87. Strana cosa il destino
Da piccolo aveva chiesto più volte a sua madre di raccontargli come avesse conosciuto suo padre e il racconto variava di volta in volta. Prima era uno straniero, poi era diventato un ricco imprenditore di Washington già sposato che non aveva voluto abbandonare la moglie. Poi era cresciuto e la questione era passata sotto silenzio, soprattutto a fronte del fatto che Marion non dava segni di aver superato il trauma.
Non c'erano foto in casa di quello che lei era stata prima della gravidanza. Solamente qualche frammento di discorso fatto a cena aveva formato nella mente di Gabriel un'immagine di Marion Willow prima dell'arrivo di Zeus nella sua vita. Sapeva che era stata una bellissima ragazza, una cheerleader, reginetta di bellezza e Miss Michigan per un soffio.
La foto in ospedale di sua mamma con un fagottino di copertine in braccio era la più vecchia che aveva mai visto e già da quella si poteva intuire che tipo di ragazza fosse stata.
Certo, rimanere incinta a ventun anni di un uomo molto più vecchio di lei non aveva fatto piacere alla famiglia conservatrice e nemmeno alla sua immagine di reginetta. Si era rifiutata di dare il bambino in affido, si era cercata un lavoro, aveva abbandonato gli studi.
Tutto perché suo figlio, quattordici anni dopo, riuscisse a rompere la maledizione della città di Troia. Tutto perché suo figlio, nato da Zeus in persona, invaghito di Quasi Miss Michigan, brandisse una singola saetta e fermasse la mani di un figlio di Ade.
Tutto perché suo figlio sopravvivesse a una guerra e diventasse quello che era ora.
Strana cosa il destino.
Crea problemi alle persone per risolverli.
I ragazzi avevano in fretta lasciato dove era stata la città i pezzi di armatura ammaccati, il cibo trasformato in sabbia e tutto ciò che sarebbe stato impossibile portarsi su un treno. Vennero caricati i feriti sulle lettighe, chi era ancora abbastanza in forza venne reclutato per trasportarli.
Erano molto diversi dai semidei che erano sbarcati dal T.E.T.I prima della guerra: erano molto più ammaccati, alcuni pesantemente disidratati, feriti. Qualcuno era morto. Qualcuno era diventato un assassino. Qualcuno era diventato un eroe, ma lui tra tutte le cose che sarebbe potuto diventare, si sentiva semplicemente diventato grande. Non sapeva come questo appariva agli occhi esterni ma ciò che sentiva dentro era diverso da come se lo ricordava. A stento di riconosceva.
Non solo aveva combattuto, era sopravvissuto senza cedere alla follia. Non solo ora sentiva come un caldo nucleo elettrico e pulsante accanto al caldo cuore di carne. Poteva letteramente sentire l'elettricità scorrergli nelle vene, sentire il vento sussurrare alle sue orecchie, se si concentrava abbastanza. Si sentiva connesso con la sua parte divina, eppure deluso. Aveva scoperto la strada per riconoscere l'eredità paterna nel suo codice genetico, aveva trovato il modo di guardare dentro il suo DNA, ma ora che l'aveva fatto forse avrebbe preferito di no. Cosa aveva fatto Zeus per aiutarli? Nulla.
Avrebbe dovuto arrabbiarsi forse, ma non se la sentiva tanto stanco e affaticato era. O forse sentiva che se le cose non fossero andate così, lui non sarebbe diventato quello che era. Un giovane semidio, fiero di essere prima di tutto umano e di aver usato il suo dono, che non aveva fatto assolutamente niente per meritarsi, per salvare altri umani.
I volti scorrevano attorno a lui, momentaneamente fermo accanto alla lunga colonna di armature e magliette arancioni, come una mini transumanza. Tutti con il loro carico di bronzo celeste e stanchezza. Jazlynn portava un Jasper ancora ammanettato e alla testa della processione si vedeva svettare, anche da lì, la testa di Sue. Il corpo di Brice era stato caricato su una lettiga apposta e Shoshanah non si scostava nemmeno di un passo. Alla coda, i figli di Efesto con le maglie bruciate, i visi sporchi di fuliggine e le mani quasi scorticate dal fuoco. Poi si rimise in cammino anche lui, vicino a un paio di figlie di Ermes e uno di Hypnos, adattando il passo a quelli vicini a lui e contando le ore che ci sarebbero volute in treno per il ritorno. Sembrava passata una vita intera durante la quale era morto più volte, quando invece non era stato nemmeno un mese dal loro arrivo sulla piana. Forse meno di tre settimane dal primo combattimento; un tempo durante il quale si era letteralmente svolta la sua intera prospettiva di vita. Ora si sentiva arrivato al capolinea, vecchio di tre settimane e trecento anni... al filo del traguardo, con la prospettiva di infinite altre corse davanti.
Forse era vero, come aveva detto suo fratello Jason: è diverso combattere per qualcuno che hai sempre davanti. Se avessero dovuto combattere per gli dei probabilmente non ce l'avrebbero fatta, come tutti i fantasmi prima di loro.
Sembrava già tutto un ricordo ma le ferite e il male in tutto il corpo facevano sì che fosse impossibile ridurre tutto a un mero sogno. Lo sapevano tutti bene esattamente come lui, anche se magari in modi diversi. Nemmeno una parola rompeva il silenzio della marcia verso, paradossalmente, una semplice fermata del treno segnata da un malconcio cartello di metallo grigiastro con segnato l'unico treno che transitava in quell'angolo di terra dimenticato dagli dei e dagli uomini.
Così come era arrivato all'andata, la sferragliante locomotiva del T.E.T.I. comparve all'orizzonte portando con sé la voglia di tornare a casa, di chiamare sua madre e dirle che era vivo. Che stava bene. Cercò con gli occhi un posto dove sedersi senza disturbare nessuno, sufficientemente lontano dai feriti per non rubare ossigeno prezioso, e una volta individuatolo in un angolo del vagone dentro cui era entrato, attraversò la carrozza a grandi passi tenendo lo zaino in una mano, lo scudo allacciato alla schiena e la spada saldamente tenuta per il fodero. Anche solo il pensare e notare con quanta disinvoltura maneggiasse una spada e uno scudo greci lo stupì. Era quindi questo che Scarlett intendeva con siete fatti per maneggiare queste armi.
Incastrò lo zaino sotto lo schienale e tentò di apprendere lo scudo ad un gancio che fuoriusciva apparentemente minaccioso dalle scabre pareti del treno. Il sedile di legno era scomodo ma era fresco. Il treno puzzava di vecchio, ma era comunque un posto all'ombra.
"Scusa, è libero?"
Istintivamente Gabriel si sedette il più dritto possibile per lasciare spazio alla persona appena arrivata, accorgendosi solamente una volta che se la trovò davanti che si trattava di Marissa.
"Certo, certo siediti." Rispose, spostandosi di un posto per evitare di scomodarla. La ragazza aveva un aspetto esangue, quasi, e agli angoli della bocca si erano aperte due piaghe rossastre su cui passava la lingua di tanto in tanto a causa del fastidio. Gli occhi erano cerchiati ma l'espressione era dolce e se si concentrava poteva sentire il vago profumo di cannella che aveva sentito anche il primo giorno.
"Rilassati pure – disse la ragazza – ci stiamo comodi tutti e due."
"Sicura, non ti volevo dare fastidio..."
"Va bene così, Gabriel. Non devi per forza essere gentile."
"E perchè dovrei farlo apposta. Siamo tutti esausti, un po' di comodità è da tenere da conto."
"Io ti volevo chiedere scusa."
L'improvviso cambio di argomento attirò l'attenzione di Gab più delle vuote parole di prima. La fissò.
"Scusa di cosa?"
"Mi sono comportata malissimo durante la ricerca delle formiche... e poi non ti ho più chiesto scusa."
"Avevamo una città da conquistare, nessuno avrebbe avuto tempo."
"Sì, ma non importa. Io ti voglio chiedere scusa ora. A te e a Iris... perché a dir la verità nemmeno io mi sarei sopportata, col senno di poi."
"Memo, davvero. Era una situazione tesa, all'orlo della disperazione. Ti sei comportata come qualsiasi essere umano avrebbe fatto."
"Ma noi siamo semidei..."
"Siamo prima di tutto esseri umani. E non ti devi incolpare per questo. Abbiamo tutti giocato il nostro ruolo e fatto la nostra fatica. Non serve che tu ti scusi. Non te ne ho mai fatto una colpa in partenza."
"Grazie." Concluse la ragazza abbassando lo sguardo sulle mani e adoperandosi per incastrare anche lei lo zaino sotto la panca di legno consumato. Dall'aspetto non lo si sarebbe mai detto, ma Marissa durante la guerra aveva dimostrato coraggio da vendere, mischiato alla sua determinazione e alla sua sicurezza. Gabriel era rimasto stupito da quanta forza si celasse sotto quegli occhi allungati e i capelli curati. Era una ragazza brillante, testarda, risoluta ma soprattutto umile e molto bella. Bella di quella bellezza che traspare da dentro, che non acceca l'occhio poco avvezzo a saperla cogliere. Quella bellezza che resiste anche dopo una settimana senza una doccia, le piaghe alla bocca. Anche dopo un orecchio mezzo maciullato.
"Ti fa ancora male?" Chiese Marissa, accennando al grumo di sangue che ancora albergava sopra ciò che rimaneva del padiglione auricolare di Gabriel dopo il colpo inferto da uno dei fantasmi al momento dell'irruzione.
"No, in realtà ha un aspetto peggiore di quanto non sia. Ho ancora abbastanza orecchio attaccato."
"Quindi non diventerai sordo?"
"Penso proprio di no. È solo una fettina."
"Meno male."
"Già... " convenne toccandosi l'orecchio per sentire la strana e nuova forma che aveva assunto.
"Una volta lavato come si deve tornerà come nuovo in una settimana."
"Sai, Memo..." Disse poi pentendosene immediatamente.
"Sì?" Rispose, girandosi a fissarlo.
"No... scusa, niente."
Non gli sembrava il momento di dirle che, nonostante tutto, o forse proprio a causa di tutto, era proprio bella.
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