74. La gravità della situazione si inverte
Alcune pietre a terra ancora fumavano e la terra annerita crocchiava sotto i loro passi. La colonna di giovani in armatura stava ancora attraversando il varco mentre Helen già era in mezzo allo spiazzo dove si era trovata. Il fumo le faceva bruciare e lacrimare gli occhi e la polvere sospesa le frustava la pelle di tanto in tanto come un milione di lame. Un pigro gatto di cenere che decide improvvisamente di graffiare. Nessuno aveva davvero pensato a cosa avrebbero trovato all'interno di New Troy: alcuni pensavano sarebbe davvero stata una fabbrica di rubinetteria, altri avevano addirittura paventato l'idea che avrebbero potuto trovare un secondo e più numeroso esercito ad aspettarli. Di sicuro Helen non si sarebbe aspettata quella totale desolazione che ora aveva davanti. Uno spiazzo di terra battuta calpestata per centinaia di anni da centinaia di piedi. Scale di pietra abbondonate e mezze crollate sui lati della piazza, un secondo portone svariati metri davanti a lei. Si sentì catapultata nel mezzo di una ricostruzione storica sguarnita delle comparse necessarie. Era una vera e propria cittadella fortificata e loro si trovavano proprio nella piazza d'armi. Degli oggetti lasciati in giro lungo le mura narravano una storia lunga secoli ma col finale sempre uguale. C'erano fucili vecchi e pieni di ragnatele, zaini, borselli di pelle smangiata che si sgretolavano al solo tocco. E poi spade arrugginite, punte di baionette... tutto ciò che ogni soldato passato prima di loro aveva lasciato lì. Ma Nigel?
Helen alzò lo sguardo per farlo vagare attorno e cercare un segno di dove avrebbero potuto tenere il ragazzo. Avevano fatto tutta quella strada per lui: non potevano arrendersi così. Quante stanze aveva quel posto? Esistevano delle prigioni? Avrebbe potuto essere nella torre principale, nelle segrete, nel salone delle riunioni (se la cittadella ne aveva uno) o addirittura nel tempio. Con un movimento brusco si tolse l'elmo e lo abbandonò per terra, prima di mettersi a marciare a passo deciso verso il portone davanti a lei; avrebbe iniziato le sue ricerche dalla sala più grande.
E l'avrebbe davvero fatto se Gabriel non l'avesse raggiunta e l'avesse trattenuta a forza.
"Che cosa stai facendo?!"
Helen parve scioccata alla domanda: non era ovvio? "Sto andando a cercare Nigel, come dovrebbero fare tutti qui al posto di guardarsi attorno."
"Non essere così affrettata. Dobbiamo organizzare le ricerche!"
"Organizzare cosa! – esclamò la ragazza in rimando – l'unica cosa che c'è da fare è muoversi e cercare. Fine."
"No." Disse di nuovo Gabriel fissandola negli occhi con i suoi, chiari e azzurri. Non sembrava stare scherzando. Helen contrasse il viso in un'espressione mista disgusto e rabbia. Gabriel non era nessuno per dirle cosa fare: Scarlett se fosse stata lì avrebbe approvato la sua idea. La priorità era cercare il loro compagno non mettersi per terra a fare disegnini come avevano fatto per giorni lui, Brice e Iris.
"Mollami." Scattò ritirando il braccio dalla presa di lui. "Non sei assolutamente nessuno per dirmi cosa fare."
"Esatto. Ma sono qualcuno per farti notare che è una pessima idea correre a cercarlo senza un piano."
"E perché?"
"Perché tutti siamo qualcuno Helen."
"Tu per Nigel non eri assolutamente nessuno." Sputò la figlia di Ecate, iniziando a perdere la pazienza. "Nessuno di voi era nessuno per Nigel. Io ero qualcosa per lui, IO gli ho spezzato il cuore e IO andrò a cercarlo. Voi fate pure i vostri comodi."
Helen vide che il ragazzo stava tentando di nuovo di bloccarla, allora prontamente fece per colpirlo ma Gabriel fu più veloce di lei afferrandola per il polso che immediatamente iniziò a formicolare.
"Siamo venuti qui assieme, abbiamo fatto tutti dei sacrifici e in più nessuno ti incolpa, Helen - proseguì con tono calmo pur mantenendo la presa - Ma se vuoi andare senza un piano a correre in giro nel rischio di dimenticare qualche stanza o di trovare qualche trappola fai pure."
Abbassò lo sguardo e si liberò dalla mani del figlio di Zeus allontanandosi di un passo, piccolo ma simbolico.
"RAGAZZI! DOBBIAMO INIZIARE A CERCARE NIGEL!" Urlò Gabriel continuando a guardare Helen, come a dimostrazione che anche a lui stava a cuore il destino di quel ragazzo per cui avevano rischiato così tato. Uno ad uno i semidei iniziarono a formare un cerchio parlottante, mentre la colonna brillante che aveva attraversato il campo i battaglia in un viavai continuo si stava ormai concludendo con il trasporto dei feriti. Sarebbe stato più sicuro accamparsi lì per la notte, trovare Nigel e poi riprendere il treno per tornare a casa quanto prima.
Sue aveva pensato che questo fosse la miglior decisione, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole che si era scambiata con Apollo alla fine del loro ultimo incontro. Guardava i suoi ragazzi esausti, feriti per una guerra in cui lei non aveva potuto muovere nemmeno un passo. Aveva solamente potuto consolarli ogni giorno quando ritornavano più pesti di prima. Ora tutto ciò che poteva fare era portare le provviste e gli armamenti e le scorte d'acqua e tutto ciò che poteva con la sua forza divina. Avrebbe potuto far ballare le scatole di gallette dall'accampamento fino alla cittadella ma aveva bisogno di movimento fisico per sconfiggere quella pesantezza che le aveva oscurato il cuore sin dalla morte di Scarlett.
Sono dei sacrifici era stato detto sotto quell'arco, seduti a guardare le luci del tramonto spegnersi in un mare di nuvole incandescenti.
Che Apollo sapesse qualcosa? Non era possibile, era un meccanismo più potente quello della Guerra di Troia, veniva dimenticato ogni volta... com'era era possibile allora che riuscisse ad intuire la verità dietro quell'affermazione senza pur esserne certa? Sacrifici di cosa? Per cosa o per chi? Sperò fosse solo una sua impressione e per la milionesima volta nella sua vita rimpianse di essere immortale, sicura che sarebbe vissuta abbastanza per vedere se era vero o no.
Jack e Win avevano fatto avanti e indietro dall'infermeria improvvisata fino alle mura di New Troy almeno quindici volte. Sarebbe stato fantastico se le formichine di Gabriel, quelle spettacolari guerriere che avevano falciato spettri come spighe di grano, avessero dato loro una mano, ma le Mirmidoni erano tornate ad avere sei zampe e un paio di antenne non appena la porta era esplosa in un eccezionale botto al gusto di alcol e polvere da sparo. Non avevano nemmeno avuto il tempo di ringraziarle che già erano scomparse nella folta foresta, probabilmente affamatissime e intenzionate a spolpare qualche agouti.
"Forza." Sbuffò Jack, sollevando la barella su cui giaceva un rantolante figlio di Nike. "Questo è l'ultimo."
"Meno male." Sospirò Win. "Non mi sento più la schiena."
"A chi lo dici."
"Fate piano..." Si lamentò il ferito, che in realtà aveva solo una contusione alla gamba e non stava certamente morendo.
"Senti, bello." Lo apostrofò il grosso rampollo di Ares, che aveva già esaurito il suo bonus pazienza più di un'ora prima con due fastidiosissimi figli di Hypnos che avevano preferito addormentarsi sul più bello ed erano stati trascinati per le gambe come i caduti di guerra pronti per la sepoltura. "È già tanto se il mio amico qui e io ti trasportiamo, perché con la feritina che c'hai tu, basterebbe darti un ramo e farti zoppicare fino all'entrata di quella fottuta città. È abbastanza chiaro?"
"Sissignore." Sussurrò il ridimensionato semidio.
"Bene. Bravo."
Winton sospirò di nuovo e fece una smorfia per il dolore delle dita intorpidite. Era stanco e moralmente esaurito. Aver vinto non aveva causato in lui nessun barlume di felicità. Al contrario: ora Win non poteva pensare ad altro se non a tutto ciò che era andato perso a causa di quella inutile guerra. Un sacco di armi. Un bel po' di salute. Scarlett. E, non meno importante delle altre cose, una buona parte della fiducia che aveva riposto sempre nella sua madre naturale. Dov'era Demetra, quando Abigail era stata ferita quasi a morte da un colpo di baionetta? Dov'era quando Marissa era precipitata in un nido di formiche e per poco non era stata mangiata viva? Win sapeva che i suoi non erano pensieri degni di un vincitore e che avrebbe dovuto rendere grazie dell'essere ancora vivo, ma non se la sentiva. Affatto. L'unica cosa che voleva fare era controllare che i suoi fratelli stessero bene e ritirarsi a riposare. Aveva davvero un gran sonno.
"Ancora qualche passo, Jack." Disse stancamente, notando che la voragine aperta dalla loro esplosione era sempre più vicina.
"Bene. Così potrò smetterla di fare l'ambulanza umana e potrò mangiare qualcosa. Ho fame."
"Hai fatto tanto quanto i tuoi sollevamenti mattutini."
"Sì, ma non hai considerato il peso delle lagnanze che ho dovuto sorbirmi."
Win sorrise debolmente e chiuse per un secondo gli occhi quando entrarono nella piazza d'armi. C'erano quasi, il riposo sarebbe arrivato presto.
All'inizio pensò che il tremolio provenisse dalle sue gambe. Forse stavano cedendo. Stava per svenire? Una botta di adrenalina lo scosse, per la paura di cadere a terra mentre ancora portava la barella, ma si rese quasi immediatamente conto che non erano di certo le sue ginocchia a fare giacomo-giacomo. Tutta la rocca stava leggermente tremando e nessuno se n'era ancora accorto perché il tremore proveniva dall'apertura dal quale erano appena passati. Alzò di scatto gli occhi dal terreno quando la barella cade malamente con un'imprecazione da parte del figlio di Nike.
"Jack, cosa...?"
Jack stava fissando un punto dietro Win con la bocca perfettamente a O. Winton ebbe quasi paura di girarsi anche lui, ma quando lo fece un terrore nero gli chiuse lo stomaco. Ci aveva preso: la rocca stava tremando. Ma non tremava perché era in atto un terremoto, no: erano le pietre, i calcinacci e le schegge di legno che erano state risparmiate dal grande botto. Erano quelle macerie che tremavano come se improvvisamente avessero preso vita.
"Win... che cazzo succede?" Balbettò Jack.
"Non... non lo so..."
Le pietre presero a levitare e gli occhi dei due ragazzi divennero grandi quanto piattini da tè. Atterriti e increduli dinnanzi a quel prodigio, non poterono far altro che guardare le macerie tornare prima lentamente e poi sempre più velocemente al loro posto. Anche alcuni altri semidei si accorsero del funesto prodigio, ma nessuno osò urlare o tentare di uscire: non potevano far altro che osservare. Le porte si ricomposero mentre le mura tornavano lucide e bianche come ossa e alla fine, con un pesante schiocco, un meccanismo all'interno dei battenti mise la parola fine alle loro speranze.
"Siamo in trappola." Sussurrò Win, prima che qualcuno si mettesse a urlare il nome di Nigel.
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