84. La pagliuzza più corta è quella che prende fuoco

Correndo a perdifiato riuscì a raggiungere il capannello di persone in mezzo a cui svettava la testa rossa di Robert Hart. Il gruppetto, dopo aver abbandonato il Naos per disperdersi nelle sue vicinanze e respirare aria che non fosse intrisa dell'odore ferroso del sangue, stava parlando animatamente ma al ragazzo non interessava esattamente di cosa stessero discutendo, c'erano cose ben più importanti, a prescindere. Si promise di chiedere scusa a Win per il malo modo in cui fu costretto a spostarlo, con una gomitata, per ritrovarsi esattamente in mezzo al cerchio che si era formato. Gli occhi di tutti furono immediatamente puntati su di lui mentre si rendeva conto, voltandosi a guardare viso per viso i suoi amici, della tensione che aveva appena creato irrompendo tra loro. Gli mancarono le parole e la voce gli si fermò in gola, come per un improvviso attacco di ansia da palcoscenico.

"Che succede, Mark?"

Aprì la bocca a vuoto ed emise un lungo suono vocalico prima di ritrovarsi a fissare Sue, la quale liberò le braccia dalla posizione incrociata e lo guardò in rimando con i suoi grandi occhi scuri. Attendeva, paziente come non si sarebbe mai aspettato prima. Che avesse forse imparato a fidarsi dei suoi ragazzi? La sensazione che quella che aveva sempre considerato come una delle massime autorità al campo lo stesse guardando con aspettativa lo riempì di rinnovato coraggio e gli permise di respirare profondamente prima di aprire di nuovo la bocca, questa volta per proferire qualcosa di sensato.

"Sandra ha avuto un'idea. Su come uscire."

"Stavamo giusto discutendo anche noi prima di riunire i capi casa." disse Theresa, in piedi accanto a Sue.

"Lo sta già facendo Sandra... io sono qui per chiamare voi."

Non tutti furono felici della chiamata a sorpresa, men che meno i lamentosi storici. Per fortuna di tutti il numero di questi diventava sempre più esiguo giorno dopo giorno. Fin dal primo momento di battaglia era infatti stato chiaro per sempre più persone che l'unità e la collaborazione sarebbero stati l'unico modo per uscire vivi da quell'inferno. Rimanevano ancora alcuni reduci, come Callan, ma tutti erano segretamente speranzosi che in un momento o nell'altro anche loro si sarebbero ricreduti. Inaspettatamente fu proprio Rob a fare un passo verso di lui, assieme a Gabriel.

"Dove si vuole trovare?"

"Qui... sta chiamando il resto."

"Sta arrivando!" Disse Lancel, della casa di Nike che, appollaiato su una pila di casse di legno, abbandonate lì da chissà quanti secoli, cercava di passare il tempo facendo spaziare il suo sguardo oltre le mura. Il gruppo sbucò da dietro un piccolo agglomerato di casupole di pietra in rovina da cui usciva puzza di polvere e vecchiume. Sandra guidava il gruppetto accanto ad Helen e Alexys, sveglia da giorni e completamente armata come nel momento in cui avevano fatto irruzione nella cittadella. Dalle occhiaie presenti sul volto si poteva capire in che stato di sofferenza si stesse trovando, ma la luce folle e assassina negli occhi suggeriva che tutta la stanchezza veniva trasformata, non si sa come, in furia omicida. Mark si chiese come mai non potevano usare lei per distruggere il Palladio, Poi si ricordò che Alexys prendeva fuoco solo metaforicamente.

"Bene, Sandra... vorresti dirci cosa hai pensato?" chiese Iris allargando il cerchio per i nuovi arrivati.

"L'idea è molto semplice - urlò per farsi sentire bene, la piccola e tozza figlia di Ermes - abbiamo una statua enorme e voglia buttarla giù. Una statua di metallo. Robert, potresti provare tu." tagliò corto fissando i suoi piccoli occhietti ingannatori sulle lenti sporche di polvere di Rob.

Lo scetticismo con cui lui guardò la figlia di Ermes aveva pochi precedenti. Certo, la sua proposta avrebbe potuto avere senso, ma aveva i suoi dubbi riguardo la sua praticabilità. Il palladio non solo era grosso, ma era anche protetto dalla sua natura divina: se era riuscito a tenere prigionieri generazioni dopo generazioni di semidei con la sua forza, come avrebbe potuto un unico semidio, figlio per di più di una divinità bistrattata, distruggerlo. Non si sarebbe attirato l'idea di qualche pezzo grosso?

"Gabriel dovrebbe farlo. Lui è figlio di Zeus."

Quello avrebbe avuto, nella sua visione, decisamente più senso. Il re di tutto l'Olimpo avrebbe potuto avere un occhio di riguardo per la sua progenie. Era ancora giovane ma era potente, tanto quanto lui, se non di più. Il fulmine che aveva evocato contro Jasper avrebbe potuto ucciderlo, se non fosse stato per l'uscita della scarica attraverso il corpo di Fabrice. Gli aveva di sicuro cotto qualche terminazione nervosa. I fulmini possono friggere le cose e sono pericolosi tanto quando il fuoco.

"No, non se ne parla, Rob. Non ho la forza di farlo."

"E cosa ti fa pensare che possa riuscirci io?" Ribatté in fretta, voltandosi verso la voce del ragazzino che era giunta dalla sua sinistra.

"Perché hai già dimostrato di avere più potenza di tutti noi."

"Gli dei se la prenderebbero con me."

"Tanto ce l'hanno già con tutti noi dal primo all'ultimo, non pensare che cambi qualcosa." Aggiunse Daphne, improvvisamente comparsa seduta alla base della piramide di casse, colonizzata da diversi semidei appollaiati su di essa. "Siete semidei, avete addosso l'etichetta uccidimi. Non solo non cambierebbe nulla, ma potrebbe forse migliorare le tue condizioni."

"Odio dirlo ma Daphne ha ragione. Distruggendo il Palladio ridurremmo il numero di vite di semidei sacrificate in futuro." Quando la voce della ragione parlava, il mondo taceva. Ed era raro che Iris ammettesse che qualcun altro avesse detto la cosa giusta prima di lei.

"Posso fare un tentativo. Ma non vi assicuro niente, secondo me non funzionerà. Siamo stati già troppo fortunati fino ad adesso."

"Fortunati? Abbiamo perso due dei nostri."

"Avrebbero potuto essere molti di più, se non si fossero sacrificati."

La folla tacque, chi risentito, chi paralizzato dalla verità delle cose, che in fondo non piaceva assolutamente a nessuno. A chi piace ammettere che la propria vita sia dovuta a qualcun altro? Ecco. Il ragazzone rimase in piedi, portando lo sguardo oltre la porta che conduceva a quel maledetto Naos. Quanto sarebbe stato bello se la sala fosse crollata su sé stessa, addosso a quella statua. Un bel terremoto coi fiocchi e giù, tutto. In un mare di pietre. Sarebbe stato davvero bello ma Rob non era così stupido da credere che non si sarebbe ricostruito tutto esattamente come era successo alle mura. No, il danno doveva essere permanente e devastante.

La fiducia che riponevano in lui lo faceva sentire a disagio, come sempre. Era il più grosso ma l'essere considerato il più pericoloso o il più potente era tutt'altro paio di maniche. Si sentiva strano a essere la prima soluzione che venuta in mente. Da un lato la cosa lo rendeva orgoglioso di rendere onore alla casa di suo padre, che tanto gli aveva dato. Dall'altro si chiedeva come mai proprio lui: un ragazzone praticamente cieco e sovrappeso, burbero e di poche parole. Non è che così che dovrebbe essere l'eroe.

"Rob, so che sembra impossibile, ma potrebbe essere l'unico modo di uscire di qui." Disse Gabriel interrompendo i suoi pensieri.

Le battaglie li avevano asciugati tutti e ancora di più avevano fatto la fame e la sete delle ultime ore. I più giovani erano rintanati in un angolo a masticare la poca erba che i figli di Demetra erano riusciti a far germogliare dopo minuti e minuti di sforzi.

"Guardaci: siamo allo stremo. Tra qualche ora potremmo non avere più nemmeno noi la forza."

Gli arrivava alle spalle, ed era abbastanza certo che così non fosse al quando era arrivato al campo. I capelli biondi erano cresciuti e cadevano sugli occhi tanto che ogni due per tre doveva scostarli. Un orecchio era sanguinolento e parte del lobo doveva essere stata tagliata di netto durante gli scontri. A quattordici anni non bisognerebbe tornare a casa con delle ferite di guerra, è vero. Ma prima di tutti bisognerebbe tornare a casa, poi non è importante il come.

Senza rispondere Robert lasciò cadere la cintura a cui portava la mazza da battaglia per poi slegare lo scudo che le cinghie tenevano stretto alla schiena. Nessuno aveva avuto tempo di togliersi l'armatura e lui non aveva fatto eccezione. Ora però era necessario togliere tutto quello che avrebbe potuto sciogliersi assieme al metallo della statua. Questo comprendeva anche il pettorale di bronzo, gli schinieri e i bracciali e anche i suoi indispensabili occhiali. Rimasto solo in maglietta e pantaloncini il mondo non era altro che un universo sfocato di lampi confusi, circondati per lo più da grigio o da violetto indistinto dove il sole si rifletteva direttamente. Si sentiva completamente indifeso ma poteva sentire dentro di sé il peso della responsabilità. Come quando aveva sfidato la Volpe... solo che in questo momento tutto era diverso. Non ci sarebbe stato nessun premio perché prima di tutto quella non era una scommessa contro un'amica. Era una scommessa contro il destino, che avevano già sfidato più di quanto fosse raccomandabile.

A passi lenti, cercando di radunare dentro di sé le energie, Robert si concentrò sul calore del sole che gli bruciava la pelle, sull'arsura che sentiva in gola, su tutta quell'assenza di umidità che avrebbe solamente aiutato. Non guardò se gli altri lo stavano seguendo ma quando mise piede all'interno della sala dove si trovava il suo gigantesco avversario di metallo, si sentì un bambino sperduto al centro commerciale. Perso davanti a una cosa troppo grossa, troppo spaventosa e troppo difficile da fare. Nella sala faceva freddo, nonostante la temperatura esterna, e le vesti della dea rappresentata sembravano emanare gelide ondate di ostilità nei confronti degli invasori. La macchia di sangue vicino al piedistallo era ancora perfettamente visibile così come il punto in cui il fulmine aveva scaricato la sua potenza. Anche solo richiamare le fiamme divine sulle mani gli costò molta più concentrazione rispetto a quando si sarebbe aspettato. Forse per la stanchezza, forse per l'algida presenza della statua che gli incuteva terrore.

Sollevando tutto il suo peso corporeo sulle grosse braccia si issò sul piedistallo, in equilibrio nel sottile spazio lasciato a mo' di cornicione tra il limite della base e l'abito panneggiato. Tutto era fuso in un unico blocco liscio e perfettamente lavorato dalle fucine del cielo. Le sue fiamme non avrebbero mai prodotto nulla di simile, e forse era un bene. Perché non avrebbero mai preteso un prezzo in vite umane. Sospirando lasciò che il familiare formicolio del fuoco gli avvolgesse le braccia e il torso, libero di bruciare tutto quello che voleva. Il ragazzo parve trasformarsi in una stella candida di calore. La lega metallica rispose al richiamo arrossandosi in pochi secondi dopo il contatto. Nonostante la concentrazione e l'altezza delle fiamme, il corpo metallico parve arrossarsi assorbendo e nutrendosi di quell'energia, facendo diventare Robert prima giallo poi sempre più rossastro fino a che non ebbe mangiato anche l'ultimo briciolo di fuoco. Fu una sensazione orribile. Il figlio di Efesto boccheggiò come fosse appena emerso da un'apnea davvero troppo lunga, staccandosi a fatica dal peplo di Atena e fissando la macchina scura, unico segno del suo tentativo fallimentare.

"Maledizione." Sussurrò tra sé e sé, con la schiena dolorante e gli arti indolenziti. Perché non funzionava? Doveva essere una lega con alto punto di fusione, come l'acciaio. Ma lui non era di certo in grado di arrivare a quel potere calorico. Avrebbero dovuto accendere un enorme falò sotto il Palladio, ma anche in quel caso avrebbero avuto bisogno di uno spazio adeguato, non una stanzetta fin troppo aerata che non avrebbe mai permesso il raggiungimento di altissime temperature.

Per un attimo Rob si sentì profondamente sconfortato. Era la prima volta da molti anni che gli capitava di fallire. Era una sensazione nuova, quasi sconosciuta. Eppure da bambino ci era stato così abituato.

"Rob."

Il ragazzone trasecolò, udendo la voce tremante di sua sorella. Non aveva visto Sia da quando Fabrice era stato ucciso. Sapeva che era un suo caro amico, aveva pensato che avrebbe preferito piangerlo un po' da sola. Si voltò e la identificò nella macchia marrone e nera sugli scalini che conducevano alla sala. Non poteva vederlo, ma aveva come la percezione che lei stesse tremando.

"Sia? Che succede?"

Sia fece un passo avanti, quasi mancando uno scalino. Rob si allarmò: sembrava sul punto di svenire. Le andò incontro, agitando le mani per farle raffreddare, e la prese al volo prima che si accasciasse. La pelle della ragazza era rovente e sudata.

"Non ti senti bene?" Domandò, più spaventato di quanto fosse ammissibile ammetterlo, dimenticandosi all'istante del Palladio, della sua missione e di tutto il resto.

"Mi sento bruciare." Sussurrò sua sorella, con gli occhi lucidi e spaventati come quelli di una foca. "Mi sento bruciare dall'interno."

Rob fece per parlare, per dirle che forse era febbre, che la situazione non era facile, che sarebbe passato tutto. Ma, in quello stesso istante, Sia prese letteralmente fuoco. 

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