62.
Berlino, Febbraio 1919
Aveva chiesto di non essere lasciata più sola, quando la strapparono allo scantinato in cui era stata abbandonata, aveva chiesto di non lasciarla più al buio. Nella stamberga di periferia dove trovò ospitalità, effettivamente, dimenticò cosa fosse la solitudine. Le dissero che non avrebbe più dovuto temere nulla, che avrebbe avuto sempre la compagnia delle altre bimbe della camerata – sempre, dal primo piscio la mattina fino al coricarsi la sera. Persino la notte sentiva i loro respiri leggeri. E trovò tra le altre cose la compagnia delle punizioni, delle bacchette sulle nocche e degli spunzoni sulle cosce, punte di sorpresa, così veloce da non lasciare il segno se non nell'animo. Ricordava quanto colpissero duro appena capitava uno sbaglio durante lavoro, lezioni e persino riposo. E ricordava quanto fosse affollata quella stamberga, non come ora.
Era sempre lo stesso dannato incubo, in fondo, con sempre gli stessi infermi a tormentarla, stesi nei letti dell'ala ospedaliera che le faceva tanto paura. Odiava l'odore di vuoto e malattia, odiava i corpi infetti e le anziane istitutrici che la trattavano male se non aiutava i bisognosi. Odiava il parroco che passava ogni giorno a pregare con loro, che ficcava in bocca a forza il pane e il vino consacrato, senza nemmeno chiedere permesso. Una volta provò a morderlo – era una parte ricorrente nel sogno – ed era stata immobilizzata dalle anziane e picchiata. Gli schiaffi dei maestri si aggiungevano subito dopo, tra uno sprazzo di ricordo e l'altro.
Ecco, il parroco era già svanito, dissolto nell'oblio del sonno, e arrivava lo spavento del menarca, le prese in giro delle più piccole, le coperte insozzate, il senso di colpa e di vergogna. Quel fugace momento di comprensione da parte delle anziane – una vera sorpresa – veniva spesso saltato a piè pari.
La stamberga finiva per rimpicciolirsi ma rimaneva sempre affollata, anche se molti passavano per il cimitero lì accanto. Così aveva perso un bambolotto a cui teneva, ricordava ancora, raccattato cucendo insieme vecchie fodere per cuscini: una bimbetta glielo aveva sottratto e non lo mollava nemmeno per dormire la notte, e così l'aveva portato nella tomba quando s'era beccata la tisi. Anche lei una volta era finita sulle brande dell'ospedale, proprio dove provava più schifo, per una brutta tigna che le aveva divorato per oltre un mese fianchi e gambe. Dio, l'orrore delle piaghe, ancora fresco...
Ma era già al ricordo successivo, quando, al primo seno maturo, l'anziana supervisora l'aveva chiamata nel suo ufficio per dirle che era il tempo di abbandonare la vecchia stamberga. Le diedero un vestito nuovo e le dissero: «Trovati un vero lavoro.»
Le avevano insegnato a cucinare e pulire fino a quel momento, e la consegnarono a un vecchio borghese che l'attendeva lì nell'ufficio della superiora, un uomo che pareva enorme visto da così in basso, con sottili baffi scuri. L'accompagnò alla porta e se la portò come sguattera a casa. I primi soldi che ottenne a quel modo li spese per comprarsi due scarpe nuove, che non le facessero sanguinare i talloni in estate e gelare i mignoli in inverno. Finalmente poté dimenticare il fango che infestava il cortile della stamberga, la palta che rivestiva i mattoni del primo piano e nascondeva la calce vecchia di un secolo. La vita era proseguita per un anno, prima di approdare all'Hotel Adlon con una lettera del vecchio padrone. Il signor Lüthenmeyer l'aveva assunta dopo un serrato colloquio e una bella squadrata di tutto il suo corpo, dalle scarpe che portava al suo bel faccino. Andava bene, disse, era sufficientemente presentabile. Non che ci volesse granché a rifare 90 letti al giorno e pulire altrettanti cessi.
Albert era arrivato di lì a poco, con una consegna di stufe nuove per l'ala Nord e l'offerta di passare un bel pomeriggio in Monbijoupark. Ma non era quello che il cervello le diceva di sognare, no, era altro con cui poteva tormentarla. Era l'incertezza, la fragilità degli stessi mattoni di cui era fatta Berlino. I loro piedi affondavano nell'argilla e si avvicinava la tempesta. Sì, Albert lo capiva sempre, quando l'aria puzzava di pioggia. Sarebbe arrivata prima o poi, stava arrivando in quel preciso istante, e lei sarebbe stata pronta? Come l'avrebbe affrontata? A questo il suo cervello non rispondeva, le ripeteva solo «Arriverà e tu non potrai farci niente.»
E sarà l'ora più buia della nostra esistenza, sì, lo sapeva. Era stanca di tutta quella tiritera, era stanca di soffrire quei ricordi che le martellavano il cranio. C'era modo di riuscire a controllarlo? Forse sì, forse ci stava riuscendo proprio in quel momento.
La testa le pulsava mentre l'incubo si perdeva in una valle di nebbia. Sentiva ancora voci ora immaginarie ora reali, poco a poco sempre più le seconde delle prime, nulla che riuscisse a fissare, a mettere a fuoco, finché una solo non dominò le altre e le riempì le orecchie.
«Miei fratelli tedeschi, parlo a voi stasera per due motivi: primo, così che possiate udire la mia voce e sapere...»
La radio? Chi la stava ascoltando? Chi era? Nell'altra stanza? Lì affianco? Nemmeno capiva. Doveva alzarsi, spegnere quell'affare, non voleva più ascoltare nulla. Ma era tutta così rigida.
«...I particolari di un crimine senza paragoni nella storia della Germania.»
Doveva concentrarsi, doveva imporsi di reagire. Ecco, riusciva a piegare gli indici, si accorse.
«Una piccola cricca...»
Non voleva più ascoltare.
«...Ha cospirato per eliminarmi.»
Con un altro sforzo, percepì i medi e gli anulari, e di lì, poco a poco, tutte le mani.
«...Sono rimasto completamente illeso. Io vedo in questo la mano della provvidenza...»
Agathe finalmente riaprì gli occhi e la maledisse, la dannatissima provvidenza.
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