75. Gabbietta per semidei

Marissa era stata spettatrice, come la maggior parte dei ragazzi, della chiusura delle porte di New Troy, ma a differenza degli altri non aveva perso la lucidità. Certo, il suo stomaco si era serrato e si era sentita soffocare. Il suo primo pensiero era stato: e ora come torno a casa?

Ma se Memo fosse stata una di quelle che si arrendono subito, non sarebbe di certo arrivata ai suoi ben meritati quindici anni. Per questo motivo, presa da un improvviso e delirante desiderio di trovare una via d'uscita, si era messa a cercare qualcosa, qualsiasi cosa che si sarebbe rivelata utile. Se c'era una cosa di cui era certa è che vivere in quelle quattro mura per i prossimi millemila anni non rientrava nelle proprie priorità. Perciò, mentre gli altri si disperavano, piangevano, correvano in giro o sbattevano i pugni sulla porta nel tentativo di abbatterla con la forza della disperazione, Marissa si era cacciata le mani nelle tasche dei pantaloncini e si era messa alla ricerca di cose utili.

E cosa poteva essere più utile di un Nigel?

"Ragazzi! Helen! L'ho trovato!" Urlò, quando individuò un paio di scarpe che erano state bianche, molto tempo prima, seminascoste dietro le macerie. Doveva essere svenuto cadendo, perché era tutto impolverato, era scomposto e un filo di sangue proveniente da una narice si era ormai coagulato sulla sua guancia.

Helen arrivò in un battibaleno, pur avendo le gambette corte e il fiato corto. Tuttavia gli occhi capirono subito dove guardare, capirono che ciò che aveva cercato per tutto quel tempo dalla sua scomparsa era stato finalmente trovato. Non importava che non avesse trovato lei: Nigel era lì, era abbastanza vivo (non ci si fa molti scrupoli dopo aver visto delle mura richiudersi da sole per intrappolarti al loro interno) e apparentemente intero. Il fatto che fosse privo di sensi però non sembrava promettere bene. Subito si inginocchiò al suo fianco.

"Puoi usare un incantesimo?" chiese Memo guardandola preoccupata che la psiche di Helen potesse non reggere alla vista di Nigel in quello stato.

La ragazza alzò una mano e, al posto di utilizzare la forza donatale dalla madre divina, preferì attingere a quella del padre mortale. Con forza tirò un ceffone di primissima qualità al figlio di Iride. Sonoro e squillante come una vecchia sveglia meccanica dotata di campanelli. Preciso come un corriere espresso l'esatto momento in cui decidi di andare al bagno dopo ore di interminabile pena. Ma soprattutto disperato. Disperato come il ceffone di una persona offesa o confusa. Come il ceffone dato nel momento sbagliato a qualcuno che però se lo meriterebbe. A qualcuno che non ci ha dato una seconda possibilità per rimediare ai nostri errori.

"Svegliati! NIGEL!" urlò Helen accompagnando la soave chiamata con un altro schiaffo mentre il ragazzo riprendeva i sensi solo per scoprire che una figlia di Ecate aveva deciso di malmenarlo. "NIGEL!"

Stava per partire un terzo colpo quando gli occhi chiari e un po' annebbiati del ragazzo si aprirono, le mani salirono istintivamente al viso per proteggerlo o per constatare lo stato della guancia colpita. Ci mise qualche secondo a notare Helen, uno scricciolo seduto su di lui con delle mani che parevano di piombo da tanto forte l'avevano colpito. La guardò senza ben capire cosa stesse succedendo – la botta presa cadendo aveva distorto i ricordi dell'ultima ora passata da sveglio – ma ogni cosa tornò al suo posto quando notò che Helen stava piangendo. Sì. Perché quella era decisamente Helen. Helen, il motivo per cui era finito a New Troy e per la quale ci era finito pure tutto il Campo Mezzosangue. Helen. Elena. Solo che questa volta Elena aveva agito indirettamente, utilizzando Paride. Gli occhi di Nigel virarono dal grigio chiaro della confusione al viola. Era il colore di Helen, ma era anche la sfumatura della sua angoscia.

Un brusio si diffuse nell'esatto momento in cui tutti poterono vedere che Nigel era vivo e aveva aperto gli occhi.

"Non osare farlo mai più. Chiaro?" sillabò con la voce rotta dal pianto Helen, allungando le mani in quello che una persona qualunque avrebbe potuto scambiare per un tentativo di abbraccio. Me Helen rimaneva sempre Helen e per questo lo prese solamente per il bordo della maglietta per tirarlo su di peso. "SONO STATA CHIARA?"

Parlava, ma piangeva e le sue parole erano a malapena comprensibili.

Nigel annuì istintivamente, senza neanche pensarci: era troppo stupito di trovarsi addosso l'amore della sua vita per rendersi davvero conto della situazione. Almeno finché le nubi dei suoi pensieri si fecero da parte per lasciar passare un singolo, unico raggio di comprensione.

"No!" Gorgogliò, la bocca impastata di polvere e sangue. "Non... non dovete essere qui! Non dovevate entrare! Non uscirete mai più!"

"Ti ho chiesto se mi hai capito! E non gorgogliare quando parli! - aggiunse gorgogliando per via del muco e delle lacrime che avevano iniziato a fluire senza freno - mi hai lasciata al campo senza nemmeno la possibilità di chiederti scusa! Mi sono rosa il fegato per giorni, per settimane! Ora non fare la vittima dicendo che non dovevamo venire o ti tiro uno schiaffo ancora più forte."

"Helen, penso non intend..."

"E STAI UN PO' ZITTA, MEMO. Non ho finito con lui. Sono venuta qui a cercare il tuo culo arcobaleno ad fare ammenda della mia colpa di non aver visto che eri solo. TUTTI siamo venuti qui a cercare il tuo culo arcobaleno per chiederti scusa e ora ce lo lascerai fare senza dare aria alla bocca. Chiaro?"

Nigel annuì.

"Bene. SCUSAMI."

Un coro di scusa accennati, urlati, borbottati o scocciati seguì il magistrale discorso di Helen che, come al solito del resto, non aveva capito niente. Ma Nigel, anche se profondamente colpito - nonché commosso – dall'improvvisa piega da circoletto degli Alcolisti Anonimi, continuava a pensare al problema principale. Ovverosia che i suoi amici non dovevano essere lì.

Timidamente abbozzò di nuovo un: "Non dovevate entrare." E poi iniziò semplicemente a piangere ed Helen fu finalmente zittita da Marissa che, abbastanza scocciata di essere sempre zittita da tutti la spinse di lato come uno scomodissimo gatto obeso seduto sullo stomaco dopo un pasto pesante.

Afferrò anche lei – ben due ragazze nello stesso giorno! - il bavero della maglietta di Nigel e lo mise dritto, a pochi centimetri dal suo viso.

"Non ci servono lacrime." Disse, severa. "Ci serve sapere cosa sta succedendo. Cosa vuol dire che non usciremo più?"

"Staremo sempre assieme." Mugolò Nigel, ripetendo le parole del suo sogno. Marissa non capì e insistette: "Cosa vuol dire, Nigel?"

"Non usciremo mai più di qui."

"E chi ce lo impedirà? I soldati uscivano da New Troy ogni mattina."

Nigel scosse la testa, singhiozzando. "Solo dopo un po' di tempo. Prima devono diventare non-morti, altrimenti la città non li fa uscire."

Marissa rimase in silenzio per un istante, poi alzò il viso e urlò, con la sua speciale voce del comando: "IRIS. VIENI QUI" evocando una scompigliatissimo plotone di figli di Atena capitanati dalla vera atomica bionda, lercia di polvere da capo a piedi e con una mascherina di terra e sangue dove l'elmo si bipartiva per proteggere le guance.

Memo diede una raddrizzata a Nigel e gli indicò Iris.

"Ripeti."

"Non usciremo più da qui." Farfugliò l'esausto figlio di Iride.

"L'altro pezzo. Quello dei soldati."

"Non usciremo più da qui fino a quando non diventeremo non-morti. È così che è successo con i soldati." Piagnucolò Nigel. "Sono rimasti qui dentro per quasi tre secoli prima di avere il permesso di uscire."

"Come fai a sapere queste cose?"

"Me l'hanno spiegato. Mio fratello. Erano... erano semidei come noi. Erano tutti figli di dei greci. Sono stati attirati qui in una trappola, come è successo con noi. È... è la città." La voce di Nigel si alzò di un'ottava, divenendo quasi isterica. "È la città che richiede questo sacrificio."

Iris fissò il vuoto per qualche secondo. "Stai dicendo che noi siamo diventati una specie di... cambio della guardia?"

Nigel annuì e pigolò: "Erano felici di andarsene. Gli Achei divengono Troiani."

"Delle nebbie della storia giran le rote

Le mura intatte e le nicchie violate

Fan sorgere spettri dalle lapidi vuote

Per versare il sangue di vite rubate." Citò Sue arrivando con una barella di stoffa piegata sotto braccio. "Lo sapete qual è il brutto delle profezie. Ti rendi conto di averle realizzate solo dopo che è successo."

Immediatamente, uno dopo l'altro, i cervelli di tutti i semidei presenti capirono le parole che avevano ritenuto incomprensibili così a lungo. Ora parevano così ovvie che solamente uno stupido non avrebbe capito. E loro non avevano capito, loro erano degli stupidi che avevano servito il proprio futuro su un piatto d'argento.

"Vuol dire che noi staremo qui fino a che un'altra generazione di semidei non verrà a sostituirci?!"

"Probabile che sia così - sospirò la musa - e nessuno se ne ricorderà. Tutti dimenticheranno tutto in modo che la storia possa ripetersi senza intoppi." Ecco cosa aveva accennato Apollo, dicendo che i suoi ragazzi erano dei sacrifici. L'aveva saputo ma non aveva compreso il senso di quelle parole fino a quell'inutile momento di triste accettazione.

"NO. - disse Iris - no. Ci deve essere una via d'uscita. Ci sono sempre scappatoie in un problema logico."

"Ma noi non siamo in un problema logico Iris. Siamo nel mondo della mitologia dove la logica non funziona sempre. Cara piccola figlia di Atena..."

"No. - Scattò di nuovo lei rifiutando la mano che Sue le aveva cordialmente offerto come consolazione. - Mi rifiuto di crederci."

"Iris..." Avanzò Winton dalla folla.

"Non ti ci mettere anche tu. Questa situazione è un problema. E i problemi hanno sempre una soluzione... Vero?"


Heilà, AKEI! Siamo felicissime di poter ormai contare il nostro settantacinquesimo capitolo. Vorremmo ringraziare e dare il benvenuto alla lettrice @lellysimo, che ha rinnovato le nostre speranze di scrittrici disperate. A te è dedicato il capitolo, AKEA. 

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