24. Marilly e il Gabrielbondo
La casa di Demetra che era stata ricostruita dopo il piccolo incidente con l'ignuda statua di un imperatore leggermente egocentrico era più bella e più spaziosa della precedente. Ora i letti non erano più semplici cuccette ma veri e propri nidi decorati con fiori e erbe. Ogni lettino aveva la sua particolare caratteristica in profumo e colori.
Quello di Marissa si trovava subito sotto la finestra sul retro ed era adornato da verbena e menta. Era un letto molto accogliente, con lenzuola fini rosa chiaro e un cuscino decorato a non-ti-scordar-di-me. Ma l'ambiente era grazioso tanto quanto la sua proprietaria appariva spenta. Marissa Beata Clarissa Alvarez sedeva a gambe incrociate tra le coltri ordinate, un piccolo diario e penna tra le mani, un collare morbido al collo e lo sguardo perso oltre il vetro, oltre la foresta, oltre l'oceano. Mai come allora le era mancata casa. Avrebbe tanto voluto trovarsi nella cameretta che condivideva con i suoi due indolenti gatti, pronta a sentire la gentile voce della sua matrigna chiamarla per la cena e il canticchiare stonato di suo padre al ritorno dal laboratorio di botanica dove lavorava. Non essere costretta a stare relegata in casa della madre che non aveva mai visto né conosciuto per paura degli insensibili che non vedevano l'ora di prendersela con lei. Helen, i suoi fratelli, Iris, i figli di Ermes e di Nike... non sopportava nessuno. Doveva convivere con Win e gli altri che non erano poi male, ma nemmeno interessati in modo speciale a lei. Winton quantomeno era premuroso, ma Marissa non si abbandonava facilmente a illusioni: Iris sarebbe sempre valsa più di lei ai suoi occhi.
Erano quasi tre giorni che non usciva. Aveva già perso la sua adorata lezione settimanale di ecologia, ma le veniva la nausea al pensiero di vedere i sorrisi divertiti di tutti i suoi nemici a causa di quello stupido incidente che le aveva lasciato un collarino canino addosso. La cosa che forse la infastidiva di più - e le mostrava in modo chiaro quanto poco valesse per gli altri - era che Gabriel, il putativo colpevole del suo colpo di frusta, non si era nemmeno curato di sapere come stesse. Sul suo diario, dove Memo segnava la maggior parte dei suoi dolori, aveva già scritto: se fosse stata Iris, sarebbe accorso. Ma io non sono Iris.
Stava sottolineando con rabbia quella frase quando bussarono delicatamente alla porta della cabina. Dopo essersi rimesso a posto finalmente Gabriel si era deciso ad andare a chiedere scusa a Marissa sperando che non decidesse di trasformarlo in una pannocchia o in una melanzana. Senza badare ai due fratelli di Memo seduti fuori dalla cabina aveva bussato, speranzoso.
"Chi cerchi?" gli domandò una dei due, una ragazza pallida e biondissima di nome Abigail.
"Ehm, Marissa. C'è?"
"Sì. Ma non ti risponderà. Non vuole vedere nessuno."
Proprio in quel momento un flebile "Avanti" smentì Abigail, che si limitò a stringersi nelle spalle e ad invitare con un cenno il ragazzino nella cabina. Entrò nella cabina e venne investito da un forte odore di piante selvatiche e fiori di campo. La vide subito nell'ultimo letto in fondo, imbronciata e con un imbarazzante collare bianco attorno al collo. Le aveva fatto del male, che stupido.
"Ciao, Memo..."
Marissa non nascose la sorpresa nel veder comparire la persona di cui aveva parlato con acrimonia nel suo diario. Chiuse di scatto il libretto che teneva tra le mani e con voce lievemente turbata rispose: "Ciao, Gabriel." Per poi aggiungere subito dopo, riprendendosi dalla confusione iniziale "Cosa ci fai qui?"
"Mi dispiace per quello che ti ho fatto. Non volevo."
La ragazza non si scompose. "Hai parlato con Win?"
Gabriel sospirò ma dopo essersi comportato come un perfetto idiota non se la sentì di mentire di nuovo. "Potrei negarlo e dirti di no... ma sì, ho parlato con Winton. E mi sono sentito un perfetto idiota, davvero scusami."
"Va bene. Le accetto. Anche se immagino non sia giusto dare la colpa a te per un fulmine del tuo divino genitore. - si strinse nelle spalle - Comunque gentile da parte tua. Anche il fatto di non aver riso. Forse dovrei ringraziarti più per questo motivo, che per altro."
L'espressione di Marissa era delineata da un mix di ironia e amarezza.
"Non devi ascoltarli quando ridono... sai? - disse timidamente - sono solo stupidi... non capiscono."
"Capiscono fin troppo bene. Devo essere molto divertente, no? Sono così permalosa. Ma di sicuro Iris te ne avrà parlato. Conoscerai i miei lati negativi anche meglio di me stessa."
"L'unica cosa di cui Iris non parla mai sono i suoi, di difetti."
Marissa fissò il suo sguardo verdeggiante su Gabriel e improvvisamente parve più triste che sarcastica.
"Perdonami, Gabriel." mormorò, allungando le gambe oltre il bordo del lettino e alzandosi "Mi sto comportando come una pessima ospite. Tu sei stato così gentile." Si guardò attorno, ma dato che non c'erano sedie ma solo sgabelli straripanti vestiti e libri dei suoi fratelli, si voltò verso il suo nido e in un attimo lo rese presentabile sistemando con cura e rapidità le lenzuola.
"Ecco, ti puoi sedere qui. Scusa il disordine per... il resto. Le pulizie non sembrano funzionare granché."
Gabriel esitò un secondo ma preferì non offendere la padrona di casa e quindi si sedette sul bordo del suo letto. Anche in una situazione del genere tutto gli gridava in faccia: guarda come mette gli altri al primo posto. Aveva tanto, tantissimo da imparare, lì al campo. "Non è disordinata, è accogliente."
"I miei fratelli si impegnano, ma è più forte di loro lasciare in disordine..."
Marissa si fermo nel suo monologo e imbarazzata domandò a Gabriel: "Posso prepararti qualcosa, se vuoi. Abbiamo solo tisane, ma giuro che sono buone. E sono vegane, quindi fanno solo bene."
Per evitare di sembrare scortese Gabriel accettò di buon grado l'offerta. "È meglio che sia accogliente. Significa che è vissuta... la cabina Uno è fredda come un museo."
Memo sistemò su un fornelletto da campo un bollitore d'acciaio e si voltò a guardarlo. "Deve essere bello essere figli unici. Sentirsi speciali."
"E quando si viene riconosciuti si feriscono le altre persone... proprio un vero spasso."
"È stato un incidente. Caso chiuso."
Fu tanto schietta che parve essere tornata la ragazzina che li aveva accolti al campo.
"È stato un incidente, sì, ma spero che tu guarisca presto. So quanto possa essere pesante Helen."
Marissa e Gabriel si fissarono per un istante senza sentire il bisogno di dire altro. Per un secondo si capirono alla perfezione.
Poi accadde Helen.
Diciamo che il danno sarebbe stato decisamente minore se ad accompagnare Helen non ci fosse stata la fanfara della mensa armata di coperchi e mestoli di metallo. Non bisognava certo essere degli esperti di musica moderna per comprendere l'infimo valore di quell'interpretazione intitolabile Estrapolazione rantolante.
L'orchestra era accompagnata da un coro che pareva appena uscito da un canile con tanto di bau-bau e arf-arf magistralmente intonati.
Immediatamente Gabriel ebbe una sgradita ma veritiera panoramica su come doveva aver vissuto la sua ospite le sue giornate fino a quel momento. Soprattutto dato che Marissa fece finta di niente e con un'espressione solo leggermente rabbuiata si alzò e versò l'acqua calda in due piccole tazzine decorate a fiori.
"Come vedi ho uno zoo personale." fu il suo unico commento.
Dalla finestra giunse la voce dissacrante di uno dei fratelli di Helen, Colton: "Lilly, Lilly, dove sei? Sono pronti gli spaghetti con le polpette! C'è il tuo Vagabondo che ti aspetta!" seguita da tre battiti di mestoli e coperchi.
Marissa prese le due tazzine, tese una delle due al suo ospite e si sedette di fianco a lui con un sospiro.
"Ammirevole, vero? Hanno perfino un copione."
Gabriel bevve un sorso di tisana e chiese: "Come fai a tollerarlo tutti i giorni?"
"Ci si fa l'abitudine. Più o meno."
Gabriel guardò con quanto spirito di sopportazione mescolava il tè nella tazzina e, quando bevve il primo sorso del suo, la fanfara ricominciò a eseguire varie strofe di un canzone che lei doveva ormai sapere a memoria. Forse il tè gli sembrava amaro per quello... Non era una bella situazione.
"I tuoi fratelli non riescono a fare qualcosa?"
"Inizierebbero a torturare anche loro. Va bene così. Dovrebbero stancarsi tra qualche minuto."
Marissa non considerava però che Helen Bucket era un pozzo senza fondo di geniale crudeltà.
"Lilly! Daii esci che vogliamo vedere il tuo bel collare!" ululò subito dopo questo verso d'alta poesia, amplificando la sua voce con quello che Gabriel identificò come un megafono. Memo sbiancò come un cencio lavato con troppa candeggina. Riuscì ad appoggiare la tazzina di tè prima che le scappasse dalle mani tremanti e rimase immobile e traumatizzata sul bordo del suo letto.
"Il megafono no." bisbigliò.
L'innocuo oggetto propagatore di voce divenne in pochissimi secondi un'arma di distruzione di massa in mano a Bulldozer Helen, che iniziò a ricantare tutta dall'inizio il suo pezzo d'alta composizione musicale. Il giovane semidio pensò che se doveva proprio trovare un modo in cui testare i propri poteri, quello era il momento giusto. Allungò la tazzina di tè a Memo con un occhiata di scuse. "Solo un secondo."
Marissa gli lanciò un'occhiata confusa. "Cosa?"
"Davvero, penso di poterci mettere poco." Sorrise gentile e si alzò dal letto.
Quando Helen vide la porta aprirsi sperò quasi che fosse Marissa stessa ad essere uscita ma invece si trovò a fronteggiare Angelina Willow in tutta la sua sorridente gloria di nuovo cocco del campo, aka figlio di Zeus. Alla figlia di Ecate però non faceva paura, era appena stato riconosciuto, non avrebbe saputo friggere un uovo, figurarsi farle del male.
"Oh chi si vede, ciao, Angelina. Stavi consolando Lilly?"
"Non so cosa di preciso tu abbia contro Marissa, ma per favore, non potresti andartene?"
Forse Gabriel non aveva compreso che la diplomazia non era il forte di Bulldozer Bucket, proprio per niente. Quindi si stupì quando la ragazza si mise a ridere, al megafono mi raccomando. "Povero, POVERO ANGELINA!"
"Non voglio litigare, Helen. Cosa ti ha fatto Marissa, lasciala stare!"
"Cosa mi ha fatto? Chi sei? Il suo fidanzato. Prima di preoccuparti di difendere lei, dovresti preoccuparti di difendere il tuo di culo, Willow. Solo perché l'altro pischello sta con le bestie della cabina 5 e tu sei suo amico, non significa che sei al sicuro."
"Non ho paura di te." Affermò coraggiosamente.
"Solo perché sei figlio di Zeus non significa nemmeno che..."
"non c'entra niente quella roba. Non ho paura di te perché IO non ho paura dei codardi. Ve la state prendendo contro una persona malata e indifesa."
Le parole sembrarono per un attimo mancare a Helen, ma uno dei suoi concertisti sopperì alla mancanza. "Qui al campo nessuno è indifeso."
"Tutti possono essere indifesi anche se si hanno poteri speciali. Quindi anche voi."
Facendo un profondo respiro Gabriel si avvicinò agli assalitori morali di Marissa. Cosa gli stavano dicendo da due settimane gli insegnanti al campo? Ah si, che le proprie qualità vanno usate per il bene e questa gli sembrava la situazione adatta a dimostrare quanto aveva appreso. Non aveva però tenuto conto di una semplice cosa: il fattore incompetenza. Non tutti i semidei, infatti, capiscono subito che i poteri assomigliano molto a quegli scatti di crescita verso i dodici anni. Per due settimane si prende dentro ovunque, ci si riempie di lividi perché il nostro corpo è improvvisamente più grosso di quanto ricordiamo e non sappiamo controllarlo. La stessa cosa per le proprie capacità semidivine. Un fulmine non fa semidio figlio di Zeus tanto quanto una rondine non fa primavera. Averli evocati una volta, per sbaglio, non garantiva la certezza di saperlo rifare. Quindi, quando Gabriel stese le mani contro di loro sperando in scintille, bagliori e rombi di tuono tutto ciò che accadde fu...che stese le braccia coi palmi verso Helen. Ci riprovò e questa volta ci fu uno scoppio.
Di risate.
"Riattaccategli l'alimentazione per l'amor di Zeus!"
"Chi ha abbassato il salvavita?!"
Le risate lo fecero arrossire più violentemente di quanto non fosse successo quella volta che aveva trasformato un nome di qualche personaggio storico in una parola ben più imbarazzante. Perché non funzionava?! Le voci dei figli di Ecate divennero intollerabili alle sue orecchie, per dirla all'inglese Gabriel vide rosso. Con un atletismo che gli doveva essere cresciuto addosso in quelle due settimane, manco una mela sul suo albero, scattò in avanti e sferrò un pugno sul viso alla capocasa. Si sarebbe meritato una punizione? Forse.
Ma non gli importava. Vedendo Helen cadere si sentì colpevole ma poi sollevato. Non aveva mai fatto nulla per qualcun altro in quel modo come aveva appena fatto per Marissa. Si lasciò sfuggire una risatina. Quel pugno, quell'atto, lo avevano reso più parte di quella famiglia di gente sgangherata, più parte del suo nuovo mondo, che come tutti i mondi è fatto di persone che ci piacciono e persone che non ci piacciono.
"La pagherai, Angelina!"
"E io ti aspetterò!"
Helen Bucket lo fissò da terra con la felpa inzaccherata di povere, tenendosi la guancia. Le sue labbra sottilissime formavano il suo solito sorriso di scherno. Inaspettatamente gli tese la mano e altrettanto inaspettatamente Gabriel si trovò a prenderla per aiutarla ad alzarsi.
"Non sei così un senza palle, in fondo."
"Penso lo prenderò come un complimento."
La banda riprese i suoi strumenti e abbandonò il luogo dell'esibizione con la chiara intenzione di non farvi più ritorno, e Gabriel li guardò andare via. Si era guadagnato una punizione, il loro rispetto e un po' di autostima. Non era stato poi così male. Le insegnanti avevano ragione: i poteri, non solo quelli speciali, tutti i talenti, che si hanno sono un dono, e vanno usati per ciò che riteniamo più giusto.
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