7.
Berlino, Giugno 1932
Charlie sospirò, lasciandosi scivolare di bocca tutto il suo sconforto, e prese a fissarsi i piedi intorpiditi dal continuo camminare.
Cristo sanguigno, se voleva un nuovo paio di stringate.
"No, Charles, linguaggio" si disse.
Là all'angolo, dietro di sé, intravedeva il liftboy intento a spiarlo fingendo la migliore impassibilità.
"Anche lui ride di me? Vi prego, smettetela. Smettetela tutti quanti. Chissà cosa penserebbe, se mi attaccassi alle sue labbra seduta stante."
Ma no, non ne valeva la pena, per nulla. Uscito da quella gabbia in movimento desiderava solo una cosa: una bottiglia di whiskey per uccidere la sua testa in procinto di esplodere. Non ne poteva più di ricevere e attirare attenzioni, non ne poteva più degli sguardi delle cameriere e delle accompagnatrici che intorbidivano le sale da ballo e i ristoranti e i café al piano terra.
Voleva solo fumare, bere e morire nascosto da qualche parte tra il materasso e il soffitto della sua micragnosa suite.
"Charles, suvvia, contegno."
Domani, un altro colloquio, altro tedesco da sciorinare senza nemmeno capire a momenti perché una parola seguiva l'altra, e poi un altro colloquio, e ancora fino alle quattro.
Ecco, un sobbalzo lo avvertì che era al capolinea, e il liftboy con la sua impassibilità gli aprì le grate di sicurezza.
L'aveva già visto prima ancora di mettere piede in corridoio, là appoggiato alla balaustra accanto alle scale, e lui s'era già voltato, attirato dal tintinnio e dallo sferragliare del metallo, e lo guardava stanco, con gli occhi bassi d'un cane che vuole farsi perdonare un torto.
Pareva sollevato.
«Charlie, buonasera...»
«Leonhard...» L'inglese si avvicinò alla porta della suite 674, indugiò per un attimo faticando a trovare la chiave nel taschino del gilet. «...vogliate scusarmi.»
«Vogliate scusarmi voi, Sir» rispose Leo.
"Troppo brusco, rallenta. Dimmi che vuoi con calma e poi lasciami solo. O forse no, ecco, vieni a fumare e bere e morire con me."
«Sono stato rude, l'altro giorno in piscina» proseguì il tedesco approfittando del suo impaccio. «Per questo mi evitate?»
Charlie evitò di mostrare il suo imbarazzo e affondò le dita nella tasca, trovò finalmente la chiave, la infilò nella toppa.
Attese.
«Sono stanco, Leonhard. Lasciatemi in pace, per un po'. Non sono dell'umore...»
Ora era lui a essere ingiustamente crudele, e soffriva così tanto a infliggere inutilmente dolore. Che motivo aveva, in fondo, quando non chiedeva altro che essere bloccato contro la porta e spinto dentro e... non aveva nemmeno il coraggio di dirlo a se stesso, il trattamento che avrebbe desiderato subire.
"Coraggio... sì, coraggio, un piccolo sforzo."
«Io... vorrei parlarvi ancora, solo... non ora.» "Charlie, quanta fatica per parole così goffe, che oscenità" pensava, "Lo starà pensando anche lui." «Quando mi sentirò meno imbranato, sì.»
Leonhard prese un po' di colore e abbozzò un sorriso. «Certo, Charles, vi capisco...»
Charlie si chiuse la porta alle spalle, prima che quell'agonia proseguisse ulteriormente.
Perché era un idiota?
"Apri la porta e chiedigli scusa, se serve ricoprilo di baci."
Ma non poteva.
Imbecille lui con le sue giornate storte e imbecille quell'altro là dall'altra parte che aveva la faccia tosta di trattarlo come... come un...
Dio, perché lo aveva fatto?
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