22. Il Rotolino Canterino


Daphne non si era svegliata di buon umore. Quando aveva aperto gli occhi, lo sgradevole ricordo di un colloquio lavorativo non richiesto si era insinuato nei suoi pensieri, ghignando come un procione che si frega le zampette. Il mal di testa non aiutava di certo: aveva bivaccato fino a tarda notte a spasso per i prati del campo con, come unica compagnia, la sua fedele fiaschetta di metallo di scorta in cui la sua cara amichetta della casa Dodici aveva fatto comparire quel poco di alcol che le serviva per tirare avanti nella propria miserabile esistenza eterna.

A miss Scarabeth l'eternità stava abbastanza stretta. Certo, era una figata inaudita rimanere una diciassettenne a tempo indeterminato, ma dopo più di trent'anni, anche quel pregevole dono le era venuto un po' a noia. Il fatto è che era entrata nelle Cacciatrici con molta meno convinzione delle sue colleghe. Umana dotata del dono di vedere oltre la Foschia, aveva abbandonato il mondo dell'effimero dopo l'ennesima delusione amorosa. Ma la scelta, forse, si era rivelata un po' troppo azzardata.

"Un po' come quando punti tutto sulla casa sbagliata durante caccia alla bandiera." aveva spiegato una volta ad una delle sue più care amiche, Helen Bucket "All'inizio sembra la scelta del secolo, poi te ne penti appena rammenti che Atena ha sempre un piano e Ares è già tanto se si ricorda di respirare una volta al minuto."

Artemide le piaceva e la vita di comunità era divertente, ma c'erano troppe regole per i suoi gusti. A Daphne era sempre piaciuto vivere intensamente e ora tutti i maggiori piaceri della sua esistenza le erano stati tolti. L'unica cosa che poteva conservare - e lo faceva gelosamente - era l'amore per le feste e i superalcolici. Ogni volta che faceva sosta al campo Mezzosangue ne approfittava per sfiorare allegramente il sottile limite tra fegato sano e cirrosi acuta.

"Ho una relazione con i cocktail." amava ripetere "Io amo loro e loro mi rovinano. Proprio come fanno gli uomini."

E ora pure questa storia del lavoro. Pensava che accompagnare Fabrice le avrebbe concesso l'immunità da ogni sorta di impiego lì al campo e invece Sue e Scarlett l'avevano fortemente indotta - politically correct per costretta - a lavorare. Roba da pazzi.

L'unico lato positivo della faccenda è che poteva farla da padrone sul campo d'allenamento, dato che era il suo campo d'allenamento.

"Allora." esordì davanti ad un piccolo gruppetto variegato di semidei, il primo della giornata "Oggi impareremo le regole basilari del tiro con l'arco."

Una piccola figlia di Atena con capelli biondi e apparecchio in bocca alzò la mano e disse: "Ma noi già sappiamo tirare con l'arco."

Daphne la ignorò con tutta se stessa e continuò imperterrita: "Il concetto è molto semplice: la cosa davanti a voi si muove? Tirate la freccia. Smette di muoversi? Ottimo. Continua a farlo? Riprovateci."

"Non si potrebbe chiarire l'oggetto della frase?" Insistette di nuovo la biondina con problemi ortodontici. Miss Scarabeth cominciò a trovarla vagamente irritante.

"Per esempio tu, ragazzina, se continuerai a cicalare in modo così fastidioso, sarai un ottimo esempio di quello che intendo come oggetto della mia frase."

La dodicenne si tacitò subito.

"Bene. Se è tutto chiaro, là ci sono gli archi - indicò un punto non ben precisato al limitare del campo - e boh, poi cominciate a tirare frecce ai bersagli. E vedete di non infilzarvi troppo, i vostri compagni non sono spiedini."

Sotto gli occhi stupiti e confusi della piccola folla che di malavoglia si trascinava a prendere arco e faretra, estrasse la fiaschetta di metallo, la stappò e prese un lungo sorso brontolando: "Cosa sto facendo della mia vita. Insegnare ai marmocchi a tirare frecce. Non mi aspettavo questo dalla mia dannata esistenza."

Oltre alla petulante figlia d'Atena - che non faceva altro che guardare male l'insegnante - nel gruppo erano presenti il bellissimo William, l'altrettanto bellissimo figlio di Apollo, Callan Riddock e la non così bellissima sorella di Rob Hartless, Sia. Fino a quel momento Sia e Will erano stati fianco a fianco, la ragazza palesemente nervosa. Quando però Daphne aveva dato il via libera al recupero delle armi, c'era stata la corsa per accaparrarsi il pezzo migliore e Sia si era staccata a malincuore dall'amico.

Impegnata com'era a saggiare la corda di un arco, si accorse di una presenza infausta solo quando fu troppo tardi per riavvicinarsi a William e far finta di nulla.

"Ciao, Rotolino. Fai finta di fare sport?"

La voce di Callan era sferzante e crudele. Ogni volta aveva il potere di strappare il fiato dalla gola di Sia con la stessa potenza di un pugno nello stomaco. La ragazza non osò voltarsi. Cominciò a sudare copiosamente, mentre la corda dell'arco che pensava andasse bene per lei cominciava a tremare tra le sue dita. Questo non sembrò indurre Riddock a smetterla.

"Hey, Rotolino. Sto parlando con te."

"Ti ho già chiesto di non chiamarmi Rotolino." sussurrò Sia, ma la sua voce trasformò una frase severa in una preghiera intimidita.

"E come dovrei chiamarti? Denti da coniglio? Posso, sai. Non ho alcun problema a farlo, Rotolino."

Il normale colorito vagamente giallastro della pelle di Sia prese una sfumatura verde malattia. Senza accorgersene sul serio si succhiò per un secondo il labbro superiore, come a nascondere il diastema che aveva tra i due incisivi superiori e che tanti commenti cattivi sembrava averle tirato addosso. Possibile che un piccolo spazio vuoto tra denti potesse causare la cattiveria di così tanta gente? Callan non era di certo il primo che prendeva di mira quel suo difetto. Era però colui che aveva intrapreso il lento stillicidio della sua autostima.

"Callan, per favore..."

"Cosa, Rotolino? Dai, per una volta abbi il coraggio di reagire. Sei coraggiosa solo quando sei in compagnia di quel bestione di Hart, eh?"

Riddock stava lentamente sospingendo la sua vittima lontano dagli altri, un passo dopo l'altro costringeva Sia ad indietreggiare, utilizzando le sue parole come frecce. La ragazza lanciò uno sguardo a Will, ma lo vide impegnato nel tirare contro il bersaglio. In quel momento stava facendo una curiosa danza per prendere la mira, sotto le direttive di Daphne. Nessuno lo sapeva, ma quello era il modo completamente collaudato da lei per avere una larga panoramica del posteriore degli individui maschi più piacenti. Aveva giurato di non innamorarsi, non di non apprezzare un paio di belle chiappette, quando c'era occasione di farlo.

"Tu hai dei problemi, Callan."

"Probabilmente solo di noia. Vogliamo parlare dei tuoi?"

"Voglio solo che mi lasci in pace."

"Mi dispiace, Rotolino. Non penso sia proprio possibile. Sei così divertente. Sei grossa come un comò, però non hai nemmeno il coraggio di usare quell'assurdo lungo nome che ti ritrovi. Non si scappa così dai problemi, non te l'hanno mai insegnato? Lo sai che la prerogativa per essere un vero semidio è essere coraggiosi? Sei sicura di trovarti nel posto giusto, Occhi a Mandorla?"

Callan sorrideva sempre con dolcezza quando la insultava. Agli occhi di qualcuno che non lo conosceva, sembrava quasi che stessero discorrendo amabilmente, da buoni amici. Sia era terrorizzata da lui. Le sue parole rendevano sempre più instabile il pavimento di certezze personali sotto i suoi piedi.

"Io..."

"Non sei nemmeno fatta per stare tra i figli di Efesto. In quanto a bruttezza ci siamo, ma tutto il resto..."

Il bellissimo e maligno figlio d'Apollo arricciò le labbra e lasciò che la sua frase si stendesse tra loro come un piccolo e nefasto banco di nebbia. Sia deglutì e sentendo le solite lacrime pungerle gli angoli degli occhi, strinse a sé l'arco che aveva scelto e cercò di superare il suo carnefice.

"Come volevasi dimostrare." rise allegramente Callan "Non si difende: sa solo scappare come un coniglio. Forse dovrei davvero cambiare il tuo soprannome, Rotolino."

Sia strizzò gli occhi e si chiese come avesse fatto di male in una vita precedente per farsi odiare così tanto da una persona a cui non aveva fatto mai niente. Corse - ogni passo più goffo dell'altro - e raggiunse Will. Lui le scoccò un'occhiata interrogativa, ma la ragazza fece finta di non notare la sua domanda implicita. Cercò di concentrarsi sulla lezione, ma lo sguardo beffardo di Callan divenne una mano invisibile che deviava tutte le sue frecce ben lontane dal bersaglio.

Quando Daphne sbottò in un: "Ragazza, hai per caso dimenticato gli occhiali nella tua casa?" e Riddock scoppiò in una risata, Sia capì di averne avuto abbastanza.

Si mise in un angolo e osservò i suoi compagni, un velo di lacrime davanti agli occhi.


Su un'unica cosa si poteva dire che Callan ci avesse anche lontanamente preso: Sia non aveva il coraggio di utilizzare il suo vero nome. Già. Perché Sia non si era mai chiamata così. Il suo vero nome era Tarralikitak. Tarralikitak Sialuk Pickford. Farfalla della pioggia, o pioggia di farfalle. Un appellativo delicato per un'anima delicata.

Ma Sia non si era mai sentita degna di un nome tanto importante. Era convinta - o meglio, era stata convinta - che non fosse semplicemente abbastanza. Abbastanza per qualunque cosa, in realtà: abbastanza bella, abbastanza sveglia, abbastanza scaltra. Era solo una timida semidea mediocre. Di questo ormai era più che certa.

Sia era nata in Alaska quindici anni prima, unica figlia di Efesto - ma diciamo pure di qualsiasi altro dio - venuta al mondo nel territorio che era sempre appartenuto ai mostri. Sua madre Shila, inuk con contaminazioni Yupik, l'aveva cresciuta con tutto l'amore e la dignità possibili e perfino il suo divino genitore era stato parte integrante della sua infanzia, ma nulla di tutto ciò aveva avuto potere sulle inevitabili conseguenze di essere una bambina esquimese e dislessica in una scuola frequentata prevalentemente da umani bianchi. Sia era nata con un carattere positivo e vivace, ma con gli anni la sua insicurezza era cresciuta e l'aveva resa schiva e impacciata. Al Campo Mezzosangue si trovava molto meglio rispetto al mondo esterno, tuttavia in estate doveva sopportare le angherie del crudele figlio di Apollo. Anche quel giorno era andata così e il morale di Sia era almeno tre metri sotto di lei, completamente affossato.

Dopo la naufragata lezione di tiro con l'arco, decise di non continuare con il programma di eventi che aveva deciso al mattino - non aveva la minima voglia di rendersi ancora più ridicola giocando a pallavolo o arrampicandosi sulla parete - e se ne andò in fucina dove, ne era sicura, avrebbe trovato Rob.

Robert era una persona che incuteva paura: vuoi per la sua espressione neutra, vuoi per la sua parlantina tronca, vuoi per il suo aspetto massiccio. Anche i suoi fratelli, pur volendogli bene, non tentavano di attaccar bottone tanto spesso. L'unica che lo faceva quotidianamente e con cui passava la maggior parte del suo tempo era Sia. Non potevano essere più diversi, l'australiano dai capelli rossi e la piccola inuk, ma ormai erano molto più che fratellastri. Andavano nella stessa scuola a New York e da un paio d'anni avevano iniziato a trascorrere le vacanze lontane dal Campo, come quelle di Natale, assieme. Sia amava la compagnia di Rob perché dietro l'apparenza burbera era semplicemente buono, attento e paziente. Rob era l'unico altro grande dono - oltre al canto - che pensava di aver ricevuto dalla vita.

Lo trovò mentre faceva pausa dal lungo lavoro di forgia: era intento a rielaborare sottili fili di rame in una piccola scultura fatta di nodi metallici. Dalle grandi mani di suo fratello uscivano sempre e solo capolavori. Robert non era semplicemente un fabbro: era un artista, un compositore di bellezza, un poeta della metallurgia. Sia ne andava orgogliosa come se quelle capacità fossero state sue.

"Ciao." sussurrò entrando, a bassa voce per non distrarlo troppo dalla sua opera.

Robert alzò la testa dai suoi fili, voltandola automaticamente nella direzione della voce, il viso la solita maschera burbera, nonostante fosse genuinamente felice di vedere Sia.

"Perché sei qui?"

"Ho finito con la lezione di tiro con l'arco." rispose lei, andando verso la sua solita postazione per un controllo assolutamente pleonastico dei suoi strumenti da lavoro "Cosa dobbiamo fare oggi? Aggiustare la rete per la caccia alla volpe e forgiare un paio di nuove spade da allenamento?"

"Con le spade ho finito qualche minuto fa. Pensavo di dedicarmi alla progettazione."

Sia annuì e tenendo gli occhi bassi si sbrigò a recuperare carta millimetrata e una matita piatta da falegname. Li sistemò con cura sul lungo tavolo di metallo, a fianco della piccola scultura di nodi.

"Pronta."

"Qui non c'è nessun Riddock a dare fastidio. - disse il fratello appoggiandole una pesante mano sulla spalla - i cavalli della biga di Efesto hanno bisogno di qualche modifica."

Sulle guance della ragazza comparvero due visibili pomelli rossi, che si allargarono dai lati del naso verso l'esterno. Rob non aveva bisogno di vederli per capire quanto si fosse appena calata nella propria fossa privata dell'imbarazzo. Una buca che si era scavata con le sue stesse mani nel corso degli anni.

"È così chiaro che ho avuto a che fare con lui?" chiese a bassa voce, recuperando da un cassetto un paio di bozzetti ben ricalcati dei cavalli di bronzo che venivano usati per la corsa delle bighe, una gara ormai poco di moda, ma che si svolgeva comunque un paio di volte l'anno.

"È chiaro per me. Non mi piace sentirti triste per colpa di uno come lui. Tu sai fare tante cose."

Mentre conversava accantonò la scultura di fili e si accostò ai bozzetti, prendendo una grossa lente da tavolo e avvicinandola a Sia, come a porgerle una scaletta dalla sua fossa personale. Sua sorella accennò un sorriso.

"Non posso dire che la giornata sia iniziata bene. Cercherò di migliorarla."

Accettò la lente e ordinò i due disegni, mettendoli uno a fianco dell'altro, proprio davanti a Robert. "Cosa dobbiamo migliorare?"

"Voglio farli volare."

Gli occhi di Sia erano sempre stati sottili, ma all'idea del capocasa si sgranarono tanto che per un secondo parve caucasica. "Cosa?"

"I Pegasi volano. I cavalli della casa Nove voleranno. Basterà alleggerire le struttura, diminuire gli ingranaggi secondari e munirli di ali."

"Dovranno anche avere degli opportuni mezzi di propulsione, o il bronzo non si alzerà mai in volo." commentò Sia, ritrovandosi all'improvviso concentrata nel piano di suo fratello e pian piano esaltata dalle nuove possibilità. Prese il bozzetto più completo del cavallo, lo sistemò sotto il proprio foglio e lo ricalcò con pochi e pratici gesti. Applicò delle ali proporzionate e verosimili e poi guardò Rob. "Più grandi?"

Rob si accostò alla lente e la regolò, fissando per svariati minuti il progetto.

"Dipende dal tipo di propulsione che useremo."

"Di sicuro un propellente chimico per generare gas caldo ad alta pressione. La combustione migliorerà la resa energetica. Massimo risultato, minimo sforzo. Un po' come uno shuttle." rispose Sia, abbozzando una camera di combustione in un rettangolino del foglio "Se riusciamo a controllare e indirizzare la propulsione, il cavallo si alzerà in volo, le ali potranno avere un meccanismo meccanico che sfrutta l'energia liberata dalla propulsione in maniera tale che si muovano su e giù, dando l'impressione, con il loro movimento ritmico, che siano loro a sostenere tutto il suo peso."

Si fermò, guardando il disegno. Arrossì di nuovo, come rapita da qualche cattivo ricordo e poi aggiunse: "Forse ho detto un sacco di sciocchezze."

"No. Affatto. Sono delle buone idee. Forse su qualche libro ci sono dei disegni tecnici di camere di combustione che possono servirci. Li studierai."

"Li studierò."

Sia abbozzò un sorriso. Sarebbe suonato un ordine a tutti, tranne che a lei. Rob non ordinava: quello era semplicemente il suo modo di chiedere dal momento che non aveva scelta. Non poteva studiarli da sé.

"Hai bisogno di nuove lenti?"

"Non penso - rispose lui togliendosi gli occhiali a massaggiandosi gli occhi - non ancora."

Sia osservò suo fratello mentre maneggiava la parte più delicata di sé e nuovamente nei suoi pensieri comparve la malvagia figura di Callan. Normalmente riusciva a non esprimere alcun malessere in presenza di Robert, ma c'era una cosa che l'aveva colpita particolarmente quel giorno. Quel giorno, la fossa di Sia era divenuta più profonda di un altro metro.

"Oggi mi è stato detto che non vado bene per i figli di Efesto." bisbigliò con un nodo doloroso in gola. Era qualcosa che, lo sapeva, l'avrebbe fatta impazzire se l'avesse tenuta soltanto per sé. Minava alla base la sua stessa essenza.

"Non è vero. Hanno più valore le parole di Riddock o le mie? Le mie." rispose tranquillo Rob, rimettendosi gli occhiali.

"Però tu sei di parte. Tu mi vuoi bene. Forse... forse non vedi le cose come le vedono gli altri."

L'espressione di Rob si irrigidì. Con un gesto secco puntò un cacciavite contro la sorella. "Questo è poco ma sicuro. Ma so essere oggettivo."

Sia trasalì, fissò l'arma impropria e poi sospirò. "Davvero lo saresti con me? Mi diresti davvero se facessi schifo?"

"I tuoi lavori di meccanica di minuteria fanno schifo. Te l'ho sempre detto."

"Come persona. Callan dice che sono una codarda. Che non uso il mio nome perché ho paura. E sai cosa? Non ha tutti i torti."

"Non devi ascoltarlo. Non usi il tuo nome se no tutti ti chiederebbero di ripeterlo cinquantaquattro volte. Non perché hai paura. Non devi averne, non ce n'è bisogno."

"Ma io ho paura di lui, Rob."

Sia sussurrò la sua affermazione a bassissima voce, sicura che le fini orecchie di suo fratello avrebbero comunque colto.

"Se hai paura di lui lo affronti, così come si fa con tutte le paure. Se invece Riddock ha un problema con la casa di Efesto, dovrà renderne conto a ME personalmente. Vedremo chi ha paura."

"Tu non capisci. Non si può affrontare come una paura qualsiasi, come avere paura dei ragni o del buio. Lui mi fa paura per quello che mi dice. Tu non hai il suo sguardo malevolo sempre e perennemente addosso. Non capisci cosa voglia dire essere guardati con tutto quel disprezzo, qualsiasi cosa faccia."

Il tono di Sia si era all'improvviso illuminato di un lampo di stizza per la caparbietà di Rob a voler ridurre il problema di Callan ad una fobia qualsiasi. Robert si zittì e abbassò gli occhi, per poi riprendere a parlare senza fretta.

"Non vederci non significa non sentire gli sguardi. E tu questo non lo puoi sapere."

"E tu non puoi sapere cosa vuol dire vedere con fin troppa chiarezza quanto la gente ti trovi patetica. A volte incrociare lo sguardo con persone come Callan scatena il finimondo. Puoi dirmi quello che vuoi, Rob, ma dubito che l'aniridia ti permetta di decifrare come un codice a barre lo schifo che ci viene riversato addosso. E io lo decifro fin troppo bene."

A questo Robert non rispose, rinchiudendosi in uno dei suoi proverbiali silenzi che sarebbe probabilmente durato fino a cena. Non ce l'aveva con Sia, assolutamente no! Ce l'aveva con quella larva di Callan Riddock e con i suoi occhi. Sia aveva ragione: Non capiva cosa volesse dire ciò che lei provava... ma avrebbe fatto il possibile per evitare che riaccadesse. Si passò il cacciavite tra le dita pensieroso.

Sia rimase invece a fissare i progetti per il cavallo alato a propulsione con la morte nel cuore. Si sentiva peggio di prima per aver risposto male a Robert. Soprattutto per avergli ricordato il fatto che non ci vedesse. Non che suo fratello si offendesse a sentir parlare della sua rara malattia genetica che fin da piccolo non gli aveva mai permesso di avere, senza occhiali, più vista di una talpa - giusto un paio di decimi - ma la ragazza pensava che utilizzarla per difendersi non la rendesse migliore di Callan. Si afflosciò come un soufflé sgonfio e borbottò un: "Scusa. Non avrei dovuto dirlo."

Uno striminzito mh fu tutto ciò che ricevette in risposta. Poteva voler dire molte cose; in questo caso: "va bene non c'è problema scuse accettate".

Sia capì che quella sarebbe stata decisamente una giornata no. Uno dei suoi Nope-Day. Era abbastanza spaventata dal loro aumento. Non ne aveva nessuna voglia, ma sapeva che era la cura adeguata. Sia per lei, sia per Rob e i suoi mh striminziti. Semplicemente chiuse la bocca e iniziò a canticchiare una delle canzoni del suo vasto repertorio che comprendeva tutta la discografia di Owl City. Plant Life le parve adeguata. Era una delle preferite di entrambi sul lavoro. La melodia riempì il silenzio mentre, come se non si fossero mai interrotti, i due riprendevano a lavorare. La fucina tornò lentamente ad essere un luogo di pace e la sua tranquillità promise di risanare qualsiasi ferita.  

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top