97. Operazione a cuore aperto
Gli ultimi giorni si trascinavano ad un ritmo sempre più lento sotto il cielo azzurro estivo che sovrastava il Campo. Le risate si erano fatte sempre più frequenti, anche se Jasper non avrebbe saputo dire quando fossero tornati a sorridere, esattamente. Gli era sfuggito, concentrato com'era su altre cose. Il caldo e il tranquillo via vai per il campo erano tornati alla normalità anche se gli sguardi ci avrebbero messo più tempo a guarire dal vizio di osservare lo stendardo nero che copriva la civetta della casa di Atena. Forse non sarebbe mai passato nemmeno a lui, o forse stavano fingendo tutti e la sera, esattamente come lui, sentivano l'angoscia montare dentro come un uragano e piangevano fino ad addormentarsi. Però loro, al contrario suo, sembravano venire a capo delle questioni. Come tutti i semidei sono sempre tanto abituati a fare, stavano combattendo contro il loro demone comune e contro i propri piccoli demoni personali. Erano cambiati tutti e nonostante quello che gli ripeteva Jazlynn in continuazione, non riusciva a convincersi che tutto fosse accaduto con uno scopo.
La visita agli dei lo aveva lasciato di pessimo umore per giorni interi ma poi anche lui, come senza accorgersene, dopo il funerale di Brice, aveva sentito il film della vita riprendere un po' a scossoni. Le lezioni erano riprese per i poche che sentivano la chiamata della conoscenza come un'ottima alternativa alla nullafacenza, e anche gli allenamenti con la risorta Miss Cadmy erano rientrati tra le proposte. Nulla di obbligatorio come prima, le direttrici si erano ben accorte che qualcuno avrebbe avuto bisogno di più tempo degli altri. La sera prima il figli di Ade si era fatto coraggio e nonostante i raggi di sole ancora bollenti, era andato alla casa grande per cercare la volpe. Le aveva rivolto una semplice domanda di cui già sapeva la risposta, ma che si era sentito in obbligo di fare per togliersi il tarlo dal cervello: se lei era tornata, perchè Brice non poteva?
La volpe si era seduta sulla scrivania, intrecciando le mani in grembo. Con calma e scegliendo le parole con le pinze aveva parlato di come i mostri fossero fatti di una materia ben diverso rispetto agli esseri umani.
"Gli esseri umani sono fatti di qualcosa di raro e irripetibile, al contrario di noi mostri. Voi siete di terracotta, noi di lego. Noi possiamo ricomporci, voi, una volta che siete spezzati, non si può più, mi dispiace. Immagino sapessi già la risposta".
La libertà vigilata vigeva ancora, de iure, ma de facto erano rari i momenti in cui fosse davvero accompagnato. Jack aveva dormito con lui nella undici la prima sera, poi non ne aveva più voluto sapere. L'aveva definita fredda e spettrale. Jasper aveva proposto di dargli una medaglia per l'arguta osservazione e da allora nessuno l'aveva più tenuto d'occhio di notte. Non che ci fosse molto da fare: dormire non era così male, gli dava spazio per lasciar perdere i pensieri che gli rodevano la testa ogni singolo secondo, come invece succedeva da sveglio. Continuava a pensare se fosse possibile andare nell'aldilà senza morire. Se fosse possibile chiamare le cose dall'aldilà senza fare disastri.
Era il figlio di Ade, maledizione! Era suo campo, suo compito, suo dovere fare qualcosa. Andare là, prendere Fabrice, dirgli che gli dispiaceva e poi finalmente lasciare che la pace regnasse per entrambi. Non era una cosa difficile. Idealmente nemmeno la più difficile che aveva fatto da quando aveva scoperto di essere un semidio. E se esserlo significava soffrire così tanto senza ricevere nulla in cambio, avrebbe fatto più in fretta a raggiungere definitivamente Fabrice e chiedere ospitalità al castello di suo padre. Gli era sembrato un tipo giusto, l'unico senza smanie immense di potenza e con una vaga idea di cosa volesse dire morire, non per esperienza diretta ma per lo meno indiretta. Aveva passato i mesi ad odiarlo, ma ora che ci pensava, aveva visto tutti i suoi amici avere motivi decisamente migliori per odiare i loro. Si chiese come i figli di Ares potessero tollerare quel mostro come padre, o come Gabriel si fosse sentito ad essere definito solamente qualcosa di necessario.
"Jas?".
L'aveva sentita passare ma evidentemente Jazlynn era tornata indietro vedendolo seduto sotto uno degli alberi attorno all'armeria.
"Ciao Jazz," la salutò schermandosi dal sole con una mano, per poter distinguere più di un'ombra ad alto contrasto "finito l'allenamento?"
La ragazza piegò le lunghe gambe per sedersi accanto a lui. "Sì, è bello tornare a fare un po' di moto. Dovresti venire anche tu, per sfogarti".
"Nah, è bello stare qui..."
"Jasper non puoi passare un mese a fare assolutamente niente".
Il tono affilato della sua voce lo ferì. Sapeva a cosa si stava riferendo.
"Non ti fa nemmeno bene stare così tanto da solo".
"E tu cosa ne sai? Mai ucciso qualcuno?".
"E tu cosa ne sai? Non ti sei mai nemmeno disturbato di chiedere".
Si fissarono per svariati secondi, masticando le proprie rispostacce acide e piene di cattiveria, senza proferirle.
"Okay, ora che qualcuno è stato più acido di me, vuoi venire con me a fare un po' di arrampicata?".
"No... nel senso. Non oggi. Seriamente, ho visto tutti quelli della casa di Atena andare alla parete. Non me la sento".
"Non è di loro che dovresti avere così tanta paura. Sei andato a parlare con Shoshanah?".
"L'ho vista solo al funerale, e non mi sembrava in buona".
"Jasper era il cazzo di funerale del suo migliore amico, della sua famiglia. Cosa pretendi? Che ti accolga con tè e biscotti?".
Passarono altri secondi.
"Perché le nostre conversazioni devono sempre essere così una merda, Jazz?"
"Perché gli amici servono a tirare fuori il peggio, così che gli altri possano vedere il meglio".
"È assurdo quanto peggio mi abbia tirato fuori Fabrice".
"Era proprio quello che intendevo. È vero che sei colpevole, Jas, nessuno di noi ci può fare niente. Ed è davvero, e dico davvero, ammirevole quello che stai facendo cercando di prendere tutta la responsabilità sulla morta di Fabrice. Ma non è così che funziona, credimi. Più ti chiuderai nella tua torre d'avorio, peggio starai. E sarà una merda".
Le parole gli giunsero alle orecchie inaspettate e dure come il cemento, ma anche quasi agognate, come se avesse avuto per tutto questo tipo il bisogno di essere riconosciuto colpevole, per la stesso atavico motivo per cui sentiva la necessità di essere perdonato.
"Hai pianto, hai riflettuto su tutto ciò che ti ha portato a quel gesto. Hai fatto qualcosa di orrendo, ma niente è imperdonabile, soprattutto a chi conosce tutta la verità".
"Il fatto che gli dei mi hanno costretto?"
"No. Il fatto che l'hai ucciso davvero perché in quel momento volevi farlo. Ed è una cosa orribile".
"Dovrebbe essere in qualche modo consolatorio?".
"Lo diventerà più ci pensi. Tollero l'idea di essere figlia del dio della guerra, tollero il sentire la necessità di uccidere. Tu puoi tollerare parte del tuo fardello allora".
"Tu senti la necessità di uccidere?" chiese incredulo Jasper alzando anche un sopracciglio.
"Allora sai come fare delle domande! - finse di stupirsi la ragazza per poi continuare a parlare - Durante la battaglia gli spiriti della guerra si sono un po' divertiti con i figli di Ares. Mi hanno colta impreparata e ti giuro che non ho mai sentito così tanto il desiderio di fracassare il cranio a qualcuno, o di passarlo da parte a parte. Quindi sì, Jasper, capisco perfettamente cosa intendi con 'voglia di uccidere'".
"Non me ne ero accorto... mi dispiace".
"Non dispiacerti, stai più attento agli altri piuttosto" ribadì pur sorridendo. "E ora vuoi davvero perderti l'occasione di venire a fare un po' di moto?".
"Vado a prendere le ginocchiere in casa e arrivo".
Mentre correva verso la cabina undici notò che c'era qualcosa che non andava. Sottile fumo grigiastro scivolava pigro fuori dalle finestre e dalla porta, dando come l'impressione che la struttura stesse andando a fuoco. Non c'era nessuno nei paraggi. Immediatamente si mise a correre, dimenticandosi per un attimo dello scopo primario che l'aveva portato lì (le ginocchiere). Dimenticò tutto quando aprendo la porta vide l'altare in fondo alla struttura circondato dalla strana luce verde delle torce, vivida come non mai, e sull'altare un pacchetto scuro dal quale pendeva un bigliettino scritto in elegante calligrafia.
"Per Jasper, da papà"
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