64.
Berlino, Aprile 1945
Cominciarono l'assalto dopo aver respinto i rinforzi nemici da Ovest, e attraversarono l'anello della ferrovia tra Bergfelde e Neuendorf. Albert e Leonhard incontrarono i primi difensori ancor prima di entrare in città: vecchi armati di lanciarazzi, pazzi suicidi, disperati.
«Stammi vicino» mormorò Leo, stringendo la spalla del compagno.
Albert restituì la presa. «Forza, ci siamo quasi.»
Avanzarono attraverso le borgate settentrionali, fino a Wittenau; videro i soldati tedeschi ritirarsi verso il centro, si scontrarono coi cecchini; ripulirono ogni strada, ogni palazzo, presero i nidi di mitragliatrici, catturarono i cannoni finché non ordinarono di interrompere l'ingaggio.
«Ci spostiamo verso Tegel e di lì nel settore orientale» spiegò Leonhard in un momento di riposo.
Albert si disperò. «Ma siamo così vicini a casa mia.»
«Che vuoi fare?»
«Una pazzia.»
***
Adolf Schulz congedò la staffetta, salì al piano di sopra degli uffici postali e strinse a sé il fucile. «Hanno superato Teltow, a breve saranno qui.» La sua voce era ben lontana dal trasmettere coraggio.
I pochi impiegati rimasti al suo fianco si strinsero a lui contro le finestre e controllarono le armi. Quasi nessuno sapeva usarle.
«Siamo pronti, signore» disse uno di loro.
Adolf buttò giù la saliva nella gola secca, e si chiese se lo fossero davvero.
Lui, in cuor suo, non lo era.
***
Agathe arrotolò le maniche e strinse i lacci del grembiule trovato in uno sgabuzzino.
«Ecco, arrivano i primi» la avvisò Hugo, di sentinella a una vetrina.
Gettò un'occhiata alle brande schierate lì come in ogni altra stanza dell'hotel, ancora immacolate, che presto avrebbe infettato. «Ce la possiamo fare.»
«Guarda come trema il palazzo. Speriamo non ci crolli addosso.»
«Hugo.»
«Sì?»
«Dammi la mano.»
***
Il sovrintendente Lüthenmeyer si aggrappò all'ufficiale davanti a lui. «Dovete darci qualcosa! Non potete mandarci al macello disarmati!»
Il militare si scostò e lo spinse fuori dalla caserma, insieme agli altri – giovani e anziani, inabili e mutilati, ora soldati. «Non abbiamo più nulla, fate da voi.»
«Ma sarà un massacro.»
Il soldato lo strattonò e si sfilò dal cinturone il manico d'una granata a martello. «Tieni questa.»
«E cosa dovrei farne?»
«Svita il tappo e tira la corda quando ti prendono.»
***
Louis Adlon strinse a sé sua moglie Hedda. Si erano nascosti nella cantina della loro casa, sperando che i sovietici non li trovassero.
Ripensò a tutti i sacrifici che aveva sopportato per mantenere aperta la sua attività, a quanto aveva piegato il capo per non vedere l'inferno che regnava in Europa, a cosa aveva fatto e non fatto.
«Non dovevo iscrivermi al partito» ripeteva tra sé e sé, mentre la moglie piangeva e gli stivali dei militari arrivavano a bussare alla porta. «Non dovevo proprio iscrivermi al partito.»
***
«Avanti, Heinrich, dobbiamo andare.»
«Reggimi ancora, Lehmann, non sento più la gamba.»
«Se riuscissi ti prenderei in braccio, Heinrich. Forza, siamo quasi a Tiergarten.»
«Sento freddo, Lehmann, il torpore mi ha preso le mani.»
«Resta in piedi, Klaus, non ce la faccio da solo.»
«Attento, ci sparano addosso.»
«Non farti trascinare, Klaus, ti prego. Resta in piedi.»
«Ti sono solo d'intralcio. Lasciami qui o prenderanno anche te.»
Rupert Lehmann appoggiò il compagno a un muro pericolante e si sedette sulle macerie imbiancate dalla polvere. Dove aveva lasciato la pistola? Non ricordava. «Non ti lascio solo, compagno» disse, e ansimò. «Piuttosto aspetto qui con te. Ma non ti lascio solo, no.»
Klaus-Heinrich lo guardò. Aveva gli occhi spenti, respirava a fatica, perdeva sangue dal collo e dal fianco, dove lo avevano preso le schegge di mortaio. «Nulla ha più senso ormai» sussurrò affogando nei suoi liquidi infetti.
Un colpo di cannone scosse la strada.
«Nulla ha più senso, Rupert.»
***
Agathe tirò l'ennesimo ferito sulla branda, gli tolse cintura e giberna e lo spogliò di giubba e camicia. Aveva un foro nell'addome: non sarebbe sopravvissuto. Gli accarezzò la guancia glabra, la pelle diafana, e represse le lacrime.
Non aveva nemmeno vent'anni.
***
«Agathe! Agathe, amore mio!»
Albert batté i pugni sulla porta e non ricevendo risposta la sfondò con un calcio.
Leonhard gli si lanciò addosso e lo spinse a terra. «Sta' giù, o ti farai colpire!»
«Spostati, fammi alzare!»
Sentirono grida arrivare dal secondo piano, inchiodarono gli occhi sulle scale in fondo al corridoio e attesero.
«Che facciamo, saliamo?» chiese Leonhard.
«No, non è affar nostro.» Albert si avvicinò alla porta dell'appartamento e bussò. «Agathe! Ci sei, tesoro? Agathe, rispondi!»
Al silenzio che seguì Albert fece parlare il calcio del fucile con la serratura. Finalmente entrò, di nuovo a casa.
L'appartamento apparì davanti a lui abbandonato, ogni superficie ricoperta da un fine strato di polvere. Nell'aria aleggiava il puzzo di chiuso.
«Agathe!»
«Albert...»
«Agathe!»
«Albert, qui non c'è nessuno. Fermati, è inutile.»
Albert scosse il capo e corse in camera da letto, aprì ogni anta e ripostiglio, controllò ogni stanza.
«Eppure è ancora tutto qui... dove può essere andata?»
«Albert.»
«Che c'è?» chiese Albert, voltandosi esasperato.
Leonhard teneva le mani alzate e guardava verso l'ingresso. Un ragazzetto cencioso stava ritto sulla soglia e puntava malamente il fucile contro di loro.
«Ascolta, non siamo nemici...» provò a dire Albert, ma il ragazzo agitò il fucile e lo zittì.
Leo volle attirare l'attenzione su di sé. «Ragazzo, guardami. Se spari colpirai uno solo di noi due, e l'altro ti sarà addosso prima che tu possa ricaricare, sempre che il fucile non ti spezzi la spalla. Noi non vogliamo farti del male, siamo tedeschi come te, quindi abbassa quell'arma e lasciaci andare.»
«Chi sei tu, il figlio di qualche vicino? Sono Albert Weinrich, questa è casa mia» insistette Albert.
Il ragazzo spostava l'arma ora su uno ora sull'altro, incerto sul da farsi. Tremava per la paura.
«Ascolta, ragazzo» continuò Leonhard, «Lo senti? Lo senti il rumore degli spari, delle urla, dei panzer? Sono i russi che si avvicinano. Getta l'arma e mettiti in salvo coi tuoi compagni, scappa di qua, finché puoi.»
Albert lentamente si tolse l'elmetto e guardò il ragazzo, ma non osò avvicinarsi. «Ascoltaci, per favore. Da quanto tempo nessuno viene qua dentro?»
Passarono alcuni attimi incerti, poi il Kar 98k colpì il pavimento e il giovane sparì verso le scale.
Albert tirò un sospiro di sollievo.
«Rimettiti l'elmetto, dobbiamo andare via ora» gli comandò Leonhard. «Cerchiamo Agathe altrove.»
«Sì, ma dove?»
«Nell'unico posto dove l'ho mai vista.»
***
Il Kriminalkommissar Rudolf Hofmann aprì la piccola cassaforte e vi gettò dentro l'accendino senza nemmeno guardare, prese le sue vecchie medaglie, le gettò nella borsa e afferrò il cappello. «La pistola, dove l'ho messa?»
Come se fosse potuta bastare, ma gli dava quel poco in più di sicurezza. Eppure non aveva più tempo, doveva andare, ormai marciavano su Postdamer Platz, alle spalle del palazzo.
Una granata Panzerfaust colpì qualche finestra più in là e infranse i pochi vetri ancora intatti.
Rudolf prese la borsa e corse al pianoterra. Doveva uscire da una via secondaria: poteva ancora farcela, sì, c'era speranza. Si aprì una strada tra gli uffici abbandonati e le scrivanie rovesciate, gli archivi distrutti e le celle vuote; raggiunse il cortile posteriore e scappò verso il centro, scavalcando i cadaveri e sparendo lungo Wilhelmstraße, prima che i sovietici prendessero anche lui.
***
Boleslaw Jaruzelski della I Armata Polacca si passò una mano sullo sfregio che gli deturpava naso e guancia, superò la ferrovia e ordinò l'assalto allo zoo in mezzo al parco – o quanto ne rimaneva. Davanti alle sue rovine, una torre cubica di cemento dominava il quartiere e seminava devastazione con la contraerea che ne affollava le terrazze in cima ai bastioni. Ondata dopo ondata, Boleslaw si convinceva che non si potessero smuovere, che fossero infrangibili ai continui colpi di mortaio e agli attacchi dei corazzati. No, di quel passo non ce l'avrebbero fatta, concluse. Richiamò a sé gli uomini e contò i morti.
«Dove diamine sono i due fottuti tedeschi?» si chiese appena ebbe finito. Durante i combattimenti degli ultimi due giorni li aveva completamente persi di vista.
Ordinò l'ennesimo attacco e si spinse fino ai primi alberi insieme ai suoi uomini, incurante del fuoco continuo e costante sopra le loro teste. Mentre lanciava una granata, s'augurò che i due bastardi disertori fossero morti.
***
«Agathe, devi riposarti, ormai è sera.»
«No, Hugo, ce la faccio.»
«Agathe, stai per svenire.»
«No, ancora un ferito, portatene ancora un altro.»
«Continuerai domani, Agathe, devi dormire.»
«Hugo, ma cosa ne sai? Ci saremo domani?»
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