68.

Hougcross, nel Kent, Gennaio 1946


La Bentley 8 Litre attraversò sfrecciando la strada di campagna, tanto veloce da far vibrare la nera e lucida carrozzeria. Al posto di guida sedeva Philip Fitzgerald, terribilmente, tristemente silenzioso; accanto a lui stava Leonhard, con un cilindro di legno smaltato poggiato sulle gambe, trattenuto con l'attenzione che si dà a un neonato. Non era stato facile procurarselo, se non grazie all'aiuto di Philip e a un'attenta ricerca per le coste della Francia settentrionale. Ricordava perfettamente dove l'aveva seppellito, là in quella fossa senza nome non molto distante da Calais, segnata solo da un ceppo secco, dal tronco morto e cavo di un... ma non poteva essere, nulla più d'un caso, che fossero i resti d'un tiglio.

Aveva scavato di sua mano tra quelle radici, estraendone poi nient'altro che le nude ossa conservate intatte dalla terra, ancora avvolte nella sua uniforme azzurra. Le bruciarono in città, prima di imbarcarsi per Dover, dove li attendeva l'automobile. Philip licenziò l'autista, dicendo che doveva essere lui ad accompagnarlo, e nessun altro. E ora eccoli lì, diretti verso una casa che Leonhard non aveva mai visto.

Entrambi erano usciti provati da quegli anni, consumati nel corpo e nello spirito, ognuno nella sua parte. Phil, che era sempre stato magro, ora che aveva superato da qualche tempo la sessantina appariva smunto, cadaverico. La pelle cascava vuota e fine intorno alle labbra sottili, smorte; gli occhi s'erano circondati d'una muraglia di fitte rughe scure, e la stempiatura era avanzata verso la nuca ormai più grigia che nera.

Leonhard non era tanto differente, pur con trent'anni di meno addosso: la prigionia gli aveva assottigliato il busto, gli arti e il viso, e i capelli pallidi s'erano diradati. Ma il cambiamento più profondo restavano gli occhi, che ogni giorno trascorso rendeva sempre più d'un grigio lattiginoso, d'un colore malato.

Leonard piegò la testa e guardò la campagna oltre il finestrino, sospirando. Era stanco, ma sereno. «Sarà un mese che mi accompagni, ma non ho ancora avuto modo di chiederti come sta la cara Dortha, dopo tutto questo tempo» chiese, nella speranza di far sciogliere anche il suo compagno di quell'ultimo viaggio.

Phil non si smosse, rimase piegato a guardare la strada. «Circondata da dottori, anche se gode di ottima salute. Non parla quasi più, ormai» rispose con voce atona, monocorde. «E tu invece? Ho saputo che ti sei sposato, prima della guerra.»

«Abbiamo appena divorziato. Erika è ancora una mia cara amica. Pensiamo di fare affari insieme, ora, nel campo della ristorazione, ma è tutto un forse, coi tempi che corrono.»

«Vi auguro ogni bene, allora. Il futuro merita di sorridervi almeno un poco, adesso. Anche lei è finita internata?»

«Come?»

«Mi chiedevo, anche lei è stata internata come te?»

«No, grazie al cielo no. Lei non... non ha colpe, forse il rimorso di un'amica abbandonata ma... No, ha la sua innocenza.»

Phil emise un grugnito d'assenso e si zittì, continuando a guardare la strada. Poco dopo si fermarono a un incrocio e svoltarono a destra.

«Come mai non ho più avuto tue notizie dopo la Polonia? Aspettavo qualche tua richiesta, qualche ordine a cui rispondere che non potevo.»

«Mi è stato detto di non contattarti, non eri ritenuto sufficientemente affidabile. Mi dispiace.»

Leo fissò il vecchio al suo fianco, interdetto. Eppure non avrebbe dovuto aspettarsi altro da loro. «Ho perso... per...»

«Mi dispiace, ho detto. Non è dipeso da me.» Fitz continuava a guardare la strada ed evitava di incrociare gli occhi dell'uomo al suo fianco. Era visibilmente a disagio. «Siamo quasi arrivati» mormorò infine.

«Sei sicuro di non voler venire con me? Non conosco la casa.»

«No, non reggerei. Vai tu solo, è un tuo diritto. Troverai la servitù, tanto. La mantiene la baronetta, anzi, la contessa. Anche se penso sia ripartita, ora. Ma nel caso, non chiamarla mai per nome, ricordati.»

«Va bene, Phil.»

L'auto rallentò, si fermò davanti a una pesante cancellata che nascondeva un grazioso giardino e, oltre un filare di siepi, una piccola villa georgiana dai toni rossi.

Leonhard prese l'urna in braccio. «Come stanno i tuoi figli?» chiese mentre un guardiano apriva il cancello.

Phil rispose senza battere ciglio: «Il maggiore è morto a Dunkirk, nel '40. Il più piccolo in Olanda, l'inverno scorso.»

«Mi... mi dispiace.»

Fitz sospirò. «Non fa niente. È così che va la guerra, e noi non possiamo farci niente, solo seppellire i nostri figli. Ma avrei preferito per loro una vita in pace. Avrei preferito seppellissero me.»

Leo esitò mentre l'auto si fermava per l'ultima volta. Alla fine era giunto, e come aveva predetto ormai dodici anni prima, aveva paura. Ma ormai aveva quasi trentasei anni, ed era stanco di quell'inutile timore.

«Grazie di tutto, Phil, non potrò mai sdebitarmi abbastanza.»

«Mi terrai sulla coscienza fino alla tomba, caro Leo, ho già sentito questa solfa. Ora va', su.»

Tempo prima, Philip avrebbe riso malignamente e nemmeno troppo in segreto – Leonhard ne era sicuro – della sua condizione, ma ora, davanti a lui, c'era solo un uomo rassegnato, un vecchio stanco. E lui non poteva provare null'altro che il più umano compatimento.

«Lo farò, Fitz, stanne certo.»

Chiuse la porta e si avvicinò all'ingresso, si permise un profondo, interminabile respiro e mosse un passo avanti.

Un anziano maggiordomo uscì dall'edificio, lo squadrò, squadrò ciò che portava e senza dire nulla lo accolse in casa. Leonhard fu accompagnato attraverso un ampio salone fin nella sontuosa sala da pranzo, dove ad attenderlo, seduta a un lungo tavolo in mogano, stava una figura femminile dai boccoli bruni e dagli occhi verdi e ocra a lui così familiari.

Dio, sarebbero stati così simili e nemmeno tanto distanti.

«Chi siete?» chiese lei rompendo l'eco dei passi che ancora aleggiava loro intorno.

Il maggiordomo, ancor più silenziosamente di come s'era presentato, s'accommiatò.

«Io...» Leonhard esitò per un secondo, incerto sulle parole e sulla lingua, «...sono l'uomo che ha ucciso vostro fratello.»

La donna non si mosse, strinse solo il pugno sopra il tavolo.

«E sono l'uomo che ha amato Charles Acton, dal primo momento in cui l'ho visto fino all'attimo in cui ho premuto il grilletto. E ancora adesso lo amo, e continuerò a farlo fino al mio ultimo spasmo in petto.»

La donna s'alzò lentamente e lentamente s'avvicinò. Doveva essere poco più grande di lui e, nonostante tutti i dolori, le sofferenze e le privazioni che aveva sopportato, era ancora bella e splendente come il giorno in cui era sbocciata. O almeno, così Leonhard immaginava: bella e splendente e immutabile come Charlie era stato.

Lei lo guardò con durezza e tese le mani. Non disse nulla.

Leo gelosamente guardò un'ultima volta l'urna e la appoggiò su quei palmi. Fu come togliersi una libbra di carne dal petto.

«Ma voi chi siete?» chiese ancora la donna, stringendo l'urna al cuore. «Davvero, chi siete?»

«Sono Leonhard Von Hinten, signora contessa, e oggi sarei stato barone come fu mio padre, non fosse caduto l'impero. Sono stato pilota come vostro fratello e combattente nella parte opposta, sono stato internato e profugo e soldato, sono stato...» Leonhard tremò e trattenne un lungo sospiro liberatorio. «...semplicemente un uomo.»

La donna si voltò, s'allontanò da lui e posò l'urna sul tavolo. Continuava a fissarla, forse sperando le parlasse; continuava a scorrerne la liscia superficie con amorevoli carezze, ma tutto ciò che otteneva in risposta era solo il suo riflesso distorto nel legno smaltato.

«Potete andare» gli ordinò senza voltarsi, «E ringraziate il mio amore per Fitzgerald se potete andarvene senza danni; ha garantito lui per voi.»

«Certo, Gwenny. Vi ringrazio del tempo dedicatomi.»

La contessa fu scossa da un singulto. Ora era lei a doversi togliere la sua libbra di carne.

«Von Hinten» lo chiamò mentre lui se ne andava.

«Sì, signora contessa?»

«Voi... voi potete... potete venire a farci visita, quando lo desiderate, d'ora in poi. Siete... siete il benvenuto in casa Acton, per il bene che avete voluto a Charles.»

«Vi sono grato, signora contessa, e vi saluto. Possiate mettervi in pace col vostro animo come io ho fatto col mio. Arrivederci, nella speranza che non sia un addio.»

Leonhard trovò la strada da solo. Phil, appoggiato con un gomito sul tettuccio della vettura, lo attendeva sul viale. E così, a cuor leggero, mano nella mano coi suoi fantasmi e il suo presente, Leonhard salì sull'auto e uscì di scena.

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