96. Il fuoco estinto
La pira era stata preparata con rigore, dedizione e lacrime. Un piccolo gruppo di volontari, provenienti da ogni cabina, aveva trascorso la mattina e quasi tutto il pomeriggio del giorno seguente a raccogliere legna, piante aromatiche e fiori per poi accatastarli in strati sotto la lunga e liscia tavola su cui il corpo di Fabrice avrebbe riposato, mentre tutti i suoi fratelli avevano impiegato il proprio tempo per ricamare il suo sudario.
Sia si era proposta come volontaria ancora prima che Sue facesse l'annuncio davanti a tutti, nella mensa. Fabrice era stato un suo buon amico. In realtà uno dei migliori. Le aveva fatto forza quando necessario, a modo suo, come sempre. Le aveva insegnato a giocare a Mythomagic e poi l'aveva lasciata vincere innumerevoli volte. Aveva distratto Callan quando era sul punto di ridurla in lacrime e spesso aveva rubato una fragola per lei dopo averla vista triste.
Brice si era preso cura di lei e l'unica cosa che Sia poteva fare ora era rendergli grazie come si fa con gli eroi caduti in battaglia. Per questo non aveva versato nemmeno una lacrima quando si era scorticata una gamba nel tentativo di raggiungere una pianta di menta cresciuta nell'ombra del bosco profondo o quando era rovinata in mezzo alle ortiche per afferrare il ramo perfetto. Non era tempo per pensare alle proprie ferite, di nessun tipo. Lo squarcio che le si era aperto nel petto nel momento in cui il grande mostro nero della solitudine l'aveva stretta al suo corpo peloso e oscuro come la notte non si era chiuso e uno stillicidio color amaranto si protraeva ormai da giorni, ininterrotto.
C'era stato un momento in cui il rivoletto di dolore si era prosciugato, ma non era durato più del tempo che necessita alla paglia secca di essere consumata dal fuoco.
Fuoco.
Sia non riusciva proprio a toglierselo dalla testa. Aveva costruito la pira con i suoi silenziosi compagni e la sua mente aveva continuato a correre avanti e indietro tra due antipodi: Brice e il fuoco, il fuoco e Brice.
Brice che sarebbe stato consumato dal fuoco. Il fuoco che aveva consumato anche l'effige di sua madre. Il fuoco che le era stato donato da suo padre. Il fuoco che si era ripreso subito dopo aver sorriso loro sull'Olimpo, seduto sul suo trono, unico dio felice di rivedere la propria progenie.
Fuoco.
La sera giunse e un arazzo di stelle si stese pigramente sulle spalle del sole calante, un nobile mantello di velluto profumato d'estate, di erba tagliata e frutta matura, odore di brezza marina e tangibile calore, così diverso dai bollori dei tropici, dei loro tristi tropici, in cui l'aria era solida e respirare equivaleva ad affogare in quell'umido muro di particelle gassose. Il Campo Mezzosangue profumava di buono, di casa. Una casa diversa da quella a cui Sia era abituata, ma pur sempre casa rimaneva. Casa sua non sapeva mai d'estate: conosceva gli odori del ghiaccio e della neve, del freddo vento artico, delle aspre bacche di empetro e del dolce grasso animale.
L'estate era qualcosa che apparteneva alla sua vita di semidea, non a quella di umana, di figlia e nipote di Inuit. La sua vita di semidea a New York, con i suoi fratelli di sangue, con i suoi molti dolori e le sue poche ma preziosissime gioie.
La sera giunse e furono accese le fiaccole attorno alla pira, mentre per Fabrice si cantava l'epicedio. Alla luce del fuoco il filo d'argento della civetta di Atena parve danzare e per un attimo Sia di dimenticò di essere a un funerale, perché il canto non era triste come sembrava e gli addii ai morti non sono così reali e definitivi come quelli tra vivi, come la lontananza che può crescere, velenoso seme, tra due persone.
Fu un solo istante, tuttavia. Poi Sue e Scarlett presero la parola. La mano di Robert si posò, delicata e protettiva sulla sua spalla, mentre sua sorella prestava ben poca attenzione a quello che veniva detto. Parole pronunciate ora che lei conosceva già, perché Brice non era stato un mistero per lei. Non sapeva nulla della sua storia passata, ma conosceva la storia dei sentimenti. Tutte le persone felici si somigliano, ogni persona infelice lo è a modo suo, o qualcosa del genere. Non era affatto vero: tutte le persone tristi avevano dei punti in comune e Sia si era laureata nella scienza della tristezza.
Parole su parole su parole. Era necessario, lo sapeva. Bisogna rendere onore ai morti, era da una vita che la sua famiglia glielo ripeteva. Gli spiriti felici non turbano la vita di coloro che rimangono al mondo e corrono felici in un eterno gioco all'interno dell'aurora. Brice si sarebbe unito a loro? Sia immaginò che si sarebbe trovato bene, perché era un asso in ogni tipo di gioco. Sorrise senza accorgersene al pensiero che avrebbe potuto convincere tutti a giocare a Mythomagic e a quel punto chissà che l'aurora non si sarebbe fissata in cielo, come in una lunghissima partita.
Scarlett e Sue tacquero, quasi con violenza. Iris mosse un passo avanti, una mano stretta attorno a una fiaccola di bronzo celeste. I delicati luccichii delle sue guance erano testimoni delle sue lacrime. Si avvicinò alla pira, con delicatezza la posò sul letto di rametti secchi. In muto soccorso accorsero i suoi fratelli: ognuno di loro ripeté quel gesto così simile a una carezza e la pira rispose con un sospiro, mentre i rametti proseguivano quella gentilezza, abbracciando legna e foglie aromatiche, spandendo subito un profumo dolce e malinconico.
I figli di Atena fecero un rispettoso passo indietro quando la fiamma si allungò sul lenzuolo ricamato e Sia vide il filo grigio liquefarsi come argento vivo mentre il fuoco ripeteva quello che era già stato fatto innumerevoli volte. Madre e figlio, la stessa fine.
Molti distolsero lo sguardo quando il calore e la luce si fecero insostenibili. Sapeva a cosa stavano pensando: alla carne che si consumava, alla pelle che diveniva cenere, ai resti di ossa che sarebbero rimasti come ricordo di una persona che fino a pochi minuti prima era stata integra e forse solo addormentata. Ma a Sia quella trasformazione non faceva paura. Non più. Non ora che conosceva il canto del fuoco e ricordava le parole che le aveva sussurrato all'orecchio quando sulle sue braccia erano fioriti boccioli ardenti e prolifici.
Mentre guardava quello che per anni aveva desiderato senza sosta, pensando che avrebbe potuto trasformare la sua vita da grigio, ridicolo teatrino a splendente rivelazione, si rese pienamente conto che non lo avrebbe più posseduto e che, in fondo, l'aveva sopravvalutato.
Il fuoco non brucia sulle ceneri, si disse, quando della pira di Fabrice, mirabile torre ruggente, non rimase che un mormorio di gattino nascosto in un cumulo di polvere e carbone. Il fuoco non brucia ciò che ha già consumato.
Nulla avrebbe potuto attecchire nella sua persona fintantoché non ci fosse stato niente che avrebbe potuto prendere fuoco. Non c'era mai stato niente dentro di lei o forse quel poco che c'era si era consumato in un unico spettacolare fuoco pirotecnico quando aveva iniziato la scuola umana o quando Callan le aveva rivolto la parola per la prima volta. In quel momento non c'era niente, se non una scarna distesa desertica su cui soffiava feroce il vento freddo dello scherno. Ecco perché nulla riusciva a nascere in quel luogo. Ecco perché si sentiva così vuota.
Il sole aveva appena iniziato a sorgere quando il funerale finì.
Sia respirò a fondo l'aria dell'alba che sapeva di resina e rugiada e si mischiava in modo stranamente gradevole a ciò che era rimasto del fumo. Sapeva di avere quell'odore appiccicato ai capelli, alla pelle e ai vestiti, ma non era un problema, ma la cosa che più si avvicinava a una benedizione. Una purificazione.
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