CAPITOLO 10 [parte 1]
Avanzo tra le persone con la forza.
Sbuffo ogni volta che devo convincere qualcuno a togliersi di mezzo, perché ogni maledetta spinta è un gesto che chiede una fatica immane, e qui nessuno ha voglia di muoversi al primo richiamo. È quasi peggio di quella volta che sono finita in acqua con gli abiti ancora addosso.
Sono costretta a fermarmi e riprendere fiato quanto più posso, ma quel che tiro dentro non è aria. O, almeno, non solo. L'odore pungente dei poveri pizzica le narici. E sebbene io sappia che non ci sia colpa in chi poco può permettersi, non riesco a comandare i muscoli del volto rattrappiti dalla sorpresa e dalla nausea.
Tutt'intorno mi circonda una massa fatta di volti arrossati, gente vestita alla bene e meglio, che biascica ogni genere di cattiveria. Denti gialli e sporchi che sputano veleno e ignoranza facendo pure un gran chiasso. Occhi carichi d'odio, per lo più gratuito e immotivato. Gente che si allieta che qualcosa di tremendo stia accadendo a qualcun altro. Temo di rimanere contagiata dalla loro stupidità, e dal fetore, se rimango qui ancora a lungo. Nemmeno mi accorgo di aver trattenuto il respiro. Forse sto davvero nuotando con i vestiti ancora addosso, ma questa volta non c'è mio padre pronto a tirarmi fuori. Non c'è nessuno.
Espiro, ma non è un sollievo quello che lascio, bensì uno sbuffo insofferente d'aria che si nebulizza. Serro le palpebre con tale forza che, se non faccio attenzione, finiranno per schiacciarmi gli occhi. Ma ne ho bisogno, perché devo pensare!
Vero è che non ho più persone su cui poter contare, ma c'è, invece, qualcuno che fa affidamento su di me. Che è qui per colpa mia. Non permetterò che gli facciano nulla, non adesso che posso evitarlo...
Sferro un pugno sul pettorale. L'imbottitura di cuoio attutisce il colpo, ma è la vibrazione che mi serve. La scossa, nient'altro che quella, per decidermi che non è il momento di arrendersi. Mi alzo in punta di piedi per raccapezzarmi su dove sono io e dov'è lui.
Eccolo lì. Mizar!
È più avanti, ancora troppo distante, circondato da questa marmaglia cenciosa. Vestito di stracci, al freddo, con le ginocchia a terra, nuda pelle su duro terreno, e catturato da un giro di funi che gli stringe il petto, poi la gola, prima di risalire attorno alle braccia costrette dietro la schiena. Il suo colorito è pallido. Violaceo. Non ho mai visto niente del genere. Perché lo stanno giudicando così?
Prima che mi abbassi, sorvolo con lo sguardo sui cinque cardinali Intonatori che, a passo cadenzato, escono dalla parrocchia che ho dirimpetto. Sono seguiti poi da uno stuolo di pretucoli più lacchè che uomini.
Sono costretta ad abbassarmi, ma ora posso fare mente locale: tutt'intorno è una bolgia, ma ho il beige spento del campanile che si innalza impettito nonostante le crepe nell'intonaco. Plumbeo è il cielo che si staglia poco oltre, sopra i tetti della città, laddove l'imbrunire è annunciato dalla pigrizia con cui il Dio Sole ha intrapreso la lenta discesa dal trono. Si godrà lo spettacolo in suo nome per poco, ma quel poco, per me, è più che abbastanza.
Con uno scatto, mi sorge repentino il dubbio: ho visto un patibolo o solo un soppalco con il leggio? Ah, dannazione! Perché non ho guardato meglio? Sbuffo e sferro un colpo di spalla al tizio che mi sta davanti. Questo si lamenta, s'incastra con forza in mezzo altri due, e mi lascia abbastanza per fare due passi in avanti. Il fetore di ascelle andate a male mi assale. Vorrei vomitare, ma non è qui il posto. Ingoio, tirando dritta, con l'aria ghiacciata che mi graffia il viso fin dietro le orecchie.
Una cosa è certa: gli Intonatori devono stare in alto, perché solo dall'alto che si può giudicare, e questa volta non si sono portati dietro soldati. Quelli, sono certa, li avrei notati subito. E allora penso che potrei anche sfoderare la spada, qui e ora. Potrei urlare. Chi accidenti potrebbe impedirmelo?
Sì, eccomi che grido, lama alla mano, semino il panico come un gatto fra i topi. Non devo far altro che avanzare, prendere Mizar... e poi?
Schiudo le labbra e le sfioro con le dita. Se anche riuscissi a prenderlo, a farmi strada, dov'è che andremo? Come farò a uscire dalla città? Sono una stupida. Non ci ho pensato! Che speravo di fare? Forse devo arrendermi...
«Che l'accusato parli ora o taccia per sempre!» è la voce un giudice a schiaffeggiarmi, che il freddo, fino a poco fa, ci ha provato senza troppa confidenza.
Un brivido. La condanna è iniziata e ormai non mi resta che guardare. Riprendo a farmi strada munita di spintoni.
«Dì qualcosa! Dannazione, non aspettano altro.» Giuro che se non apre bocca lui, urlo io.
La replica di Mizar non si fa attendere. «Desidero confessarmi».
Sì, bravo. Ripeti quel che vogliono sentirsi dire. Ti prego, guadagna tempo!
«Noi, per la misericordia di Dio nostro Sole e del Santo Coro, Cardinali Intonatori contro la cacofonica pravità» e anche se non li vedo, so che si sono fermati poco prima del leggio.
Hanno fatto la stessa cosa con mio padre, ma Mizar non ha una spada sul collo. Lui non rischia la pelle, almeno credo.
«Poiché sei da questo Santo Uffizio giudicato colpevole d'aver disseminato falsa dottrina, e di aver sostenuto o protetto i nemici del Coro, noi diciamo, pronunciamo e dichiariamo che tu, Mizar Bordonn, sei reso sospetto di aver condotto la Voce tua e quella di altri fuori dal Coro».
Quanto la fanno lunga! Con quel loro vociare, all'unisono, come fossero una persona sola. Vorrei strappargli quella maschera di porcellana e staccar loro la lingua dalla gola.
«Togliti di mezzo!» bercio e mi libero qualche metro con una poderosa manata in faccia a un'anzianotta troppo presa con la sua preghiera. Ma ora che sono abbastanza avanti posso vederli con più chiarezza: tre dei cinque giudici sono vicini al leggio e i restanti più in avanti sono quelli che proferiscono parola. Non si muovono né troppo e né troppo poco. Se ne stanno belli al caldo, in quelle vesti cremisi che paiono infiammarsi quando la luce del Dio Sole a malapena le sfiora. È il fuoco della fede arrivato a purificare i peccati dell'eretico, che egli lo sia o meno.
Ed è soltanto ora che noto un volto familiare: è padre Undine, il parroco che ha eseguito il Rito del Riposo su Claudiette. Perché si trova qui?
Il suono di un martello che batte sul legno raccoglie l'attenzione e il silenzio di tutti.
«Che l'accusato si sollevi e giuri di volersi pentire» tutti e cinque i giudici, con un cenno della mano, comandano.
Mizar esegue.
Stringo i muscoli delle braccia in pugni serrati fino al punto da farmi provare uno spasmo profondo.
«Desidero confessare i miei peccati, perché peccando ho offeso Dio, Luce nostra, e la Sposa, Melodia del Coro» se il freddo che mi attanaglia le vesti è lo stesso che prova lui, non oso immaginare come riesca a sopportare questo supplizio.
«Ebbene tu dalle accuse puoi essere assolto.» I santi giudici, protettoti della giusta Intonazione, alzano le mani al cielo. Indicano il Dio Sole, che pigramente fa capolino dalle gelide nubi. «Purché prima, con cuore sincero e sincera fede, davanti a noi tu abiuri, tu maledica, tu ripudi tali peccati.»
Ma quali peccati! Vorrei fare un balzo in avanti. Sono quasi sul punto di scoppiare. Il freddo è un ricordo lontano. Sento una vampa che risale dal petto e mi incendia le orecchie. Stringo i pugni con forza sufficiente a indolenzire i muscoli. L'ennesima volta che qualcuno soffre per causa mia. E Mizar è solo l'ultimo di una lunghissima fila. Chi ha avuto l'idea di venire a Ras Alhague? Io. Chi ha avuto l'idea di rivolgersi agli Ashvin? Sempre io! Chi sfascia le cose e aspetta che siano gli altri a cogliere i cocci? Maledetta, io.
Digrigno i denti. Mizar non avrebbe dovuto farmi scudo, è vero questo, ma se non fossi venuta in questo schifo di città tutto questo non sarebbe successo. Perché non ho dato ascolto a Meroll? Anche quella volta, con mio padre. Non le ho mai dato ascolto. Ha pagato anche lei lo starmi vicino.
L'etere è scosso allo schiocco di una frusta. No, è un flagello! «Che il Dio Sole splenda un raggio di Musica su di me!» Un altro colpo. Un altro gemito.
Basta, non così forte e non così a fondo! Che salverò io, se di lui non resta che carne e sangue?
«Allora ascolta bene, Mizar Bordonn». Le voci grevi dei giudici aumentano volume in un canto che si fa solenne tanto quanto profonde solo le flagellazioni, con un ritmo che incalza le prime e fomenta la folla. L'ode al Dio Sole che chiede di giungere a giudicare l'empio, ma non disdegna di farlo con il sangue. Perché al Dio Sole, per motivi che ignoro, il sangue piace davvero tanto.
E solo dopo, molto dopo, che il canto termina e i giudici riprendono: «Si penta ora il giudicato, affinché sentenza venga emessa!»
E di colpo un boato. Urla, grida, festeggiamenti, gente che salta, mi trascina da parte a parte, scossa da un giubilo che fatico a capire. Perché sono così felici? Cosa è stato sventato di così tremendo? Ed ora anche il vento si è fatto più forte. Il Dio Sole è ha compiuto la sua discesa e già si vedono gli altri dei del firmamento, che dalla Grande Orchestra ci osservano silenziosi. Sono certa che, da qualche parte, ora anche la Luna ci starà guardando. Sarà felice che un altro innocente è stato condannato in suo nome?
Una sequela di pensieri mi attanaglia. Non posso lasciare che Mizar subisca un simile torto, certo perché a causa mia. Eppure, che dovrei fare? Prelevarlo qui? Ora? In fondo, non ci sono soldati. Ci sono solo straccioni, mendicanti, poveracci, accattoni, e un manipolo di preti la cui unica difesa è pregare e sperare che Iddio se li prenda. Sono abbastanza vicina, già sfioro il pomello della spada.
«Io sono pronto» la voce di Mizar è quasi un sussurro, carico d'agonia. Ha la mano sinistra sul cuore. «Poiché al Coro appartiene il mio Canto e in esso desidero che rimanga.»
Sfoglio per un momento le abrasioni sanguinolente sulla sua schiena e non riesco a distogliere lo sguardo altrove.
Fasci di luce caleidoscopica discendono obliqui sul condannato ora che anche il Dio Sole deve emetter sentenza, seppur attraverso lo scettro del giudizio innalzato dagli Intonatori.
Deve trattarsi di qualcosa di abbacinante, dato che Mizar non può che calare lo sguardo.
«Leggi qui,» lo rabbonisce il sacerdote posto a sua difesa, «e in ginocchio!»
Ma non era finita? Non ha ammesso le sue colpe? Lo avete già condannato, che altro deve fare ancora? Maledizione! Perché sono qui ferma a non fare un cazzo?
Giro gli occhi su Mizar. Tiene la mano destra sulla copertina rigida e la sinistra a reggere il tomo.
«Io Mizar, figlio di Mitsar Bordonn, inginocchiato davanti a voi eminenti Cardinali Intonatori,» parla a voce alta, ma il dolore è scandito bene da brevi pause, «con la mano destra sul Sacro Spartito, in umiltà giuro che nel passato ho sempre creduto, come da sempre credo, in tutto quello che predica e insegna il Coro.»
*
Post Scriptum:
L'intera scena di Mizar che viene giudicato dall'inquisizione è spirata alla condanna promossa contro Galileo e i dialoghi sono presi dal film Galileo di Liliana Cavani, del 1968.
La scena a cui ho fatto riferimento è su Youtube &ab_channel=AngeloMascherpa
Avevo inizialmente riportato il dialogo esattamente com'è nel video, perché anche esso è ispirato ai documenti relativi alla sentenza, ma successivamente ho cercato di snellire il dialogo, pur provando a mantenere il tono originale e la stessa impostazione.
Non so fino dove io ci sia riuscito, ma questa è una delle scene che amo di più del romanzo (povero Mizar però!).
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