46. Una Diet Coke d'addio
La settimana, infine, si concluse. Si era trascinata come la peggiore delle torture per alcuni, mentre per altri era terminata troppo in fretta. Tutti comunque si trovavano d'accordo: il momento era giunto.
Nessuno si sentiva davvero pronto per quello che stava per accadere. Nemmeno i figli di Ares, che si erano dimostrati i più entusiasti della missione, erano più molto convinti. Era un'esperienza diversa da qualsiasi impresa avessero dovuto svolgere prima di allora. Prima di tutto perché non c'era persona che non fosse coinvolta: si parlava di più di settanta persone. Non era mai successo una cosa simile.
In secondo luogo non c'era semidio che non conoscesse l'Iliade e non sapesse cosa lo aspettava in quella nuova Troia che aveva preso domicilio in una fabbrica di rubinetti. Una guerra, ecco cosa sarebbe toccato in sorte a ognuno di loro. Una guerra. E a nessuno sfuggiva il fatto che in battaglia la sopravvivenza non è una cosa da dare per scontata.
Per i primi due giorni la domanda che aveva percorso come un brivido l'intero Campo era stata una e una soltanto: come raggiungere New Troy? C'era chi aveva sperato di non venirlo mai a sapere - avrebbe significato che non era il loro Destino partire, no? - e chi si era spaventato all'idea di farsela a piedi fino a Panama.
Tersicore... scusate, volevo dire Sue, aveva fatto una lunga ricerca che fortunatamente - o forse no? - era culminata nel ritrovamento di una vecchissima locandina di una stazione dal nome parlante: Teti.
"Come la madre di Achille." aveva subito precisato Iris nella tempestiva riunione dei capicabina che era stata indetta il terzo giorno "La divina Teti, ninfa marina immortale."
"Ma non solo." aveva precisato Sue, mostrando il cartellone a tutti i presenti "Teti è un acronimo. T.E.T.I. Treno Eroi Troia Indirizzati."
Metà dell'uditorio era sbiancato. Non c'era altro da fare se non preparare uno zaino, contattare la mamma o il papà e, chissà, magari dire una preghiera.
Winton aveva organizzato una riunione con i suoi fratelli e sorelle per rivolgere un ultimo sacrificio di frutti e fiori alla loro madre, Demetra, ma Marissa si era rifiutata di partecipare. Era stata all'iPhone con qualcuno per quasi due ore e poi era stata vista allontanarsi con il viso bagnato di lacrime.
Non era stata l'unica a chiamare i genitori, oltre a Gabriel. Anche Sia, in compagnia di Robert, aveva chiamato sua madre. Shila fu probabilmente l'unico genitore in grado di accettare in modo dignitoso la notizia data dalla figlia. Rimase in silenzio ascoltando le parole incrinate di Sia e alla fine annuì e guardò negli occhi sia lei sia Rob.
"Nagligivagit, paniga. Nagligivagit, irnira."
Rob aveva ormai imparato abbastanza parole di inuktitut per capire che gli si stava rivolgendo come a un figlio. Che come tale lo amava. Non si dissero altro. Nessuno pianse. Non era nello spirito di nessuno dei tre farlo, ma fu comunque una delle chiamate più intense. Successivamente Sia si ritirò nella fucina chiedendo al fratello di rimanere sola. Ci rimase fino a quando una luna a tre quarti si alzò nel cielo.
La notte precedente la partenza, il Campo si trovò avvolto in un silenzio spettrale. Tutte le luci erano state spente perché le direttrici avevano ordinato ai capicabina di spedire i propri fratelli a dormire presto, per essere pronti per la levataccia del mattino dopo. Solo il fuoco di Estia brillava fioco nel buio, come lo spirito di una speranza mai morta, ma tenue come un bagliore di fiamma.
I semidei si stavano preparando alla più importante missione di tutta la loro vita e ognuno cercava di trascorrere quella notte facendo un'unica, sostanziale cosa utile: dormire.
Ma, purtroppo, non tutti riuscivano felicemente nell'intento. Matthew fissava il soffitto della sua Casa, i nervi a fior di pelle e la sensazione di avere un nodo in gola e uno alla bocca dello stomaco, ma non era di certo il solo.
Nella tranquilla e silenziosa cabina Dodici, oltre la cortina di viti appesantite da grossi grappoli maturati al sole d'estate, Shoshanah ospitava qualcuno nel proprio letto, da cui erano state scalzate le lenzuola. Fabrice era sdraiato di fianco a lei e le loro mani riposavano intrecciate nel sottile spazio tra i loro corpi. Faceva caldo e non riuscivano a chiudere occhio. Avevano già trascorso più di un'ora imbozzolati nei propri pensieri, rinchiusi nella prigione del proprio silenzio e delle proprie preoccupazioni, quando Brice, all'improvviso, sussurrò: "Tu hai paura?"
La ragazzina non scostò gli occhi dal soffitto.
"Non lo so. Tu?"
"Io ho tanta paura." ammise Fabrice.
"Perché?"
"Perché ho paura di morire."
Shoshanah rimase silente per un po', prima di domandare: "Moriremo?"
"Non lo so. Spero di no."
Lei lasciò la sua mano e si girò su un fianco per guardarlo. La spallina della sua camicetta scivolò dalla spalla, assieme a una cascata di ricci. Nel buio i suoi occhi brillavano scuri. Erano accesi da una luce strana. "Io non ho paura di morire."
"E di cosa hai paura allora?"
"Non ho nessuno fuori dal Campo."
C'era un briciolo di emozione nella sua voce. Non era facile avvertirla, non lo era mai.
"Neanche io." precisò Brice, anche se sapeva perfettamente che le loro situazioni non erano affatto comparabili.
Shoshanah insistette. "Io non voglio vedere la mia famiglia in guerra."
Anche Brice si mise su un fianco e appoggiò il gomito come sostegno. Era magro, così magro che la maglietta sembrava di due taglie più grande, anche se era la misura più piccola del Campo. Colpa della malattia. Il suo fisico non avrebbe mai superato la fase dell'adolescenza. Ancora non si notava, ma Fabrice non stava crescendo, né in altezza, né in muscolatura.
"Però dobbiamo andare. L'impresa è di tutto il Campo." rispose "È questo che fanno gli eroi."
"Io non sono un eroe."
"Sì che lo sei. Tutti lo siamo."
Shoshanah sbottò: "Non voglio che Scarlett combatta. Non voglio che nessuno si metta in pericolo. Non voglio che lo faccia tu."
"Andrà tutto bene."
"Non è vero."
"Sì che è vero. Andrà bene."
La ragazzina appoggiò la testa piena di ricci sul cuscino, tese le braccia e le avvolse attorno al petto magro di Fabrice, affondando il viso nella maglietta del suo pigiama. Lui le carezzò i capelli stringendola a sé e disse: "Ci saranno tutti. Andrà bene."
Shoshanah non rispose.
Brice insistette: "Io ho te. Tu hai me. Abbiamo Scarlett, Sue e tutti i nostri amici. Pensa, Shosh: non saremo soli nemmeno sul campo di battaglia. Noi non saremo mai più soli. Mai più."
Lei alzò gli occhi sul suo viso. Fabrice si accorse che erano lucidi. Non aveva mai visto Sho piangere: solo in uno o due occasioni di sconforto eccessivo - tanti anni prima, quando ancora aveva una famiglia - aveva visto i suoi occhi diventare rossi in un principio di pianto, ma nessuna lacrima aveva mai solcato pubblicamente le sue guance. E anche in quel momento Shoshanah non piangeva. Ma erano amici da abbastanza tempo per capire quanto si stesse sentendo male. Era abbastanza legato a lei per comprendere la vertigine che la guerra stava per portare nella sua vita.
"Prometti."
"Promesso."
"Prometti che torneremo vivi."
"Lo prometto."
La ragazzina lo abbracciò stretto e, nonostante il caldo, Brice contraccambiò. Rimasero così fin quando entrambi iniziarono a sentirsi soffocare.
"Hai ancora qualche coca?"
"Solo Diet."
"Andata."
Alla fine si misero seduti fianco a fianco e aprirono un paio di lattine, opportunamente estratte da te una scatola segreta sotto il letto dalla gamba di vite.
Mentre bevevano in silenzio, le loro mani tornarono ad intrecciarsi.
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