mani lunghe. Accortosi del mio debole per le lezioni riuscì a cogliermi di sorpresa e, dietro il tendone dov'ero, prese a brancicarmi a piacere, prima che finalmente mi riuscisse di alzare con forza un ginocchio, cogliendo il punto debole d'ogni maschio. A dodici anni non avevo granché d'esperienza, ancora, da vantare, ma le idee erano chiare. Il bastardo mi mollò gemendo e io da allora mi tenni ben alla larga.
Ma intanto, riflettevo. Io volevo andarmene da quella prigione. Doveva pur esserci un posto dove vivere meglio di così; ma dovevo imparare a difendermi e a cavalcare, per avere anche solo una possibilità di allontanarmi a sufficienza senza finire in trappole anche peggiori di quel castello. E nessuno mi avrebbe mai insegnato quel che mi serviva, nessuno. A meno che...
Quando fui pronta, attesi il tizio nelle stalle, mentre provvedeva ai cavalli dei miei fratelli. Mi accertai che nessun altro fosse in giro e mi feci avanti. Gli proposi un equo scambio e quello continuò a guardarsi intorno, nervoso, certo che fosse una trappola. Fu assai prudente, convinto che qualcuno fosse all'ascolto, ma alla fine mi diede retta.
Fui chiara: "Passa i limiti che ti metto e ti pentirai d'esser nato. Sono figlia del signor Conte, e se per colpa tua non potrò più essere vantata come illibata per un matrimonio conveniente, mio padre ti farà evirare. Tuttavia..." e mi lisciai il vestito con le mani, seguendo curve ancora acerbe, ma già non trascurabili, "... se saprai accontentarti di giochi innocui potrei lasciarti fare, per compensarti di insegnarmi certe cose che vorrei imparare", conclusi.
Così fu che lasciai a quel bastardo di togliersi molte fantasie, pur di avere un maestro d'armi e d'equitazione. A sedici anni cavalcavo come un uomo fatto, tiravo d'arco meglio dei cacciatori di frodo e non avevo la forza per brandire una spada. Ma con un coltello ero pericolosa.
Quanto a quel viscido schifoso, mi faceva vomitare col suo odore e aveva preteso cose da prostituta, ma aveva mantenuto l'impegno di non togliere il sigillo che, solo, a uno sposo interessa di trovare intatto. Illusoria garanzia che la sua compagna sia pura.
Uomini!
Comunque, alla fine mi stancai di lezioni da cui imparavo ormai troppo poco e misi fine ai pagamenti. La bestia tentò di insistere e venne meno alla prudenza. Feci in modo di farmi seguire e recitai la parte della fanciulla terrorizzata, sorpresa a implorare che si fermasse. Tentò di alzarmi le gonne nella cappella privata, il porco, e mio padre ne era appena uscito.
Per decenza, il signor Conte dedicava venti minuti settimanali a quella attività, con precisione rigorosa. Sentì i miei lamenti e sorprese lo sprovveduto con le mani fra le mie cosce, mentre io imploravo pietà. Quel che successe potete immaginarlo, dovetti mettermi in mezzo per non farglielo ammazzare, facendo appello allo scandalo.
"Sapete com'è crudele la gente, padre... finirei in bocca a tutti! Pensate, vi prego... anche per il bene dell'anima vostra".
E il bestione poté tornare con le sue gambe alla stanza a lui assegnata, ad attendere una decisione. Ma mio padre non era uno stupido, in fondo. Meditò su quella mia presenza nella cappella, così nuova e così incredibilmente coincidente con la sua. Quella sera stessa mi volle parlare, e mi preparai a sgradite sorprese.
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