Capitolo XIX - Consumarsi...

Sospirò infastidita, mentre sedeva sul divano di broccato e guardava dalla finestra il buio calarsi sugli oleandri che riempivano il giardino. Inchiodò la luna che, sorniona, si beffava di loro e della farsa che, di lì a poco, si sarebbe consumata in quella stanza. Infine, spostò gli occhi sul viso del giovane che era seduto accanto a sé. Notò i lineamenti induriti dall'attesa e dalla trepidazione di un incontro da cui sarebbe dipeso il proprio futuro; un guizzo di compassione s'infilò tra le sue labbra e gli sorrise cordiale. «Iniziamo bene! Sei certo, mio caro, di voler conoscere questa ragazza?» inquisì cauta, «Non vi siete neppure incontrati e già tende a sfuggirti.»

Non aveva nulla contro la giovane che il nipote si ostinava a voler incontrare, dopotutto non l'aveva vista ancora e non poteva recriminarle alcunché; eppure, un presentimento molesto l'induceva a prendere di peso il ragazzo e portarlo via da quella casa dove metteva piede per la prima volta.

Si domandò, tra uno sbuffo di fastidio e un sospiro di rimostranza, perché la sorella le avesse affidato quell'incombenza e, soprattutto, il motivo per cui lei non aveva obiettato.

Poteva rifiutarsi, d'altronde era la sua attività preferita ribellarsi agli ordini dei propri familiari. Non era riuscito suo padre, buonanima, a piegarla al proprio volere, figuriamoci se poteva soccombere alla richiesta della sorella minore.

«Zia, vi pregherei di non ricominciare con i vostri moniti, tantomeno con le accuse», il giovane si premunì inoltre affinché la donna non desse sfoggio della propria insolenza davanti alla padrona di casa e alla sua ospite, «Non credo che sia colpa loro questo ritardo. Avrà tardato il treno, d'altronde Vienna non è dietro l'angolo!»

Il marchese Ascanio Donà delle Rose si mosse sul divano, indispettito e palpitante, chiedendosi cosa avesse spinto la madre a disertare quell'incontro programmato da tempo e, soprattutto, perché avesse convinto la sorella ad accompagnarlo.

«Nessuno più di mia madre conosce la vostra insofferenza innanzi alle regole dell'alta società,» cogitò a voce sostenuta, coinvolgendo la zia nelle proprie congetture, «poteva evitare di immischiarvi in quest'affare.»

«Affare?» le sopracciglia della nobile guizzarono verso l'alto, lambendo la veletta del cappello poggiata ancora sul suo capo, «Il matrimonio sarebbe un affare?» scosse il volto, avvilita, «Non è la prima volta che le mie povere orecchie sentono un simile paradosso, benché sia stato pronunciato da qualcuno che non aveva capelli scuri quanto i tuoi, tantomeno riusciva a tenere la schiena dritta come fai tu. Da te, che sei nel fiore degli anni, mi aspettavo almeno un accenno alla sacralità di quest'affare!»

«Sapete bene che quest'unione, semmai dovesse compiersi, servirà a ripulire il nostro nome e risanare le finanze degli Andrássy, ci guadagneremo entrambi.»

«Non ti disturba sapere che la tua esistenza, unica e irripetibile, sia trattata al pari di un termine un contratto?» domandò la donna, puntando le cerulee iridi in quelle ambrate del nipote. La nobildonna aveva ancora un aspetto giovanile, nonostante l'età ormai matura: i suoi capelli, però, erano sempre neri e lucenti come quand'era ragazza e recava in volto i segni di una passata bellezza, mai sfiorita davvero. Il nipote l'osservò come mai prima di allora aveva fatto e convenne che fosse davvero uno splendore; comprese gli uomini che avevano perduto il senno per lei, nonostante l'insolenza dei modi che erano poco consoni al suo rango e la rendevano più fastidiosa di una pulce, ma non si spiegava perché la zia aveva rifiutato ogni buon partito che le si era presentato per rincorrere una chimera.

«Concordo con mio padre: non c'è nulla di più auspicabile per me di un matrimonio con Christina Andrássy» ribadì, privo d'incertezza. «Che cosa avrei dovuto fare, secondo voi, rifiutare per diventare, poi, un reietto della società?»

«Per essere felice!» obiettò la donna, «Quando non saremo altro che cadaveri scarnificati, non resterà null'altro di noi che l'amore donato e la felicità tramandata. Non rimarranno le terre, i denari, i titoli nobiliari, le case, i quadri, l'argenteria e gli ori. A nessuno importerà delle ricchezze che avrai accumulato né della rispettabilità che avrai preservato, resterà solo il ricordo di un uomo che mai avrà amato», il monologo della donna sfumò nel silenzioso dissenso di Ascanio e nei sospiri d'approvazione di chi fu spettatore involontario del suo eloquio.

«Perdonate l'attesa, ma abbiamo avuto un imprevisto durante il viaggio», Clara avanzò nella stanza, precipitandosi lì appena la servitù l'aveva informata che vi erano ospiti ad attenderla e aveva trascinato con sé Christina, nonostante le rimostranze della nipote. La giovane contessa avrebbe preferito raggiungere nell'immediato la propria camera e mettere ordine in quel garbuglio di pensieri che le riempivano la mente, a partire dal fine ultimo della sua permanenza in Italia. Aveva seguito con riluttanza la zia in salone e aveva assistito con ammirazione alla requisitoria di una donna che sembrava rifuggire qualsiasi tipo di convenzione.

Ascanio scattò in piedi appena le scuse di Clara erano riecheggiate nella stanza e s'inchinò al suo cospetto, afferrando la sua mano e sfiorando lievemente le sue dita. «Contessa, perdonate voi la nostra intrusione, ma mia madre ci teneva particolarmente a onorare il vostro ritorno e conoscere vostra nipote» chiosò solenne e posò, infine, le pupille sul viso di Christina, avvincendosi alla soavità dei delicati lineamenti. Avvertì un guizzo nel torace, simile a un palpito stonato, e pensò di essere davvero un marchese fortunato, giacché incantevole era la donna che, di lì a breve, avrebbe sposato. «Contessina Andrássy, è un piacere fare la vostra conoscenza», lasciò cadere la mano di Clara e si affrettò a ghermire le falangi della giovane a cui era stato destinato.

«Tesoro, ti presento il marchese Ascanio Donà delle Rose» intervenne Clara e sembrò a proprio agio, ma in cuor suo sperò che Christina non le rimproverasse quell'agguato.

«È un piacere conoscervi, marchese», impeccabile nei modi e cordiale nell'intonazione della voce, Christina conobbe l'uomo, e nessun fremito molesto la avvisò di stare in allerta.

«Mia madre era davvero curiosa di conoscervi, Christina. Posso chiamarvi con il vostro nome di battesimo, vero?» domandò, «Sembra che siamo coetanei e, pertanto, mia madre ritiene che potremmo diventare amici.»

«Talmente curiosa che si è defilata e ha mandato me» sussurrò la zia, benché il suo bisbiglio fosse stato udito da chiunque, ma lei poco se ne curò.

«Vedo che vostra madre non c'è, Ascanio» affermò Clara, fingendo di non aver udito quanto detto dalla donna che era nel suo salone e che non le era stata ancora presentata, malgrado non fosse essenziale: la fama della sua ospite era arrivata fino a Trieste, partendo dal profondo meridione.

«Purtroppo, ha avuto un'indisposizione e non ha potuto accompagnarmi» si scusò il giovane, privandosi del blando contatto con le dita di Christina. «Ha lasciato che quest'onore, però, fosse della sorella maggiore» annunciò, mentre la zia innalzava le pupille al cielo, nauseata dalle aberranti moine del nipote, «Signore, vi presento mia zia, arrivata dal sud d'Italia per conoscervi» proseguì con enfasi, ma fu zittito dall'intervento dell'interessata.

«A dire il vero, sono a Trieste per una vacanza e per visitare i miei parenti,» precisò, «ma sono stata ben lieta di farvi visita. È un immenso piacere conoscere voi, contessa Gotzen, e anche voi, Christina. Sarà meglio che mi presenti da sola, poiché Ascanio sembra intenzionato a farmi apparire come una mendicante sopraggiunta dal decaduto Regno delle Due Sicilie pur di inchinarsi al vostro cospetto» dichiarò, schernendo ogni tentativo del nipote di ingraziarsi le due donne e provocando lo sgomento in Clara e divertimento in Christina, «Non fraintendetemi, sono onorata di conoscervi, ma ripudio tali smancerie,» s'inchinò lievemente, «sono la baronessa Brunella Lombardi e spero vivamente di poter diventare vostra amica.»

I tenui bagliori dell'alba rischiararono il cielo e lei sospirò, si era quasi fatto giorno e non sapeva se rallegrarsene oppure dispiacersi; indolenza e malinconia si contendevano il suo sguardo. Aveva passato le ultime ore a rigirarsi tra le lenzuola che lambivano il suo corpo nudo, mentre il silenzio della notte irrompeva nei suoi pensieri.

Non sapeva perché, la sera prima, si era svestita di ogni abito e si era coricata senza null'altro che la coprisse, all'infuori di un desiderio ardente e di un languore trasognante.

Non era stato, però, quello stato d'animo febbrile a tenerla sveglia per gran parte della notte; benché non volesse ammetterlo a voce alta, Katharina sapeva che l'imminente partenza di Maximilian sconvolgeva la sua psiche e, anche, ogni suo senso.

Gettò un'occhiata alle lettere che giacevano sul comodino accanto al letto e che si era ostinata a voler leggere la sera precedente. Erano le missive di Alexander che non aveva voluto leggere prima di allora. Non doveva scordare ciò che le aveva fatto, l'umiliazione inferta, ma l'allontanamento di Maximilian aveva gettato un'ombra sulla sua volontà.

Sembrava quasi che volesse fare un dispetto al marito, che andava via incurante che fossero i primi giorni della loro vita insieme, e pertanto voleva risvegliare l'amore provato per Alexander.

Oppure, desiderava soffocare la smania di avvertire le mani di Maximilian sul proprio corpo e voleva ricordare di avere il cuore già occupato.

Eppure, nessuna parola scritta da Alexander riuscì a sbrogliare la matassa dei propri pensieri tormentati, ma un lieve rossore le sbucò sulle guance allorché avvertì dei passi oltre la porta della stanza da bagno.

Nascose dietro un lieve sorriso il subbuglio del proprio cuore sconcertato e, accantonando qualsiasi buon proposito, scostò le coperte e scese dal letto; indossò in fretta e furia la camicia da notte e la vestaglia, scordandosi di allacciarla.

Si precipitò alla porta e poggiò l'orecchio sul battente, e i rumori che udì si mescolarono alle pulsazioni frenetiche del cuore. Poteva spalancare l'anta, certa che non fosse chiusa, e ritrovarsi faccia a faccia con l'oggetto dei suoi peccaminosi desideri; oppure, poteva tornare a letto e zittire ogni stramba idea.

Restò lì a languire.

Aveva il profilo appoggiato sul legno levigato e non intuì che, al lato opposto, ci fosse Maximilian nella medesima posizione.

Il tempo trascorse lento e cheto, poi un picchiettare ritmato e attutito dalla lontananza fendette il silenzio.

Katharina capì che qualcuno stava bussando alla porta della camera di Maximilian e, infine, udì un parlottare sommesso.

«Duca, è tutto pronto per la vostra partenza», Katharina sussultò nell'udire la voce di Philip, il cameriere personale di Maximilian, e drizzò le orecchie per non perdersi alcuna informazione, curiosa di sapere quando prevedeva di tornare, «dobbiamo sbrigarci per arrivare ad Amburgo prima che salpi la prossima nave per Harwich.»

Maximilian non fiatò, Katharina era certa che nessun suono fosse uscito dalle sue labbra e lei sospettò che il marito non fosse certo di voler partire.

Almeno, lo sperò.

Quell'uomo aveva smosso qualcosa dentro di lei, qualcosa di profondo ed eccitante che non credeva esistesse. Era un'intimità sconosciuta che, per quanto bellissima, era altresì terrificante. Non era preparata ad avvertire tutte quelle emozioni e, per giunta, non voleva lasciare andare le passate pulsioni.

Decise che era meglio tornare a letto.

Poi, però, le sue dita si mossero sulla maniglia in ottone, e schiuse l'uscio.

Il suo volto fece capolino tra lo stipite e il battente; con gli occhi rivolti al pavimento, domandò: «Stai partendo?»

«Duca, vi aspetto dabbasso» Philip annunciò, non osando guardare la padrona. Il cameriere svanì nell'indifferenza dei duchi che, finalmente, decisero di guardarsi.

Fu il più grande errore di Maximilian. Dopo, non riuscì a staccarsi dalle pozze turchesi che lo risucchiavano in un abisso sempiterno e imperituro. Da lì, non riuscì più a uscire, e temette di essere incapace di rifiutarle alcunché. «Che cosa cambia se aspetti qualche giorno, cosicché nessuno possa avere dubbi sul nostro matrimonio?» chiese Katharina, sebbene un'altra domanda premesse sulle labbra.

«Vorrei risolvere i problemi di Alexander quanto prima.»

«Alexander non può pretendere sempre che siamo noi a pagar pegno per le sue colpe» s'infervorò lei e, infine, si addentrò nella stanza da bagno e troppo tardi si accorse di avere la vestaglia slacciata e gran parte del tondo seno esposto all'occhiata concupiscente di Maximilian.

Sorrise, vittoriosa, e seppe cos'altro domandare. «Se non v'è altra soluzione, potrei venir con te» propose, «e diremmo che è la nostra luna di miele», avanzò cauta fino a trovarsi al cospetto del marito, fu a un fiato di distanza da lui che ansimava e scuoteva la testa, nel mentre cercava una scusa per rifiutare. «Non sappiamo in quali guai si sia cacciato Alexander a Londra e non voglio che tu sia coinvolta in affari loschi.»

«Resterei in albergo ad aspettarti!»

«Non insistere» ordinò Maximilian e si augurò d'essere convincente, determinato a non raccontarle un'altra verità

«Allora, rimanda la partenza», s'innalzò sulle punte e si tenne alla giacca del marito, stringendola tra le dita; alitò sulla sua bocca e strofinò la pelle sulla sua guancia arroventata.

Era stanco, Maximilian, sfiancato da due notti insonne durante le quali aveva vagato nella propria stanza e, poi, si era intrufolato in quella della moglie, solo per osservarla mentre dormiva. La notte appena sfumata nel grigiore dell'alba era stata la peggiore, poiché aveva intravisto la sua schiena nuda e le coperte scostate che nascondevano il corpo solo dalla vita in giù. Era stato audace, da buon soldato, e si era avvicinato a letto per rimboccarle la trapunta, poi era scappato con la coda tra le gambe e aveva stoicamente detto addio alla possibilità di dormire almeno qualche ora.

C'erano voluti più di un bicchiere di brandy per ricusare l'immagine dei suoi turgidi seni che svettavano oltre le lenzuola, sfavillanti tra le fiamme di una candela.

Era stanco, Maximilian, e anche un po'invasato, tant'è che acconsentì a rimandare la partenza di qualche giorno.

Era tronfia, Katharina, e perfino esaltata, tant'è che decise, senza cogitare, di festeggiare la vittoria sulle labbra del marito.

«Non c'è nessuno che ci guarda, non dobbiamo fingere, e questo non è il modo di approcciarsi al proprio fratello» sussurrò roco Maximilian, rammentando quanto avesse detto lei poche ore prima sebbene l'ultimo pensiero buono stesse per perire.

«Io non ho fratelli» affermò convinta lei e s'insinuò nella sua bocca.

Durò un effimero istante, ma fu il preludio di una combustione che, di lì a pochi mesi, li avrebbe consumati.

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