6 - perché no?

25 novembre 2022


La pizzeria Gonzaga 33 è sempre stato il nostro posto per le riappacificazioni. È triste che ci siamo stati così tante volte, ma Leo dice sempre che è meglio parlare in un posto pubblico e a stomaco pieno, per evitare che i litigi degenerino.

È un metodo che aveva anche con la sua ex, e in effetti si sono lasciati in maniera molto pacifica.

Ordino una margherita e mi assicuro di far capire a tutti che non ho voglia di perdere tempo, né di stare qui. Leo, invece, se la prende più comoda, rimirando il menù per quasi cinque minuti buoni prima di annunciare che oggi lo ispira una quattro stagioni.

Il cameriere porta via i menù, e Leo rimane a fissarmi in silenzio finché quello non torna con la mia Coca Zero e la sua Sprite.

Poi comincia l'interrogatorio.

«C'è stata una rissa, alla Bullet di ieri?»

Sa già che ci sono andata. E quel commento, unito al breve cenno che lancia in direzione del mio collo, mi provoca una fitta al cuore e allo stomaco. Forse non riuscirò a mangiare.

Accendo di fretta la fotocamera interna del cellulare, e la punto sul lato sinistro del collo per valutare lo stato del fondotinta.

«Cazzo» mi lascio sfuggire. Poi poso di nuovo il telefono sul tavolo.

Abbasso lo sguardo, e vado alla ricerca di scuse, mentre Leo resta in silenzio. Sento i suoi occhi su di me.

«Non è...» come sembra, che cazzata. Certo che è come sembra. «Non è stato niente di serio» decido di dire, allora.

«Se non fosse niente di serio non avresti avuto bisogno del fondotinta» ribatte lui.

Oso alzare lo sguardo, e lo trovo mentre si porta il bicchiere alle labbra. «Se fosse grave ne avrei messo di più» cerco di tenergli testa.

«Quindi non ti imbarazza andare in giro con un livido viola sul collo?» Iniziamo già con le accuse. Bene. «Non ti preoccupa la figura che ci faccio io per essere in giro con te in questo momento? E magari ti eccita pure far vedere a tutti quanto sei troia? Ti piace—»

Si zittisce di colpo, mordendosi il labbro, quando vede avvicinarsi il cameriere con i nostri piatti. Lascia che li posi sul tavolo, ringrazia, e lo guarda andare via, prima di rivolgermi di nuovo lo sguardo.

I suoi occhi marroni sono carichi delle parole velenose che non mi ha ancora rivolto. Poi prende un respiro, uno di quelli lunghi, che usa per calmarsi o per trovare la concentrazione. Per ridimensionare tutto.

«Leo, io—» non so neanche cosa dire.

«Sai cosa?» mi interrompe lui. «Vai pure con chi vuoi. Non voglio saperne niente.» Alza le mani. «Ma finché non torni in te, non azzardarti a cercarmi per i soldi o per passare un po' di tempo insieme quando è chiaro che non te ne frega più un cazzo di me e che non mi ami più.»

Ma che cazzo sta dicendo?

Io sono in me. Non lo cerco solo per i soldi. Passare del tempo insieme non è una scusa.

Lo amo ancora.

Allora perché non riesco a dirlo? Perché non riesco a dire niente di tutto quello che ho appena pensato?

«E tu, allora?» Perché riesco solo a rispondere a tono? «Parli solo dell'università e di quanto sei stanco!» Perché riesco solo a trattarlo così male? «È come se io non esistessi più da quando hai iniziato a lavorare a questa cazzo di tesi!» Perché non riesco a fermarmi?

Leo lascia cadere le posate sul piatto. Mi guarda peggio di prima. Non vuole fare una scenata in pizzeria. O meglio, se inizierà una scenata in questa pizzeria vuole che la colpa ricada tutta su di me.

«Se tu fossi una studentessa seria, come quando ti ho conosciuto, capiresti quanto è importante. Invece sei fuoricorso da sei mesi e pensi solo a drogarti e andare alle feste.»

Ora gioca questa carta, ovviamente. Sminuirmi anziché aiutarmi a risolvere i miei problemi. Fa solo una checklist di ciò che non va in me, e poi mi dice che sono cose che devo sistemare da sola, perché lui non c'entra. Perché stare di nuovo con lui – stare di nuovo bene con lui – dovrebbe essere tutta la motivazione di cui ho bisogno per uscire da tutti questi casini.

«È un lavoro duro, è un periodo stressante, tra meno di un mese devo consegnare tutto e sono indietro con il progetto.»

Ormai ho preso a scuotere la testa e tagliare la mia pizza in fette sempre più storte.

«E sai perché?» riprende lui. «Perché continuo a correrti dietro. Continuo a star dietro a te e alla tua merda e ai tuoi problemi. Chi pensi che pagherà, stasera?» Fa cenno all'intero ristorante con un breve movimento della forchetta.

Mi mordo la lingua. Stringo più forte le posate. Ho così tanta voglia di rovesciargli il piatto in faccia, ma allo stesso tempo ho voglia di piantarmi questo coltello sporco di farina nel petto.

Per non sentire più questo senso di colpa, questa frustrazione, questo bisogno di chiedere aiuto a qualcuno per cui amarmi è diventato così faticoso. Così difficile. Così inutile.

«Quindi mi stai lasciando?» Glielo chiedo prima che la mia voce inizi a tremare. Prima che i miei occhi si riempiano di lacrime.

Che parli chiaro, per una volta.

E invece Leo mi guarda per dieci secondi buoni. Dieci secondi in cui vedo passare tutte le emozioni del mondo sul suo volto. Dalla sorpresa per la mia domanda così diretta alla rabbia e il risentimento che stanno per fargli dire di sì, per poi passare alla tristezza e la nostalgia, nei suoi occhi lo specchio dei ricordi dei nostri giorni migliori.

Passo tutto quel tempo infinito a fissarlo. A imprimere nella mia mente il ricordo di lui, che mi sembra già così distante. Ripercorro tutte le volte in cui ho accarezzato quelle guance sempre sbarbate, in cui ho lasciato baci tra quei ricci soffici e profumati. Tutti i giorni in cui ho avuto il diritto, il privilegio di camminare al suo fianco, di stringere la sua mano.

Penso a quanto mi mancherà tutto questo.

«No» dice lui, alla fine.

Lascio andare il respiro. Ho temuto fino all'ultimo. Ma Leo ha scelto la speranza. Ha scelto la fatica. Di nuovo.

Non è la prima volta che facciamo un discorso come questo. Ma sento che sarà l'ultima.

Insieme al respiro, escono anche due lacrime. Solo due, una per occhio. Le sento scorrere sulle guance.

Leo allunga una mano, e prende la mia. Abbasso lo sguardo alle nostre dita intrecciate, alla tovaglia bianca che ho paura di sporcare.

«Prendiamoci un po' di tempo, ok?»

Annuisco, ma la voce non ne vuole sapere di uscire, mentre le lacrime si stanno spintonando come bambini entusiasti di buttarsi da uno scivolo in piscina.

«Prenditi un po' di tempo per te stessa» continua lui.

«Va bene.» È tutto quello che riesco a dire, prima di essere costretta ad asciugarmi gli occhi. Faccio attenzione a non rovinare l'eyeliner, ma in realtà non me ne frega un cazzo. Le poche persone ai tavoli vicini stanno pensando ai fatti propri, e i camerieri ci conoscono, ormai. Mi hanno visto in stati peggiori.

Continuiamo a mangiare in silenzio. A nessuno dei due viene in mente un argomento di conversazione decente. O forse nessuno di noi due ha voglia di risollevare il morale all'altro.

Va bene così, credo. Ce lo meritiamo, per quello che ci siamo detti prima. Me lo merito, per quello che gli ho detto io. Per quello che ho fatto. E perché questa pizza è buonissima. E la pagherà tutta lui.

Mi riaccompagna a casa in macchina. Di solito accosta accanto ai binari del tram, mette le quattro frecce, e mi saluta in fretta, ma questa volta, forse per miracolo, ha trovato parcheggio dall'altro lato della via.

Spegne il motore, e mi guarda con un sorriso leggero, forse falso.

«Vuoi salire?» Faccio cenno con la testa in direzione del portone, mentre mi rigiro il portachiavi tra le mani. Mi sento una verginella alla prima cotta, in imbarazzo a fare una domanda come quella per via di tutte le implicazioni che ci sono sotto.

«No» dice lui, per poi sospirare.

«Devi studiare?» lo canzono io.

Lui sbuffa dal naso. «No, no, sono troppo stanco per quello.»

E sei troppo stanco anche per me?

Vorrei dirlo, ma sembra l'inizio di una nuova guerra. E siamo appena arrivati a una condizione di pace. O almeno di tregua.

«Guarda che non ho scopato con nessuno, ieri notte. Il letto è pulito.» Mento, ma il letto è in uno stato decente. Non se ne accorgerà.

Lui sorride di nuovo. Un sorriso che non svanisce subito dalle sue labbra.

Mi dà un po' di speranza essere quasi riuscita a farlo ridere.

«Non è per quello» dice ancora lui.

Piego la testa di lato, e mi avvicino al suo viso. Al suo collo. «E allora perché no?» gli chiedo, con la voce più tenera che riesco a buttare fuori. Quella che funziona sempre, con lui. Quella della ragazzina abbandonata che lui è convinto di aver salvato, e che continua a mettersi nei casini.

È questo che lo fa incazzare di me. Che tutti i suoi sforzi per rendermi una persona migliore non sono serviti a niente. Perché io faccio ancora schifo.

Perché non sono come lui mi vorrebbe. Perché non può guardarmi e dire di essere fiero di me. Non può presentarmi agli amici o alla sua famiglia e non vergognarsi di me.

Slaccio la cintura di sicurezza, e gli lascio un breve bacio sul collo.

Lui inspira profondamente, ma non si tira indietro. Volta solo la testa verso di me.

Io continuo a guardarlo dal basso.

E lui si slaccia la cintura, e sblocca la portiera della macchina.

Cede.

«Perché no?»

Spazio autrice

Oh, ciao, fantasmini bellini! Oggi Ale sta facendo il bucato.

Questi due invece litigano ma forse si riappacificano? Chissà, chissà...

Leo è proprio un palo nel cu- ehm un po' un perfettino. Mette la carriera universitaria al primo posto e vorrebbe che anche Erika facesse lo stesso.

Lui che impressione vi ha fatto per ora?

Ah, stiamo conoscendo un sacco di gente! Vediamo se anche nel prossimo capitolo compare qualcuno di nuovo.

F. D. Flames

Ogni immagine utilizzata appartiene al rispettivo artista.

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