94. Il nostro dono più prezioso

L'avevano liberato dalle manette e gli avevano permesso di cambiarsi i vestiti sporchi di sangue e terra, tuttavia Daphne si chiese perché fosse in giro senza scorta. Quel ragazzo aveva avuto il greve compito di essere carnefice del suo migliore amico, e non serviva una laurea di psicologia o l'essere ubriaca per capire che il colpo sulla psiche di Jasper era stato pesante.

"Dov'è Jazzlynn? Ti hanno lasciato andare?".

Jasper inizialmente non rispose, aspettò di essere esattamente di fronte a Daphne, abbastanza vicino da poterla guardare negli occhi ma non troppo da sentire la tentazione di schiaffeggiarla sul posto.

"Non sono in arresto".

"Ma sei sufficientemente in stato di shock per non essere responsabile delle tue azioni".

"Io non sono sotto shock, Daphne. Capisco perfettamente cosa succede e cosa è successo".

Daphne sospirò. Capì dove stava andando a parare e strinse i pugni cercando di mantenere la calma, cosa non facile dopo tutto lo stress accumulato, il colloquio olimpico e con davanti un giovane semidio rabbioso e fuori controllo. 

Perché era questo che Jasper era. Fuori controllo. 

E per evitare che esplodesse inaspettatamente come a New Troy, quando aveva quasi attaccato Shoshanah, doveva evitare di irritarlo più di quanto necessario.

"So che pensi sia colpa mia..."

"Osi pure negarlo?".

"Con il destino non si possono fare questi discorsi a compartimenti stagni". Ringhiò subito in risposta la cacciatrice pur sapendo che le sue parole sarebbero state sprecate. 

Odiava avere ragione, soprattutto quando comportava ricevere quasi un pugno in piena faccia. 

L'attacco fu rapido, istintivo e prevedibile. Si spostò quanto necessario per pararlo con una mano. 

"Ti ho detto che non sai cosa stai facendo".

"Sarai pur immortale, ma posso comunque farti male".

"Sei un piccolo semidio malmostoso. - sputò con astio Daphne - Non piace a nessuno stare al gioco del destino. Non a me e non a te, quindi facciamoci un favore e smettiamola".

"Io ho appena iniziato". 

L'altra mano di Jasper la raggiunse al fianco, all'altezza della milza. Le si mozzò il fiato e maledisse mentalmente il giorno in cui aveva deciso di mantenere la calma in primo luogo al posto di tirargli una craniata sui denti con effetto immediato. Sospirò. Lo fissò rabbiosa negli occhi e poi, in ritardo ma sempre utile, la craniata arrivò. 

"Sei uno stupido. Non sono una dei tuoi amichetti umani o semidivini".

"Quelli come me? Quelli che non hai problemi ad uccidere? Quelli come Fabrice?".

"Non è quello che volevo dire. Se c'è qualcuno di responsabile qui, sei TU".

Si avventarono l'uno contro l'altra rotolando sul pavimento. Miravano al viso o ai fianchi. Jasper le tirò i capelli per esporre meglio il bersaglio ma Daphne gli morse una mano e, dimostrando una flessibilità fino ad ora insospettabile, fece volare una gamba sopra la sua testa e la usò come leva per liberarsi dalla sua presa e, già che c'era, tirargli un calcio con il suo stivale grigio. Sarà stata anche un'alcolizzata ma era anche una cacciatrice e Artemide non ammetteva niente di meno del meglio. Il contrattacco arrivò sotto forma di una gomitata sullo sterno. Il figlio di Ade vide arrivare una presa che l'avrebbe bloccato e abbassandosi in fretta puntò alle gambe facendola di nuovo cadere ma stando attento evitare lo stesso contrattacco di prima.

"Non volevo ucciderlo".

"Quindi ora provi ad uccidere me?".

"Non mi dispiacerebbe. Dicono che dopo un omicidio ci si prende la mano". Ringhiò Jasper.

"Temo che una mano me la prenderò io". 

Si mosse fulminea prendendo una mano del ragazzo e piegandola in modo innaturale, costringendola ad un angolo innaturale. Il ragazzo urlò e fu solo in quel momento che i soccorsi arrivarono a dividerli. 



Non erano rimasti in molti alla Casa Grande: alla fine la stanchezza e le emozioni avevano stroncato anche i più sonnambuli. Matthew si era convinto ad avviarsi verso la sua cabina, confortato dal pensiero dello specchietto nella tasca dei suoi pantaloni e Sia era stata più o meno presa in braccio da Rob dopo aver lungamente pianto il suo amico. Perfino Shoshanah si era addormentata sul divano sotto la testa di Seymour. Si era rifiutata di lasciare la veglia di Fabrice, nonostante l'avesse già onorato prima di lasciare New Troy. Si rifiutava anche perché non voleva abbandonare Scarlett. Ma i propositi non erano stati mantenuti, perché il suo corpo le aveva chiesto pietà.

No, nessuno aveva avuto la forza di attendere l'alba al fianco del piccolo corpo del figlio di Atena. Nessuno, tranne una musa, una volpe gigante e un semidio.

Jasper era sveglio, anche se il suo sguardo sembrava perso in dense nebbie color inchiostro. Fissava davanti a sé, senza davvero vedere il viso sereno del suo migliore amico. Avevano dovuto calmarlo e legarlo dopo le botte prese e date a Daphne, ma quando Sue aveva proposto di sedarlo per evitare che si facesse del male, aveva dato di matto una seconda volta. La proposta di Scarlett gli era andata molto più a genio ed era per questo motivo che si trovava seduto al suo fianco, anche se non partecipava e forse nemmeno udiva il debole lamento funebre che usciva incontrastato dalle labbra di Miss Cadmy ormai da due ore. Sapeva cosa fosse: un epicedio. Un canto funebre per onorare la memoria del defunto in sua presenza. Ma quello non era un epicedio qualunque: normalmente Jasper avrebbe compreso le parole di cui era composto, ma quelle erano più antiche del greco che tutti i semidei comprendevano. Era il greco dei mostri e delle divinità, un linguaggio magico e ammantato di potere che faceva tambureggiare il sangue di Jasper nelle sue vene, come se ogni singola molecola di emoglobina rispondesse a quel richiamo.

Non era stato facile per Scarlett ricevere la notizia della morte di uno dei suoi più amati bambini. Non era stato nemmeno facile nasconderglielo, in verità: aveva chiesto di lui dopo aver abbracciato tutti quanti, come sapendo che c'era qualcosa che non andava, qualcosa che mancava. Era sbiancata quando Sue le aveva detto la verità. La festa e la gioia si erano spente quasi subito e Scarlett aveva iniziato il suo canto funebre poco dopo, quando Jasper era stato staccato dai capelli di Daphne e messo seduto lì, davanti alle sue colpe, davanti al suo dolore.

Perché era questo che Fabrice rappresentava: colpa e dolore.

Come sarebbe andata avanti la sua vita con quella colpa? Dove avrebbe trovato rifugio contro tutto quel dolore?

"Fabrice era orfano."

Jasper trasalì leggermente, voltò di pochi gradi il viso verso Scarlett. Gli occhi di lei erano illuminati dalle pigre candele che ardevano sibilando tutto attorno al catafalco e sembravano rossi. Non aveva distolto lo sguardo da Fabrice.

"Era orfano e malato." Questa volta lo guardò. Aveva il viso gonfio per le lacrime che aveva versato ininterrottamente. "Lo sapevi?"

No, Jasper non lo sapeva. Brice non parlava mai delle sue pastiglie o delle persone che lo attendevano a casa. Quando Jas poneva domande su quelle cose, andava sempre a finire che venisse distratto. Ora capiva perché.

"Nacque al confine col Canada. Lì abbandonato in un orfanotrofio gestito da suore."

Le labbra di Scarlett si muovevano a malapena, ma la sua voce era chiara e forte alle orecchie del ragazzino. Jasper tornò a fissare il viso di Fabrice, corrugando delicatamente la fronte.

"Oh, non rimase lì molto. Non credere. Era un bel bambino, biondo e sveglio. Molte coppie avevano tentato di adottarlo. Non importava che avesse una disfunzione alla tiroide o che fosse iperattivo, dislessico, difficile. Lo amavano. Tutti lo hanno amato."

La voce di Scarlett si spense nel silenzio. Jasper lanciò uno sguardo a Sue, dall'altra parte del feretro, ma la musa se ne stava a occhi chiusi. Non dormiva di certo, ma non voleva immischiarsi nel monologo della volpe.

"Venne adottato da una quindicina di coppie, sparse in tutti gli Stati Uniti. Non rimaneva a casa loro per più di una settimana, per quanto buoni o dolci fossero con lui. Scappava sempre. Scappava sempre e tornava qui, da noi. E noi ogni volta lo riconsegnavamo all'orfanotrofio, perché aveva bisogno di una famiglia. Anche se lui diceva che noi eravamo sufficienti."

Un singhiozzo scappò sull'ultima sillaba e Scarlett si sfregò gli occhi con una mano. Aveva ricominciato a piangere.

"L'inverno scorso venne adottato per l'ultima volta. Lo avevamo saputo e sapevamo che sarebbe arrivato a breve. Ma non successe."

Si fermò di nuovo, cercando un fazzoletto nella tasca dei pantaloni. Non trovandolo, si asciugò gli occhi nella sciarpa di volpe.

"Erano una coppia del Maine. Henry e Lyzabeth. Bancario e biologa. L'avevano adottato a ottobre e a dicembre ancora era con loro. Sue e io... Sue e io speravamo avesse trovato il suo posto."

Jasper provò a trovare qualcosa da dire, ma dopo essersi picchiato con Daphne davanti al cadavere di Fabrice, pensò che la sua memoria era già stata imbrattata abbastanza. Preferì tacere stringendosi le ginocchia al petto, nonostante il dolore alla mano.

"Erano diversi dagli altri. Erano quelli giusti. Fabrice lo sapeva, perché quando tornò da noi – come sempre, tornava sempre – due settimane dopo Natale, era malato d'amore per loro."

"Il principino d'inverno." Bisbigliò Sue.

"Sì." Concordò Scarlett, gli occhi pieni di lacrime. "Arrivò una sera, nella neve. Capelli bianchi ricoperti di fiocchi, perfino le ciglia erano congelate. Piangeva. Diceva che li aveva uccisi. Noi sapevamo che non aveva potuto farlo per davvero, ma in un certo senso aveva ragione. Li aveva uccisi dentro. Per paura di perderli, aveva preferito sacrificarli. Perché Fabrice non era capace di fidarsi delle sue mani. Aveva paura che stringendo quella piccola cosa preziosa che si era guadagnato, l'avrebbe lasciata cadere e si sarebbe rotta. Per questo se n'era andato: prima che lo facessero loro. Vedemmo il suo viso a tutti i notiziari per settimane, la sua foto stampata sui giornali umani per mesi. Quei due spesero un patrimonio nel cercarlo. Non ebbero più notizie da lui. E Fabrice di loro."

"Aveva finalmente dei genitori... e non li ha mai cercati".

Scarlett non disse altro. Smise di torturare le sue stesse mani e tese a Jasper ciò che fino a quel momento ci aveva nascosto dentro: una catenella d'argento leggermente ossidata, un ciondolino a forma di cuore reso opaco dall'usura. Jasper la prese senza rifletterci, acchiappandola come una farfalla ballerina. Sul lato principale vi era inciso un nome: Fabrice Gardener. Non White. Gardener. Sul retro, si trovava una minuscola scritta.

"Il nostro dono più prezioso. Henry e Libby." Recitò ad alta voce Scarlett, guardando davanti a sé. "Tienilo, Jasper. Ora è tuo."

"L'ho ucciso..."

"Ed è quindi giusto che tu ne onori la memoria, Jasper. Non vorrebbe che tu ti divorassi così".

"Non riesco comunque a perdonarmi".

"Allora fa che questa collana sia un monito. Una memoria".


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