CAPITOLO 1 [parte 2]

Avanzo all'esterno della taverna con le braccia incrociate e le dita strette attorno alla cappa. La tengo ben sopra le spalle, dopo aver alzato il cappuccio sui capelli scuri. Il mio taglio è corto, quel tanto che basta per rendere il gesto veloce e semplice.

Due gradini e sono già in strada. Come mi mancano i lunghi viottoli in pietra che discendono adagio sul fianco delle colline. Alcune case, qui, non hanno nemmeno gli infissi. Il Pianto Lunare, col freddo e la neve, entra ed esce dagli edifici con estrema facilità. Pure troppa.

Faccio cenno alle mie Sorelle di seguirmi. Siamo tutte incappucciate. I Principi ci hanno invitato a scegliere il grigio: il colore degli appestati e dei figli di Tzaarat.

Che ironia. «Se solo sapessero!» ma tengo per me quelle parole.

Avanzo lungo dei gradoni malmessi di un viottolo che pare sia stato ideato per essere fallace. Di tanto in tanto, pali di legno spingono le pareti delle case a più piani, laddove i segni dell'incuria e del degrado hanno aperto vistose crepe nella muratura. Incuranti del pericolo, o forse incapaci di evitarlo, figure dimenticabili mendicano pietà a chiunque passi sotto quelle strutture fatiscenti. Uno mi afferra una gamba.

«Signore, abbiate pietà! Una Raggio di bronzo è tutto ciò che chiedo!»

Forse non può vedere oltre il mio cappuccio. No, ora che lo guardo meglio, non può a prescindere: l'uomo è cieco. Intrufolo una mano sotto la cappa. A tentoni cerco il borsello. Non so quante monete mi siano rimaste, né quante me ne serviranno per assoldare i Principi, ma una in meno non mi creerà problemi.

Afferro dei Raggio di bronzo e gli porgo due pezzi senza dire una parola.
L'uomo afferra le monete. Le morde. Realizza cosa ha ottenuto e scoppia in lacrime. «Che la Sposa del divino Sole vi benedica.» Mugugna prostrandosi.

«Quale, quella che chi ha abbandonati?» come vorrei poterlo dire. Ma devo fare attenzione: non sono più alla corte di Nashira. Qui mezza parola è mezza parola di troppo. Specialmente sulla Sposa. Ingoio le mie e proseguo.

«Meroll» esordisco. Sento qualcosa che mi ribolle dentro, ma non so dove inizia la rabbia e dove finisce il disgusto.

«Sì?»

«Tu pensi ancora che questo posto meriti di essere salvato?»

Meroll è alle mie spalle, ma non ho bisogno di guardarla per sapere che faccia sta facendo: avrà sicuramente sollevato un sopracciglio, con le labbra schiuse a malapena. «Non penso che distruggere la città sia una buona soluzione. Tuo padre...»

«No» la interrompo. «Mio padre aveva le sue idee. Per quanto mi dispiaccia, non sono però le mie. Questo posto è marcio.»

Mentre cammino, mi torna a mente la tradizione. Su questa collina, l'ultima delle Spose giunte a noi ha guarito un pover'uomo dalla sua malattia. Ha sanato il male. E guardalo ora, come prolifera. Il Colle dei Mendicanti, povero era e povero è rimasto. Così come tutta Ras Alhague.

«Un arto in cancrena si amputa» ma la mia voce è troppo bassa per raggiungere chicchessia. Sì, Ras Alhague è malata. Lo è da quando la conosco. E il suo malessere ha un nome: è Salah Yusuf, il Sovrano di Gennaio. Lui e la sua progenie appestano il regno tutto.

Un urto mi scuote. Non cado a terra soltanto perché Meroll mi afferra per un braccio. Lancio un lamento. La testa mi gira per un istante. Tutto è confuso. Soltanto quando riesco a riassestarmi noto un uomo a terra.

Rosanne, una delle mie Sorelle, si tende per aiutarlo, ma questo fa cenno per fermarla e si rialza da sé. «Perdonate la mia sbadataggine!»

Do una rapida occhiata ai suoi abiti. Ha i capelli scuri e riccioluti. Gli occhi stanchi e gravati come quelli degli studiosi. Eppure, così a vedersi, uno lo scambierebbe per un barbone.

«Se vi servisse aiuto, c'è una mensa non molto lontana da qui. In una piccola chiesa, per i poveri, i malati e gli orfanelli» tossisce, fa un inchino, e si allontana scusandosi ancora.

Resto immobile per un attimo. Poi realizzo che il travestimento funziona: deve averci prese per degli appestati.

Claudiette, la più giovane delle mie Sorelle, mi dà una pacca sulla spalla. «Non così marcia come dicevi, eh?»

Già. «Forse.» Mi scuoto dal mio torpore e riprendo a camminare.

Quando raggiungo la via principale scopro, mio malgrado, che non è poi così spaziosa come speravo. Più ci avviciniamo all'area del mercato e più mi sento stringere un nodo alla gola.

C'è un tanfo insopportabile. Se la neve può marcire come la carne delle carogne, allora è questo il lezzo che emana questa città. Alzo gli occhi al cielo. Il Dio Sole non si vede ancora. C'è sempre poco, quando l'Ode d'Argento inizia. Certo, è così ogni volta che viene la stagione fredda, ma di questi tempi è rara perfino una Nota senza nuvole.

«Come biasimarlo» e devo averlo detto a voce alta, perché Meroll mi è subito di fianco.

«C'è qualcosa che non va?»

Sospiro. «Non ho familiarità con questa zona.» Non amo che mi si veda in difficoltà.

«È lì che ci hanno dato appuntamento». Meroll solleva l'indice verso una statua. La si vede da ogni angolo del Colle: è una donna in preghiera, col velo sul capo. È la Sposa. Colei che doveva tornare per redimerci tutti. Lei che, a questo giro, non è apparsa come promesso. Dovevo proprio vivere nell'unico Spartito di tutta la storia scelto dalla Sposa per disertare i suoi fedeli?  Chissà se questo è un segno. Un modo per dirci che, adesso, siamo tutti senza speranza di salvezza.

«Vorrei che mi facessi strada» riprendo.

Meroll mi supera. Prendiamo il primo arco a vista. La parte del peristilio attorno al cortiletto interno è ricca di mercanzie e bancarelle. L'atmosfera è pregna di ogni tipo di odore: c'è bestiame, alimenti, artigianato e pure scarsa igiene personale. Sono però sorpresa: col favore delle tenebre, ora che i Patti Solari sono su di noi, il volto nero del mercato si mostra. E tra la merce, scorgo in gran numero quella umana.
Ovunque mi giro non vedo che gente muoversi in un oceano rutilante di colori e merci. E grida. Grida ovunque. Comprate! Pesce fresco. Salame, patate, cipolle, schiavi. Ma non giovani o giovinette: quello, il Coro, lo proibisce.
Avanzo a fatica. Mi ritrovo persone a ridosso. Spingono. Schiacciano. Non c'è ordine. Mi manca l'aria. Alzo lo sguardo in alto. Cerco Dio Sole e la sua luce. Trovo solo quella delle fiaccole e la maligna Luna. Tendaggi. Non vedo più nulla. Dov'è Meroll? Meroll! La mia voce sembra venire da un'altra parte. Per un momento perdo l'equilibrio.

Rosanne si china verso di me. «Tutto bene?» la sua mano sulla schiena ondeggia su e giù.

«Si» rispondo brusca. «Dobbiamo fingerci malati, no?» Dov'è Meroll? Perché non mi risponde?

Sbuca fuori dal nulla. «Mamma» sto per dirle, ma mi fermo in tempo. Ho la bocca spalancata. Rubo più aria di quanta i miei polmoni riescano a trattenere. Il freddo è già di casa nel mio naso intirizzito. Quanto odio i posti pieni di gente!

«Siamo quasi arrivate» Meroll mi afferra le mani e mi parla a voce bassa. Lei sa e mi sorride. È di un miele che nemmeno le api conoscono. Ed è solo mio.

Digrigno i denti. «Non perdiamo tempo allora.» Voglio andarmene, ma devo resistere. Tiro dentro l'aria e la tengo per me.

Meroll mi è davanti. Questa volta le resto vicino. Lo sono così tanto che potrei sbatterle contro, semmai dovesse fermarsi. Le tengo la mano, ma la nascondo perché le altre non vedano.

Avanziamo in silenzio tra la folla. Le sfioro i polpastrelli. Sono ruvidi anche se coperti dai guanti. Sento i calli. Lì ha da sempre. Seppur li abbiamo tutte noi Sorelle, i suoi sono diversi. Sono più vecchi. E io conosco quei calli da prima che entrassimo nella congrega. Vedo in essi quella parte della sua vita di madre e moglie, prima che di Sorella di Spada. Una vita di cui, però, non parla quasi mai.

Chiudo gli occhi e, per un lungo momento, io e Meroll saliamo su una collina. Lei è alta e robusta come un albero e io sono esile e fragile come un giunco. L'aria è fresca. Il vento mi sfiora i capelli. Ho gli occhi chiusi. Le valli sono in fiore e il cielo non è mai stato più azzurro. C'è una chiesa bianca incastonata sull'orizzonte a pochi metri da noi. Sullo sfondo, le tende dell'accampamento.

Sento il bisogno di abbracciarla, ma mi trattengo. Non sono una mocciosa. Almeno non quella che entrò piangendo nella congrega.

Le ombre delle colonne stanno oblique sul pavimento, laddove il caravanserraglio ospita carri e bestiami. La neve del Pianto Lunare che entra a ondate, da fuori e da sopra.

«Siamo arrivate» annuncia Meroll.

Mi ci vuole un bel po' di forza muscolare per non fracassarmi addosso a lei. «Rosanne, Claudiette» esordisco, dopo aver sistemato la voce a suon di tosse. «Vi voglio di guardia all'esterno. Tenete gli occhi aperti.»

Le due Sorelle non fiatano. Con un cenno del capo lasciano me e Meroll da sole.

Tolgo il cappuccio. Sistemo il viso con un paio di colpetti sulle guance. Avanzo tra tendaggi bluastri ricamati con motivi floreali che stanno sospesi tra colonne. Dall'altra parte c'è un cerchio di persone sedute intorno a un fuoco. Una donna in abiti succinti che danza. Il vino scorre a fiumi. La musica alta. Tutto si ferma appena entro.

Dei presenti, il primo ad accogliermi è un uomo di mezz'età. Non è molto alto e il viso lascia immaginare quella sua giovinezza ormai perduta.

Le sue rughe si distendono in un sorriso. «Benvenute nella nostra umile dimora» dice. Impreziosisce le sue parole con finta cortesia.

Faccio un passo avanti. «Il piacere è mio. Sono contenta abbiate accettato il mio invito». Mi fermo e resto in piedi.

Sforzo la mia voce in un tono ruvido e la modulo per sembrare un uomo. Sono brava a farlo, anche se Claudiette ripete sempre che alcuni maschi sarebbero comunque disposti a portarmi a letto anche se avessi l'alza bandiera. Sento un sorriso nascere e lo uccido subito. Folgoro i presenti con lo sguardo in cagnesco migliore del mio repertorio. Non conosco i Principi Mendicanti. Né so che faccia abbiano. Però, ora che sono qui, so devo ottenere di più che la loro presenza: devo guadagnarmi il loro rispetto. Prima come guerriera e, forse, se sono fortunata, anche come donna.

«Le vostre gesta vi precedono» ribatte lo sconosciuto. Sono abbastanza sicura che sia lui. Un Ashvin. Uno dei Principi.

Eseguo un breve inchino. «Mi fate troppo onore. Non sono che un umile ospite» e sollevo il capo subito dopo. Ho i capelli corti e so che il mio viso non è quello piacente di una fanciulla in età da marito. E ciò non gioca a mio favore. Tuttavia, una volta che mi considereranno almeno alla loro stregua, dovrò solo pensare anche a come convincerli ad unirsi alla mia causa. Se me la gioco bene...

L'uomo fa cenno a me e Meroll di sedere. «Posso solo immaginare cosa vi abbia spinte a fingervi ciò che non siete, miss Mithra. Però sappiate che, qui, non c'è differenza fra uomo o donna: alla mia corte, contano solo i soldi e gli affari.»

Resto per un attimo imbambolata. Sono certa che le mie sopracciglia, a furia di alzarsi, sono ora dietro la mia nuca. Non è certo difficile immaginare che io sia una donna, ma è raro che una Sorella di Spada venga trattata come tale. Come diceva la Madre Superiora, le Sorelle sono maschi mancati e nient'altro.

Mi ci vuole una gran dose di forza per scuotermi. «In questo caso, allora permettetemi di presentarmi come si deve» riprendo con voce chiara e decisa. «Io sono Mithra, Comandante delle Bande Nere, e, come molti di voi già sapranno, sono anche a capo delle forze ribelli che si oppongono al Sovrano di Gennaio.» Sposto gli occhi su tutti i presenti. Li fulmino. Devo intimorirli. Se le mie gesta davvero mi precedono, allora sanno bene di cosa sono capace. Ma qualsiasi timore o riverenza io debba suscitare in loro, devo far emergere tre volte tanto quella sensazione che si ha dal cogliere un'occasione unica.
Afferro il borsello, lo sollevo e lo dondolo a mezzaria. Meroll fra altrettanto, rivelandone altri due.

Faccio tintinnare le monete il più che posso e riprendo: «Ma non sono qui per vantarmi, ma piuttosto per comprare i vostri servizi.»

L'uomo, il Principe, soppesa le mie parole. Gratta la barba scura. «E in cosa possiamo esservi utile, di grazia?»

«Voglio la testa del Principe di Gennaio, Sheikh Yusuf.»

*

Post Scriptum:

Inizialmente, la Sposa del Sole aveva 24 capitoli. Si, se sei arrivat* fin qui, lo saprai già.
Ma a furia di scrivere e cambiare/migliorare stile, ho realizzato che la vecchia storia era... beh, vecchia. Apparteneva a uno stile e a un mio modo di scrivere che non mi rappresentava più.

Da qui è nato il motivo per cui la storia è stata riscritta e corretta, almeno a livello contenutistico. Ma, data la mia passione per le parole vetuste, quasi certamente mi vedrai usarne qualcuna qui o lì.

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