66.
Berlino, Maggio 1945
Agathe guardava Pariser Platz da una finestra del secondo piano. Oltre di essa, oltre la Porta di Brandeburgo, oltre la pioggia leggera di quella terribile mattinata... il Reichstag era caduto.
Hugo le toccò una spalla.
«Eccoli, che facciamo?»
Agathe vide la strada in cui ancora si combatteva, vide Tiergarten devastato dalle bombe e dalle fiamme che le gocce leggere non riuscivano a spegnere. Imbracciò il fucile e puntò.
«Ci massacreranno tutti, Hugo, sia noi che i feriti di sotto.» Prese meglio la mira su un soldato che correva verso l'albergo, seguito d'appresso da un altro.
Quella, a pensarci bene, era la prima volta che sparava.
***
Albert udì lo sparo e s'abbassò d'istinto.
Il proiettile fischiò e lui si sentì colpito da una mazza d'acciaio sul cranio. Inciampò e rotolò a terra.
«Albert!» urlò Leonhard lanciandosi su di lui e coprendolo col proprio corpo.
«Va' via, stupido» borbottò Albert intontito, «Ora sparerà anche a te.»
Leonhard lo trascinò nell'ingresso di un palazzo e gli tolse l'elmetto.
«Come stai?»
Per fortuna il proiettile aveva colpito di striscio la protezione ed era rimbalzato senza penetrare il metallo.
«Bene, sto bene. Dammi una mano a rialzarmi. Oddio, ora vomito...»
«Hai rischiato di morire da stupido.»
Albert deglutì e alzò un pollice. «Dobbiamo stare più attenti.»
«Perché te ne rendi conto solo ora?»
«Perché il colpo non è arrivato dal parco, Cristo santo, ma dalla parte opposta.»
***
Boleslaw si trascinò per la piazza e guidò quanto rimaneva della sua compagnia verso Tiergarten, dove si annidavano disperate le ultime SS. Dio, se odiava i tedeschi. Non c'era nulla che l'avvelenava di più, sin da quando era nato a Lwów. No, qualcos'altro c'era.
«Forza, compagni! Manca poco!»
Un cecchino colpì un soldato poco distante, e quelli intorno si dispersero e corsero al riparo. Solo un coraggioso si lanciò verso il ferito per trascinarlo al coperto.
Li guardò con un misto di stupore e orgoglio, poi alla luce rossa dell'alba li riconobbe, e in lui montò la rabbia.
***
Erwin Lüthenmeyer vagava per Tiergarten in stato catatonico. Dopo tutti quei giorni ancora impugnava la sua granata.
In mezzo agli alberi distrutti intravide i soldati sovietici, sentì i loro spari. Qualcuno urlò verso di lui - in francese, gli parve. La granata gli sfuggì di mano e lui cadde a terra come morto prima ancora che gli sparassero.
***
I soldati sfondarono la barricata nella sala comune e salirono verso il piano superiore. Agathe sparò un altro colpo, senza sapere bene dove mirare, poi gettò l'arma a terra e corse verso le camere del personale, scappando verso il locale caldaie.
Alcuni la inseguirono, la afferrarono, lei urlò. La trascinarono di nuovo nella sala comune e la portarono davanti ai resti ammaccati della fontana, dove altri soldati tenevano prigionieri i disperati che avevano provato a resistere. Avevano già cominciato ad affogarli, uno dopo l'altro, spingendo la testa nell'acqua bassa tra le risate e gli insulti. Misero anche lei in fila, proprio dietro al povero Hugo, il cui volto era stato ridotto a una maschera tumefatta.
Agathe tirò e cercò di liberare i polsi trattenuti. «Basta, fermatevi!» urlò.
Uno degli aguzzini s'avvicinò e le mollò un manrovescio, suscitando gli sghignazzi degli altri. Qualcuno si allontanò per devastare il bancone del bar e razziare tra i café e i ristoranti le poche bottiglie di liquore lasciate incustodite e sopravvissute all'assedio. Festeggiavano, e intanto ammazzavano i prigionieri senza far distinzione tra civili e soldati, tutti insieme sott'acqua come cani, per il puro gusto di scherzare.
La costrinsero ad avanzare, ma un soldato la notò e le venne incontro, fermò i compagni e le afferrò il mento, scatenando un secondo urlo e un calcio tra le gambe, che lo piegò in due a mugolare. La schiaffeggiarono ancora, la trascinarono fuori dalla fila.
«Hugo!» chiamò lei, ma il vecchio monco venne fermato subito con una bastonata in faccia.
La tenevano in tre, quello del calcio guidava il corteo - tutto preso a massaggiarsi lo scroto e bofonchiare. La portarono di sotto, verso le cucine e di lì alle cantine. Agathe gemette mentre la spingevano contro il muro che ne sigillava l'entrata.
«No!» ripeteva, e allontanava le loro mani che si insinuavano lungo le sue braccia e le esploravano la gonna.
Ridevano ancora, provavano a tenerle fermo il volto e le schiacciavano la gola, ignoravano le lacrime e il pianto e si slacciavano i cinturoni. Provarono a tapparle la bocca, lei morse il polso di chissà chi e fu di nuovo colpita in faccia.
«Pietà, pietà...» implorò, mentre chiudeva gli occhi e chiedeva di non essere lì, di non sentir più nulla o semplicemente che la sofferenza non durasse a lungo, prima di cedere il passo alla morte.
***
«Voi due!» urlò l'ufficiale polacco.
«Albert, corri!» gli ordinò Leonhard trascinandolo tra le rovine di Unter den Linden. Mentre scappavano ogni tanto si guardava indietro, cercando disperato lo sfregiato che li inseguiva.
Fortunatamente quello arrancava, tenendosi una mano premuta contro il fianco sinistro, e dopo meno di un isolato fu costretto a desistere, scomparendo in mezzo alle macerie.
«Dobbiamo tornare indietro» implorò Albert, «L'Adlon è dall'altra parte!»
«Zitto! Ci sta seguendo!»
Leonhard si asciugò la fronte e sospirò. «Dobbiamo aspettare, Albert. Dobbiamo aspettare ancora un poco.»
L'altro si stese in maniera scomposta e si portò una mano alla tempia ferita, coprendosi gli occhi. «Non posso più aspettare. Non riesco più» sussurrò singhiozzando.
Leonhard gli strinse il polso, cercando di fare forza a se stesso.
Intorno, ignari, correvano i soldati.
***
Lüthenmeyer riprese conoscenza dopo il tramonto. Si mise a sedere e, ancora stordito, udì le urla concitate e il rumore dei panzer e dei cannoni che andava facendosi più rado. Disperse l'ultima foschia dagli occhi e mise a fuoco i soldati delle SS che si aggiravano intorno agli alberi spogli.
Sì, ora ne era sicuro, parlavano francese.
In quel miscuglio di lingue e comandi già non capiva più nulla.
«Dove... dove sono i soldati tedeschi?» chiese balbettando, ma ottenne solo d'essere trascinato in piedi.
Gli spinsero a forza un mitra tra le mani e lo spedirono verso Sud attraverso i sentieri un tempo circondati di verde. Doveva scortare i civili, gli dissero, e fuggire approfittando del buio.
Tra gli alberi intravide i torrioni squadrati della contraerea, ma non li raggiunse; si unì invece a un fiume di persone che fuggiva in un sinuoso torrente verso Est. Provò a capire chi fossero i suoi compagni, ma gli era difficile distinguere tra soldati e civili, e non solo per le tenebre: ogni volto era livido di terrore, ogni voce - che fosse tedesca, norvegese o cecoslovacca - rotta dalla paura.
Lui, in mezzo a quell'inferno, non si sentiva per nulla differente.
Mentre arrancava e perdeva terreno riconobbe la sfarzosa uniforme di qualche alto generale, il pastrano di un agente della polizia del partito, un volto familiare visto forse in un ritratto. Per un attimo gli parve di riconoscere persino qualche ministro, ma dovevano essere allucinazioni, ormai.
Nemmeno si accorse che erano arrivati al limitare del parco. E che l'ultimo drappello di fuggiaschi lo aveva lasciato indietro. Si scosse e lanciò un richiamo, sperando che qualcuno rispondesse.
Un faro spazzò la foresta, e Lüthenmeyer avvertì il sangue mancargli nelle vene e fu di nuovo sul punto di svenire. Sentì provenire dalla strada oltre gli alberi urla e grida di terrore, e non appena a essi si aggiunsero raffiche e spari lasciò cadere il mitra e si voltò per mettersi a correre.
Qualcuno inciampò su di lui ed entrambi rotolarono per terra.
«Merda!» sentì sbraitare, e riconobbe un tedesco.
Alzò la testa e una mano in cerca d'aiuto, ma nelle orecchie gli esplose un colpo di pistola.
Incassò il pugno alla spalla e non emise un suono, solo un lieve sbuffo. Cadde all'indietro, la schiena contro un tronco, e nel buio distinse il lungo cappotto d'un ometto piccolo, insulso. Spaventato.
Non capiva. Non capiva più nulla e intanto il freddo gli stringeva la spalla e si allungava verso il petto e il collo. Era troppo stanco per capire perché l'ometto insulso - forse un poliziotto - impugnasse la pistola con mano tremante, perché se la puntasse alla tempia...
Era troppo stanco per sentire anche quello sparo.
***
«Credo sia finita» sussurrò Leonhard sporgendosi sulla strada.
«Non ne sono sicuro, io sento ancora sparare» biascicò Albert. Il colpo alla testa di quella mattina ancora si faceva sentire, in qualche modo.
«Vuoi tirarti indietro proprio ora?» lo punse Leonhard nel vivo.
«Assolutamente no, andiamo ora che s'è fatto buio.»
Sempre sul chi vive attraversarono Unter den Linden e tornarono verso Pariser Platz, ormai saldamente in mano ai sovietici.
«Albert, sei cosciente che lei potrebbe non essere là?»
«Sì, e non ci voglio pensare. Non distruggermi quest'ultima speranza.»
«Ecco, siamo arrivati.»
«Leonhard, io mi sento stanco... tu vedi il polacco?»
«Non credo, no.»
«Entriamo, allora.»
S'intrufolarono nell'albergo e inorridirono.
I soldati erano sparsi per tutta la sala comune, e si stavano divertendo a demolire stanza per stanza l'intero palazzo. Intorno alla fontana dai neri elefanti ormai irriconoscibili giacevano abbandonati numerosi cadaveri, umidi di acqua e sangue.
Leonhard si soffermò per un poco su un uomo mutilato di un braccio, ma distolse presto lo sguardo.
Albert si tolse l'elmetto e guardò esterrefatto i vandali. «Leonhard, di' loro di fermarsi, chiedi se hanno visto una donna...»
Più a gesti che a parole riuscirono a farsi indirizzare verso la cantina dei vini, sotto lo sguardo poco convinto di molti della truppa.
Nonostante la fatica Albert, un passo dopo l'altro, s'affrettò e si mise a correre, rischiando più volte di cadere su uno scalino sfuggente o di perdersi in quell'intrico di corridoi.
«Agathe!» urlò, e dopo l'ennesimo corridoio sentirono dei gemiti distanti.
«Agathe! Sto arrivando!»
«Zitto, smettila di parlare in tedesco o ci metterai nella merda!»
Leonhard provò a colpirlo e trattenerlo, ma Albert gli sfuggì e corse avanti.
La trovarono là, in un angolo della cantina, legata a una tubatura sporgente, i vestiti ridotti a stracci laceri e sozzi.
«Agathe!» gridò Albert gettandosi su di lei per liberarla.
Leonhard arrivò subito dopo e non badò tanto alla donna, quanto ai tre soldati russi che armeggiavano con la parete dietro cui si nascondevano i liquori. Quelli si alzarono e guardarono crucciati i nuovi arrivati. Intorno a loro giacevano i mitra e le bottiglie che non avevano avuto la fortuna di trovarsi sottochiave, vuote.
«Nessuno faccia un passo» ordinò Leo in polacco, puntando il fucile.
Sentì Albert sbuffare di rabbia e lo vide snudare il pugnale.
Uno dei soldati gli andò incontro barcollando e si avvicinò ad Agathe, ora libera. Cadde senza nemmeno accorgersene, la baionetta piantata nel petto.
Gli altri due urlarono e si avventarono su Albert, lo spinsero a terra e gli misero le mani al collo.
Leonhard sparò, mancò il bersaglio e s'avventò su di loro, brandendo il fucile a mo' di mazza, ma fu scaraventato contro un muro e batté la testa. Sentì che qualcuno gli sfilava la baionetta dal fodero, ma era troppo stordito per reagire immediatamente.
Albert soffocava, la gola schiacciata sotto il peso di un intero corpo. Si fece forza e scalciò, allontanando da sé l'avversario. Il compagno ne prese subito il posto e strinse con più forza.
Albert annaspò e cercò Dio.
Il soldato allentò la presa e lentamente s'alzò. Agathe, dietro di lui, gli premeva il coltello sulla gola.
«Agathe...» la chiamò Albert. «Agathe.»
«Andate via!»
Leonhard tossì e si tolse l'elmetto. Si rimise in piedi zoppicando. «Agathe, lascialo andare.»
«Come...»
Albert si scoprì il capo e aprì le braccia, e lei scoppiò a piangere.
Leonhard raccolse il mitra di uno dei soldati. «Lascialo andare, Agathe, ora è tutto sotto controllo.»
La donna lasciò cadere il soldato catturato e si lanciò tra le braccia del marito. Piangeva e si copriva i seni arrossati e coperti di graffi, devastata.
Albert la strinse a sé e provò a consolarla, le baciò i lividi sul volto e sulle cosce e le diede la propria giubba. Le strette spalle non riuscivano a nascondere la sua collera.
Allinearono i due prigionieri contro il muro, sotto la sorveglianza di Leonhard, che ancora sentiva la testa pulsargli malamente. «Andate» disse poco dopo ad Albert e Agathe, «Non c'è più nulla che vi trattenga qui.»
«Te ne occupi tu?» chiese Albert. La sua voce vibrava per la furia sopita e sul punto di esplodere.
«Sì, me ne occupo io. Portala a casa, Albert.»
«Io premerei il grilletto subito» sibilò Albert, stringendo la sua amata.
«No» intervenne Agathe, lo spirito deciso nonostante la debolezza fisica. «Non servirebbe a niente...» bisbigliò prima che Albert la trascinasse via.
Leonhard rimase coi due prigionieri, che continuavano a fissarlo ubriachi e spaventati. Poggiò una mano sul caricatore a tamburo del mitra e rimase a guardarli. Accarezzò il ponticello e raggiunse il grilletto, convincendosi che, se fossero sopravvissuti, sarebbero tutti finiti davanti a una corte marziale.
Era il nemico, no? Due in più o in meno non avrebbe fatto differenza. Ripensò alle ultime due settimane, a ogni colpo sparato contro fratelli tedeschi. Che cosa era cambiato da allora? Nulla. Allora perché si tratteneva? Tornò sui due superstiti davanti a lui: non vedeva due avversari; vedeva semplicemente due idioti, come tutti quanti lì in mezzo.
La guerra era finita. Non ne valeva più la pena.
«Andate» ordinò loro indicando l'uscita della cantina con la canna dell'arma. «Prima che me ne penta, andate...»
L'occhio gli cadde sul punto del muro in cui i tre soldati si stavano affannando al suo arrivo: avevano scavato un buco tra i mattoni e lo avevano riempito di granate.
«Andate» ripeté mentre in testa gli si infilava un'idea ancora più idiota.
Quelli, pur non capendo, non se lo fecero ripetere una terza volta e lo lasciarono lì, da solo, a rimuginare sui suoi piani.
Lasciando tutto così, avrebbero comunque avuto diverse cose da spiegare, pensò Leonhard... a meno che non avesse trovato molta carta e qualcosa che fungesse da miccia.
***
L'esplosione scosse le pareti umide e proseguì attutita verso le scale.
«Che succede?» si chiese Agathe voltandosi, ma l'unica cosa che vide uscire dal buio furono le sagome dei due soldati.
Per un attimo fu combattuta tra la paura e la rabbia, prima di trovare la forza per dare loro il perdono. Albert sicuramente non era della stessa idea, e già portava la mano al fodero. Si bloccò prima di raggiungerlo.
«Alzate le mani e non fate gesti stupidi» ordinò Boleslaw in cima alle scale. Alle sue spalle attendevano quattro dei suoi pronti a far fuoco.
Albert e Agathe s'irrigidirono e non mossero più un passo, mentre i due soldati alle loro spalle li superarono e salirono a fatica i pochi gradini tra loro e la salvezza.
Sulla volta del corridoio andava addensandosi una cupa nube di fumo.
«Ci lasci andare» balbettò Albert, dimentico di non poter essere capito. «La prego, le chiedo solo questo.»
Boleslaw strinse il pugno ed estrasse la pistola. Ordinò qualcosa ai due russi e i suoi li presero in consegna, trattandoli alla stregua di prigionieri.
«Che è successo là sotto? Qualcuno me lo può spiegare?» chiese sprezzante.
Agathe fu scossa da un accesso di tosse.
«La prego...» insistette Albert.
«Albert, maledizione... non ti può capire» gli ricordò Leonhard giungendo alle sue spalle. «Andiamo via, prima di morire soffocati» consigliò tra un colpo di tosse e l'altro.
L'ufficiale abbassò l'arma. «Avete trovato ciò che cercavate?»
Anche Albert iniziò a sentirsi la gola bruciare e si piegò in due.
Leonhard fissò con decisione il superiore. «Ci lasci andare, la prego.»
«Perché dovrei farvi vivere?»
«Perché dovrebbe ammazzarci?»
Il polacco sospirò. «Quindi lo avete trovato?»
Leo si voltò a guardare Albert e Agathe, di nuovo insieme. «Sì, lo abbiamo trovato.»
«Buon per voi... e avete ammazzato anche qualche russo?»
Leonhard fu per un attimo interdetto, scosse la testa e debolmente annuì.
«Quando tagli la legna, i trucioli volano.» Il polacco abbassò l'arma. «Andate allora, e non fatevi più vedere. Di quello che hanno combinato questi bastardi ubriaconi me ne occuperò io. Dio, se c'è solo una cosa che odio più dei tedeschi...»
Leo rimase sorpreso. Si aspettava di morire là sotto, in fondo. Bastò un cenno ad Albert: anche lui s'aspettava di dover agire più che parlare. Un po' gli ricordava Charlie, coi suoi modi impetuosi e il suo continuo scordarsi di un dopo.
Lo invidiava, ormai.
Superarono le scale e il picchetto polacco, che s'aprì per farli passare - mancava solo il presentatarm per rendere la scena ancora più assurda. L'ufficiale e i suoi li seguirono nella sala comune dove ancora si festeggiava la vittoria e si misero a urlare verso gli altri soldati, intimando loro di evacuare l'edificio in fiamme. Il fumo salì attraverso la sala comune e per le rampe di scale fino all'ultimo piano, spingendo gli occupanti verso l'uscita. Nessuno aveva abbastanza energie per provare a domare le fiamme; non ci provarono nemmeno, non che importasse loro.
Agathe, Albert e Leonhard scapparono in piazza insieme a tutti gli altri, abbandonarono le armi e, sorvegliati dalla luna calante, cercarono rifugio tra le rovine di Unter den Linden.
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