CAPITOLO 2 [parte 2]
L'ingresso dell'osteria mi accoglie con un abbraccio caldo. La brace al centro irrora l'ambiente di luci ambrate e spalma le ombre tutt'intorno, il più lontano possibile.
Mi libero della cappa e del cappuccio. Sento le spalle leggere, quasi che avessi portato indosso un peso.
Mi avvicino al bancone: ho una sete incredibile. «Dammi una birra.» Sbatto due Raggi di bronzo sul bancone senza curarmi di metterci troppa forza.
L'oste grugnisce un po'. Sparisce verso le tinozze e fa ritorno solo quando ha il mio boccale bello pieno.
Non gli do neanche il tempo di appoggiarlo che lo afferro e lo tracanno come fosse acqua di ruscello.
«Oste, un altro boccale alla signorina: sembra avere molta sete» esordisce qualcuno con un evidente bisogno di farsi gli affari degli altri.
Sono troppo stanca per girarmi e dargli un pugno in faccia. Non mi volto nemmeno. «Se sei in cerca di compagnia sotto le lenzuola, hai sbagliato non solo portone, ma pure il maledetto castello. Vedi di sparire.»
Mi giro e cerco di affogare nel mio boccale. Per un lungo momento penso che non ci sia niente di meglio che poter diventare invisibili a comando.
La realtà bussa con la voce sgradevole del maniaco alla mia destra. «Suvvia, non c'è bisogno di essere così ritrosa. Voglio solo fare amicizia.»
Sì, come se fossi una sprovveduta. Mi giro di scatto. Sono sul punto di urlargli addosso.
Mi interrompe con una alzata di mani. «Se i Principi mi avessero avvertito del tuo caratterino, avrei evitato di accettare questo incarico.»
Se fino ad ora ho scelto di non degnarlo nemmeno di una mezza occhiata, ora che posso guardarlo meglio ho una rivelazione improvvisa: lui è quel mendicante che ho urtato prima. Quello che mi ha indicato la parrocchia per i poveri e gli affamati!
«Se questo è il tuo modo di approcciare le persone, mi meraviglia che ti affidino qualsiasi cosa.» Da quanto mi sta alle calcagna?
Il viscido scoppia una risata sgradevole. «Questo perché sono fin troppo bravo nel mio lavoro.»
Affondo una boccata di birra nella mia gola. Batto il boccale sul bancone; chiaro segno che ne voglio un altro. «Mettilo sul conto del simpaticone qui presente.» Attendo che la bevanda sia riempita. La sollevo, ma non la porto alle labbra. «Vieni al dunque. La mia pazienza è poca e tu l'hai già consumata tutta.»
L'uomo si solleva dallo sgabello. «Io sono Sebastian.» Esegue un inchino che potrebbe essere considerato offensivo in almeno dieci delle dodici Costellazioni. «I Principi non sono soliti affidarsi ad altri per questo genere di lavoro, ma abbiamo un problema e un aiuto esterno potrebbe rivelarsi più che sufficiente.»
Non riesco a immaginare cosa io possa fare che a loro non è concesso, ma, visto che devo ingraziarmeli, tanto vale stare a sentire. Gli faccio cenno di continuare con la mano sinistra e mando giù la birra.
Il viscido mi sorride. Forse pure troppo, per i miei gusti. «Sono certo che siate a conoscenza del detto "pecora nera", no? Ebbene, anche i Principi ne hanno una. Una fastidiosa, perfino.»
«E suppongo vogliano che me ne liberi.»
Sebastian scuote il capo. «Se fosse così facile, lo avremmo già fatto noi. No, quello che ci serve è sapere chi è.»
E io che credevo che i Principi avessero occhi e orecchie ovunque. «Non vedo come potrei aiutarvi.»
«In realtà, è più semplice di quel che pensiate. Almeno, per voi che siete forestiera.» Il viscido si appoggia con il braccio sinistro sul bancone. Se non stessimo parlando di affari, giurerei che quella è la classica posa di chi sta cercando di abbordare una donna. «Questo tipo non è esattamente difficile da trovare, ma non è per niente facile da raggiungere. Sappiamo soltanto che ha delle conoscenze molto in alto. Le volte che abbiamo provato a fargli cambiare idea... diciamo non è stato piacevole per ambo le parti.»
Posso solo immaginare cosa intenda con "fargli cambiare idea". Suppongo, abbiano provato a minacciarlo. «Ho bisogno di avere più informazioni al riguardo. Hai già un'idea di cosa dovrei fare?»
Sebastian si allontana dal bancone. Fa spallucce. «Diciamo che, per ora, ti mostrerò la persona in questione. Come agire lo lascerò decidere a te.»
Mi giro senza fretta. Pensare di entrare nel Colle del Mendicante senza che i suoi Principi ne fossero al corrente è pura utopia. Suppongo che anche questo incontro non sia un caso. Quello che mi sfugge, per ora, è perché.
«Mi lusinga avere carta bianca.» Mi alzo a mia volta dallo sgabello. Faccio cenno alle Sorelle con la mano. Le seguo mentre si alzano, ma tengo Sebastian sulla coda dell'occhio nel caso faccia qualcosa di stupido.
«Carta bianca non è esattamente la parola giusta» commenta il viscido. «Avrai modo di capire che intendo quando saremo sul posto.»
Gli sferro un'occhiata di quelle così intense da poter trapassare le pareti da parte a parte. «Allora, perché perdiamo tempo prezioso?»
Sebastian sospira. Curva le ciglia all'ingiù e socchiude le palpebre. «Dopo di te» dice, con un gesto ampio della mano atto a darmi la precedenza.
Lo squadro dalla testa ai piedi, quasi che fosse un appestato. «Da dove vengo io, una donna non va mai davanti a un uomo. E poi, non conosco la città. Fammi strada.»
Posso leggere il disappunto nei suoi occhi neri. Sorrido soltanto quando mi dà le spalle. Cosa pensa di me, che io sia stupida? Fila dritto, viscido che non sei altro. Se prova a fare qualsiasi cosa di sospetto, io e le mie Sorelle lo faremo camminare con le gambe aperte per il resto dei suoi giorni.
Nonostante i litri di alcol ingeriti, la capitale non migliora né in aspetto né in odore. Credo di odiarla così nel profondo, che non riesco a smettere di immaginarla coperta di piante, alberi, e di verde. Per un istante fugace, giuro che le case, i viottoli e le persone sono tutte svanite. C'è solo un manto d'erba e una casarella di legno all'orizzonte. Dov'è che l'ho già vista?
Sebastian mi scuote dai miei pensieri. «Siamo arrivati.»
Sbuffo. «Dove ci troviamo?»
Sollevo gli occhi. Tutto ciò che vedo è un palazzo fatiscente. Non so come riesce a reggersi in piedi, ma sarebbe sufficiente un po' di vento per tirarlo giù.
«Questo è uno zaranetto» commenta Sebastian. Dal modo con cui lo dice, devo dedurre che sia un postaccio perfino per un viscido come lui.
Ora che ci penso, ne ho sentito parlare. «Non è una Casa di Cura?» Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare.
«Per l'amor del Dio Sole, certo che no.» Posso giurare di aver visto un brivido salirgli fin su nei capelli corvini. «Qui è dove portano i Figli di Tzaarat, quelli che ormai sono a passo dallo schiattare.»
«E perché mi hai portata qui?»
«Perché il nostro uomo è là dentro.»
Ah. Ora capisco. «È un Figlio di Tzaarat a sua volta?»
Sebastian scrolla le spalle. «Può darsi. Quel che sappiamo di sicuro è che nessuno sa da dove sia sbucato.» Porta le braccia sul petto e le incrocia. «Non fa altro che passare lì tutta la giornata, da Andante fino all'Allegretto.»
«Capisco» lo interrompo. «In questo caso, immagino non ci resti che aspettare che esca.» Guardo Sebastian abbastanza a lungo da fargli capire che faccio sul serio. Gli leggo il disagio nelle iridi e nelle ciglia contorte. «Vuoi farci compagnia?»
«Non è necessario. Quello che dovevi sapere ora lo sai. Il resto lo lascio a te.» Mi saluta con un cenno del capo e se la fila. Deve proprio fargli paura, la Maledizione. Ma, d'altronde, a chi non lo fa?
Anche le mie Sorelle, Claudiette e Rosanne, non sono a loro agio.
«Vorrei chiedervi un favore» dico loro. «Tenete quella serpe sott'occhio. Non mi fido.»
«Vuoi veramente restare qui?» chiede Rosanne, con un filo di voce.
Annuisco. «Non ti preoccupare. Meroll è con me. Non ci avvicineremo più del dovuto.»
«Sei proprio sicura?»
Le faccio cenno con la mano. «Vai pure, tranquilla.»
«Dai forza» la spinge via Claudiette. «Starà benone. Mithra ha la pellaccia dura!»
Sorrido a entrambe. «Vi raggiungerò all'Osteria prima che scenda il buio e inizi il Patto Solare.» Mi rispondono con un cenno d'assenso e io le seguo con lo sguardo finché non sono sicura che siano svanite del tutto. Solo allora, mi rivolgo a Meroll. «Io entro.»
«Stai attenta» replica la Sorella, le ciglia corrugate e le labbra distese in una linea sottile.
Le bacio la fronte e avanzo verso lo zaranetto senza timore. Nessuno sano di mente entrerebbe in un luogo pieno di Figli di Tzaarat. Ma io non ho nulla da temere. Sono una di loro.
L'interno è scuro. L'edificio è sorretto da colonnati e soffitti a volta, ma sono così bassi da ricordare delle catacombe. Ogni cella è adibita ad ospitare da uno a tre Figli di Tzaarat. Stanno distesi su giacigli di paglia e sono accuditi da suore e chierici guaritori. Ma, in quel luogo tetro, nemmeno i Miracoli hanno potere. La Maledizione è antica e potente. I Figli di Tzaarat hanno un solo e unico destino. Che è forse anche il mio, ma per qualche motivo, almeno per ora, non ha ancora attecchito fino in fondo. Forse è la mia colpa anche questa: un monito perenne per la blasfemia delle mie azioni.
Non conosco l'uomo che i Principi desiderano che io incontri, ma qualcosa mi suggerisce che non avrò problemi a trovarlo. Sicché avanzo adagio. Colpi di tosse e lamenti mi accompagnano. Li guardo uno ad uno. Basterebbe anche solo star loro accanto per essere infettati. Ma non ho da temere.
Un vociare mi sorprende. Svolto il corridoio alla mia destra e sul fondo scorgo due figure. Uno indossa una sacca sgualcita e sdrucita. L'altro ha un'armatura bianca, il simbolo del Dio Sole in oro sulla mantella azzurra e una coroncina impreziosita da monili e gioielli.
Un nodo mi si stringe alla base della gola: Sheikh Yusuf!
*
Post Scriptum:
Ero a Roma quando è nata la Sposa.
Ero sotto un solce cocente a Tor San Lorenzo. Per chi non lo sapesse, lì vicino c'è il mare.
Eravamo lì per una fiera. In quel periodo facevo il mercate per un bancone di abbigliamento e non avevo grandi pretese dalla vita. Mi ero un po' rassegnato a essere uno qualunque senza niente da dire.
Una delle mattine, quando il banco era chiuso, io me ne stavo nel vano del camion a leggere Vita di Pi. Lo avevo preso in prestito da mio fratello e avevo soltanto visto il film (bellissimo, tra l'altro). E lessi una frase che parlava di come un racconto dovesse "respirare".
Non so cosa risvegliò in me quella frase, ma so soltanto che presi il blocco note del cellulare e scrissi su di esso le prime cose che il cocente sole di Agosto mi suggerì.
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