82. Ῥαψωδία Ω

Se c'era una cosa che a Sandra Orlando veniva benissimo era mantenere la calma. Questo non sempre le era stato di vantaggio: a volte era stata giudicata troppo fredda e calcolatrice, addirittura indifferente, davanti ai piccoli e grandi drammi del Campo. Anche a casa sua madre si lamentava del suo carattere apparentemente così poco empatico: Sandra, non sei abbastanza triste, abbastanza sconvolta, abbastanza impietosita.

Sandra si era in realtà sempre chiesta se le persone che aveva attorno e che parevano così legate alle proprie emozioni le esprimessero in maniera totalmente spontanea o solo secondo la legge comune. Per esempio, aveva letto che, da qualche parte che nell'antichità, i funerali prevedevano momenti di divertimento, addirittura banchetti. Nell'Iliade c'era scritto che per la morte di Patroclo si erano tenuti giochi funebri. Ecco. Quella non era un'occasione dove ridere e scherzare? Eppure era un funerale. La gente avrebbe dovuto piangere, battersi il petto, strapparsi i capelli, no? Almeno, se questo fosse stato un'esternazione emozionale sincera.

Questo avvalorava la sua tesi: la gente seguiva la moda delle emozioni. Si piangeva a comando per non sfigurare in una massa di gente triste, si rideva su ordinazione per non fare la figura dei musoni, ci si arrabbiava per cose per cui normalmente non si avrebbe nemmeno speso mezzo minuto della propria vita. Questo pensava Sandra Orlando e, anche se la sua tesi era oltremodo osteggiata – addirittura dallo stesso bellissimo fidanzato – lei persisteva adamantina nelle proprie convinzioni.

E ora tornavano utili, ecco tutto. Quando le persone sono davvero sconvolte, ma davvero davvero, quando non si riesce a mettere assieme una frase di senso compiuto che nella testa riesca a prendere il posto del dolore e dell'angoscia anche solo per mezzo minuto, una tipa come Sandra Orlando fa sempre comodo. Abituata com'era a trattare le emozioni come se fossero qualcosa di addomesticabile, Sandra osservò con occhio critico tutto quello che successe subito dopo essere tornata in possesso delle proprie facoltà cerebrali. Vide Fabrice morire, vide Jasper abbracciarlo, vide Shoshanah corrergli incontro, vide anche il fulmine che calò dal cielo grazie a Gabriel. Rimase a osservare impassibile Jazlynn disperare mentre legava il suo caro amico e non fece una piega anche quando lei iniziò a piangere perché Jasper, fuori di sé, parlava senza accorgersi del male che le faceva.

Sandra non era priva di sentimenti: lo stesso dolore che batteva a ritmo con il cuore di tutti, quel veleno pompato in ogni battito di ciglia era arrivato anche in ogni più piccolo anfratto del suo corpo. Non lo negava a se stessa: non avrebbe avuto alcun senso, quella sarebbe stata la vera indifferenza. Si conosceva a sufficienza per sapere che era spaventata, triste e addolorata, perché conosceva Fabrice, anche se non avevano mai stretto un rapporto di intensa amicizia: lui era troppo esaltato, lei era troppo contenuta, entrambi erano troppo furbi.

Ma il suo istinto di sopravvivenza, quell'istinto che l'aveva salvata quando a undici anni si era ritrovata inseguita da un licaone nel parchetto del suo quartiere e che le aveva permesso di diventare uno dei capicabina più rispettati del Campo Mezzosangue, le aveva gentilmente picchiettato sulla spalla e le aveva fatto cenno di frenare lacrime, disperazione e terrore. A chi sarebbero stati utili? Non a Brice, che ormai aveva lasciato quel magrissimo corpo mortale e neanche a loro, che dalla loro personale prigione dovevano ancora fuggire. Aveva già capito qual era stato l'intento del figlio di Atena: rompere quel meccanismo presente nel Palladio che li avrebbe lentamente resi come i fantasmi della Guerra Civile. Questo era chiaro. Si era sacrificato, aveva toccato la statua di sua madre prima che lo facesse chiunque altro perché lui era il prescelto, lui era la vittima sacrificale.

Questo non voleva forse dire che il Palladio era ufficialmente libero da altre maledizioni?

"Mark! Mark, vieni qui." Chiamò Sandra a gran voce, cercando con gli occhi il suo fidato comandante in seconda. Il ragazzotto, che stava discutendo animatamente con alcuni ragazzi di Nike, lasciò subito perdere il discorso e corse da lei al trotto.

"Dobbiamo buttarlo giù." Disse lei, indicando con un ampio gesto il Palladio. Mark seguì il suo movimento e sgranò lievemente gli occhi.

"E come?"

"Non mi interessa come. Con le nostre forze, a mani nude, a sassate. È uguale. Bisogna buttarlo giù."

"Bisogna buttarlo giù." Ripeté il figlio di Ermes, come se stesse valutando la proposta. "Potremmo... potremmo sfasciare qualche porta. Oppure costruire una leva."

"Possiamo rompere qualche pietra e usarla per scalfirlo." Aggiunse Sandra. Il fratello la guardò.

"Ma sarà abbastanza?"

Sandra poggiò un indice sulla bocca e iniziò a picchiettarlo a ritmo con i secondi. Uno... due...

"No. Forse no."

"E allora che facciamo? Non abbiamo provviste. Se non ce ne andiamo di qui subito, moriremo di fame."

Sandra questo lo sapeva. Lei stessa aveva un buco nero al posto dello stomaco e la sua fronte, già un terribile campo minato dall'acne, aveva iniziato a sudare leggermente a causa dell'affaticamento e del caldo di quella maledetta roccaforte.

Caldo.

Calore.

"Il Palladio non è fatto di metallo?" Domandò all'improvviso, anche se suonò proprio come una domanda retorica.

"Eh? Sì."

"Il metallo come viene lavorato?"

"Col fuoco."

Sandra guardò Mark con una certa soddisfatta eloquenza. Lui ci mise un paio di istanti a capire a cosa o a chi si stesse riferendo, ma quando riuscì ad arrivare al punto i suoi occhi si illuminarono e un sorriso gli comparve in faccia. Anche Sandra sorrise, con i suoi denti tutti storti dietro cui si celava un'intelligenza fine quanto quella di Iris.

"Chiamalo." Ordinò e Mark partì al galoppo.

***

Molte volte, troppe, aveva visto le mura della città bruciare e crollare inesorabilmente in tanti pezzi che era impossibile contarli. Troppe volte si era reso conto di dover fuggire sempre per lo stesso percorso, sempre con la stessa ombra pesante sulle sue spalle. Solo una cosa, tuttavia, questa volta era diversa. Il destino aveva giocato un bello scherzo. Non aveva mai provato prima quella sensazione come di una catena che si spezza, del legame che l'aveva sempre intimamente tenuto a quella città rompersi definitivamente.

Quando, come tante volte prima, il panorama si era aperto davanti ai suoi occhi al crollo delle grosse pietre, l'arsura della piana che sempre precedeva l'ingresso alla città non era mai cambiata, come non era mai cambiata la sua estensione o la quantità di vite che vi andavano perdute ogni volta. Eppure quella volta, la piana di Ilio, non era mai sembrata così vera e reale. Non l'immagine uscita da un incubo che per molte vite l'aveva tormentato. Era qualcosa di puro e vero e vivo.

Lo spirito di Enea guardava per la prima volta in quel modo il percorso che avrebbe compiuto con il padre sulle spalle, in fuga dalla città che lo aveva ospitato per tante vite. Forse non sarebbe più stato necessario correre alla nave fantasma che ogni volta lo aspettava, e non sarebbe più stato necessario guardare la sua città bruciare all'orizzonte, con gli occhi velati dalle lacrime.

Ogni cinquecento anni aveva sopportato di rivedere tutto ciò che amava spegnersi in un mare di fiamme. All'inizio era stato intollerabile ma, di ciclo in ciclo, il sentimento era andato sempre più spegnendosi fino a lasciargli solamente un vago sentore di dispiacere in fondo al palato. Quelli che di generazione abitavano le mura erano sempre più degli sconosciuti privi di importanza, delle pedine per permettergli di dare ancora, per l'ennesima intollerabile volta, vita a Roma. Di volta in volta aveva smesso di parlare con chiunque, a nascondersi in una delle sale in cui generalmente I semidei non arrivavano mai, più interna e più scomoda da raggiungere dove aveva trascorso molti giorni da bambino assieme ai suoi fratelli. Con il trasferimento dall'altra parte del mondo, tuttavia, tutto era diventato sempre più piccolo e sempre più grigio.

Esattamente come una divinità dimenticata, la città aveva perso il suo fascino: il grigio delle costruzioni era diventato brutto, la sabbia aveva invaso qualsiasi cosa, la luce aveva cotto ogni porta di legno facendola spaccare in schegge sempre più sottili che erano semplicemente andare ad aggiungersi alle quattro dita di polvere ammassate su qualsiasi cosa. Erano scomparsi i pozzi, erano scomparsi i vasi, erano scomparse le tende, era scomparso tutto senza differenza. E l'unica cosa che era rimasta era lo scheletro della grandezze, il ricordo doloroso ed echeggiante nelle cavità aperte e buie di tutti gli edifici privi di porte. Un cranio spolpato dal secco, dal tempo e dal vento. Qualche volta aveva creduto di udire le voci dei suoi cari riecheggiare per le stanze vuote, ma alla fine nemmeno un fantasma si era mai mostrato alla sua vista. E anche lui era diventato fantasma tra i fantasmi, semidio come quelli che si immolavano per garantirgli il lasciapassare.

Solo ora però capiva che per una volta il sacrificio non era stato inutile, sia quello di tutti quei giovani sconosciuti, che quello della sua amata Creusa. No, ora guardava verso la foresta dove una nuvola dalla vaga forma di nave si stagliava sulla foresta tropicale, così diversa dall'Egeo che lo aveva cullato nel suo dolore la prima volta.

Quando mosse il primo passo, la sabbia quasi lo bruciò attraverso i calzari di cuoio lavorato mandando scosse lungo tutta la gamba. Il sole scalò le spalle forti e il vento scosse gli abiti regali che ancora indossava da quella notte, quando mille e mille anni prima aveva abbandonato le coste d'Ilio per diventare il padre di un'altra civiltà, senza dimenticare la grande tradizione di cui sarebbe stato, sulla bocca di tutti per sempre, l'erede. Ogni passo bruciava, ma ogni passo lo faceva sentire più libero e leggero. Era di nuovo, e questa volta per sempre, l'uomo che qualcuno avrebbe cantato.

E se qualcuno dei semidei avesse guardato giù dalle mura in quel momento, avrebbe potuto vedere Enea e suo padre Anchise, pronti a intraprendere il viaggio che avrebbe di nuovo fondato Roma.

"Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora..."



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