Gli occhi di un'assassino

INTRODUZIONE:

All'alba di questa storia, i salici erano piccoli piccoli e le rose non avevano ancora ricoperto le ossa di pietra del Giardino secolare di Pescarenico, nella culla piena di grazia del Cielo, più minuscole di due semi in quiescenza. Il Giardino esisteva fin da allora, prima che la giovane Elisa si gonfiasse nel ventre della madre, con le radichette allungate e i fusticini cresciuti, attirati dalla luce; già pienamente verde e rigoglioso, il giardino aveva anticipato di generazioni i loro primi, teneri accenni di foglie. Pur anziano, nell'aspetto era un eterno bambino, in costante divenire, nutrito dalle calde mani del sole e allattato con le piogge più fresche – non aveva smesso di crescere: come lunghi capelli di donna, di tanto in tanto appena spuntati, ma mai realmente domati. Nell'ora delle rose selvatiche e delle campanelle la giovane fece capolino nel verde in forma di gemma minuta, capelli bianchi, soffici e gentili cullati dalla sua malattia, con le ginocchia nude sotto gli orli di sottane sporche, in una soffice giunchiglia di giovinezza. Piedi candidi presero a calpestare al ritmo degli usignoli il suo selciato e virgulte, curiose mani a pizzicare ora un fiore, ora un ramoscello indifeso – il Giardino ricambiava quei dispetti molesti, graffiando le guance con le frasche, tirando i capelli infiocchettati, pungendo le dita con le dure spine delle sue figlie più belle. La giovane Elisa svolazzava qua e là, nella sua stagione più bella, perché le perfette promesse di felicità le avevano piantato sulle spalle nude incostanti e meravigliose ali di farfalla. Teneva stretto fra le mani un quaderno di appunti e sogni, passando con gli occhi da una pagina all'altra senza distogliere minimamente lo sguardo da quei racconti , l'amore, diceva l'eroe, vince l'inverno e porta la vita nelle forme, vince cioè la morte – è principio esistenziale, è il profumato vento di maggio che non fa rumore. Era una ragazza minuta e fragile, dalle corolle rosee e dai capelli color dell'inverno appena colto, ingarbuliati in preziosi riccioli di miele,illuminati dalla calda e accogliente luce vergine. I suoi occhi erano splendenti come campanelle dell'Eden, la sua pelle di latte appena munto dalla vacca più giovane illuminava le due perle verdi che le destavano il viso... Alcuni servi la chiamavano anche la bella Afrodite, per colpa del suo corpo piccolo e seducente da dea greca durante le lunghe ore di servizio al padrone... Dove le grandi mura di pietra erano intente a giudicare nel bene e nel male ogni notte, assorbendo la paura delle stelle. Quel pomeriggio era bramoso,di un tramonto fresco e accogliente, che spia dagli anfratti più segreti e infila le dita dorate nelle pieghe delle sue divinità greche, nude senza vergogna, negli incavi delle cosce, dei piedi sottili della donzella che, con la fatica nel corpo, ritornava nelle sue camere al piano più basso... per riposare. Ogni tanto portava con grazia una ciocca di capelli dietro il suo morbido orecchio, in modo da illuminare il cammino che tanto la spaventava in quella folle fortezza. La sua storia è ignota, come la magia che provocano i suoi occhi da bambina... bagnati dall'ubriaca pioggia d'inverno, che eccitava i servi nelle sue piccole sfaccettature... al pensiero del suo corpo formoso, che farebbe impazzire i santi del Paradiso...


Miq madre mi chiamava Elisa. Un nome comune. Da piccola però credevo di chiamarmi "Tu".
Nessuno usava il mio nome per chiamarmi, gridava solamente "Ehi, tu! Vieni qui!". Ma presto, troppo presto, col passare degli anni, diventai vecchia...una serva comune, una come tante. In realtà credo di essere sempre stata vecchia. Dentro. Anche fuori. Si, sono una serva. So solo che il mio Padrone è il più potente uomo del mondo, il più forte, il più ricco, il più influente... Io sono sempre stata sola.   Mio padre era un pover'uomo , anche lui un misero servo; ma tutto questo lo so solo dalle parole che disse il prete, al funerale che avvenne quando avevo 6 anni. Mia madre era già in cielo, ad aspettarlo.Sono cresciuta qui, nei sotterranei del castello, tra fredde rocce ricoperte di muschio, cunicoli stretti che portano a lunghi corridoi lastricati, illuminati da torce che lanciano minacciose ombre sulla parete. Da piccola ero terrorizzata quando una delle cameriere mi chiamava con sgarbo...e mi comunicava un dovere da compiere, al piano di sopra, per il vecchio Padrone, all' epoca era il Signor Padre del mio Padrone di ora. Oh, ricordo ancora quegli istanti... Tremando e cercando di tenere gli occhi più chiusi possibile mi avviavo su per la scala a chiocciola che portava ai piani superiori, i piani solo per Lui, e per farmi coraggio mi immaginavo che quegli scalini portassero a una stanza dove giaceva una bellissima principessa, bella come la mia mamma, che mi avrebbe abbracciato stretta e riaccompagnato nei sotterranei. Ma in realtà non ho mai sognato molto: a che scopo poi?

Intorno a me ho sempre visto solo persone obbligate a compiere un dovere, che una volta portato a termine si trasformava in un altro dovere, come un mostro a mille teste che più decapiti più forte e numeroso ricresce; non c'era tempo per giocare, o per parlare, o scambiarsi carezze.  C'era solo Lui;  Il giorno del mio decimo compleanno non riuscii a dormire per tutta la notte: dai piani del Padrone giungevano urla, musiche, rumori di piedi che danzano pesantemente, risate e cori :"Viva! Viva il giovane erede! Viva!", battute, scherzi...e via dicendo. Il giorno dopo le mansioni raddoppiarono: la cosa bizzarra è che io mai vidi il piccolo bambino che tanto causava scompiglio nelle nostre cucine e lavanderie, e in realtà non mi interrogai mai riguardo a che genere di potere causasse la ricchezza in cui vivevano i padroni.  Non mi interessava, credo. Infine cosa cambiava per me, il perché lavorassi? Avrei lavorato comunque, no? Quando compii 15 anni il maggiordomo del Padrone, che aveva proprio quell'anno sostituito il padre nella gestione del maniero, chiese la mia mano; non sapevo nulla di queste cose, io. Non avevo mai guardato un altro uomo provando il desiderio di essere da lui baciata, o toccata, o anche solo guardata a mia volta; ma il pensiero che qualcuno avrebbe potuto desiderare di vedermi, desiderare di tornare nella propria residenza e trovare me, sì! Proprio me!, ad attenderlo, mi riempì il cuore, e così accettai. Non era un uomo cattivo; vivemmo insieme per 6 mesi, e in questi 6 mesi tuttavia mai mi parlò, mai mi guardò con uno sguardo che celasse qualcosa di più di mero disinteresse. A malapena mi toccava, se non per consumare il matrimonio.                               Fu una delusione, lo ammetto; ma era pur sempre qualcuno, giusto? Era pur sempre qualcuno che badava a me, che portava il cibo anche per me, che mi permetteva di dormire in una camera diversa da quelle del sotterraneo. Cominciò a non importarmi se non mi degnava di uno sguardo o non si confidava con me, anzi, lo capivo: lo specchio in cui sbirciavo la mia figura, passando nei corridoi scopando il pavimento, rifletteva una donna scialba, insignificante, capelli flosci, bianchi, una pelle pallida, due occhi di un verde perso. Poi mio marito venne chiamato a un compito speciale dal mio Padrone; quel mattino uscì dalla porta, sempre nel silenzio, e non tornò più. Il Padrone non mi diede la notizia in persona. Una giovane serva venne a dirmi, con un' aria tra l'annoiato e sforzo a sembrare contrita, che era stato ucciso da uomini che non conoscevo, nel nome di una persona che non conoscevo, e mandato da una persona che servivo, ma non conoscevo. Non piansi. Mi fu concesso di rimanere in quelle stanze; al funerale non c'era il Padrone. Tuttavia qualcosa mi legò a lui quel giorno: venni a sapere dai pettegolezzi delle sguattere che mandò parecchi uomini a vendicare mio marito; vennero uccise 24 persone in cambio. Dapprima rimasi inorridita: era questo il potere del mio Padrone, del Padrone diciassettenne che ancora non avevo mai visto? Una feroce vendetta per qualcuno che a malapena conosceva, che era un semplice servo, tanti meritavano la morte per questo? Ma fu un pensiero che mi passò la mente per poco: un solo concetto lo rimpiazzò. Il mio Padrone era forte: poteva fare del bene e del male insieme, poteva proteggermi. E in quel momento decisi che l'avrei servito per sempre, che mi piacesse o no. Cominciai a rinchiudermi nelle mie stanze per quanto più tempo possibile; non vedevo più nemmeno le altre serve, o servi. Mi venivano affidate mansioni di ogni tipo; rattoppare, cucinare, medicare, riordinare, pulire; venivo a contatto con persone orribili, che mi ripugnavano, ma che servivo, perché aiutavano il Padrone a esercitare il suo potere. Non lo vedevo ancora, lui. Il Padrone. Cenava da solo, nelle sue stanze, il cibo lo si lasciava fuori dalla porta. Non passeggiava nel maniero. Usciva di rado, credo solo per dovere, e di certo io non lo seguivo. Col tempo diventai pigra, sempre più pigra; stanca, acida, ecco come mi sentivo. Vecchia. Avevo 37 anni, e me ne sentivo mille. Non avevo uno scopo, eseguivo gli ordini perché dovevo, perché venivo sfamata, anche se male, e avevo una casa, anche se fredda e buia; e deserta. E sono arrivata fino ad oggi. Così, in questo modo. Senza sogni, senza voglia, senza vita. Vengo chiamata a portare del vino, hanno finito di cenare. Brontolando e mugugnando fra me e me mi avvio come al solito, curva e lenta, con un vassoio tra le mani, nella sala del maniero, dove di solito avvengono le riunioni serali. Entro; nessuno si accorge di me, come al solito, e continuano a berciare e sghignazzare fra di loro, accettando con un gesto brusco il bicchiere di vino dal vassoio.                     

E stasera, lui è lì.                                                                                                                                                               Il Padrone                                                                                                                                                                         

E' sceso per cenare con i suoi compagni, perché quel giorno hanno portato a termine una sanguinosa e valorosa missione, come sento sghignazzare da una di quelle bestie. Sta vicino alla finestra. Ha capelli molto ricci, neri, ed è alto; sembra più vecchio dei suoi 25 anni. Indossa una camicia bianca, e dei calzoni verde scuro; sta alla finestra, guardando fuori la sera incombere come una mano gelida sulla nostra casa, una mano appoggiata al fianco, l'altro braccio piegato a sorreggere la fronte, appoggiato al bordo alto della finestra. Mi avvicino a lui titubante senza sapere bene come comportarmi: devo trattarlo come gli altri, senza una parola, senza un gesto, o dire qualcosa, non so, "Ecco, Padrone"?  Quando arrivo al suo fianco lui non si è ancora girato. Provo il desiderio di andare via. Ma rimango lì a spostare il peso da una gamba all'altra, fino a che non raccolgo tutte le forze e con voce roca, disabituata a parlare, mormoro solo "Desidera del vino..?" Il Padrone si gira verso di me di scatto, come se non si aspettasse di vedere altre persone oltre a lui in quella stanza; fissa il vassoio, poi fissa la massa berciante alle sue spalle, e credo di scorgere un lampo di irritazione in quello sguardo; ma poi mi fissa gli occhi in volto, due occhi grigi scuro, grigi come le nuvole un momento prima di gettare pioggia forte sulle finestre e sul terreno molle, grigi come il fumo che esce dalle pistole quando sparano proiettili acuminati e assassini, grigi come la tristezza che ti avvolge nelle notti in cui una donna di 37 anni si chiede se c'è qualcos'altro, oltre a tutto questo, nel mondo, se ci può essere un motivo, se ci può essere qualcuno oltre a chi conosce. Così questi sono gli occhi del Padrone. Riporta gli occhi sul vassoio e prende un bicchiere di vino con lentezza; si gira di nuovo verso la finestra e, avvicinando il bicchiere alle labbra, bisbiglia stancamente : "...Grazie"                        Il vassoio mi scivola di mano. Tutti gli sguardi della stanza si puntano su di me, derisori e annebbiati dall'alcool, e si alza un coro di "Fai attenzione, cagna!" e risate. Ma solo lo sguardo del Padrone mi colpisce davvero, quando si gira stupito dal fatto che io sono ancora lì a fissarlo, stupito forse dal fatto che io produco suoni. La parola grazie non l'avevo mai sentita. Mai in tutta la mia vita. Credevo fosse uno stupido termine privo di senso che si usava per sbarazzarsi di qualcuno che faceva qualcosa per qualcun' altro. Invece è molto di più. Sono 6 lettere di riconoscimento, di aver compiuto un atto gradito, di, di.. di gioia, di voglia di rifarlo, di voglia di risentirlo di nuovo detto dal mio Padrone!

Non ricordo con precisione come sono arrivata qui. So che sono chiusa nella mia stanza ora, e piango per un sentimento che non conosco, che sta lacerando il mio cuore e lo sta facendo a pezzettini per crearne uno nuovo, più forte, più giovane: provo la più sincera e forte gratitudine....

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top