58.
Seelow, Aprile 1945
Il terzo giorno le Alture furono degli assalitori. Nel primo pomeriggio le ultime forze tedesche, ormai scompaginate e in rotta, furono completamente accerchiate e annientate.
Albert aveva assistito con orrore alle fitte linee di fucilieri sovietici che assaltavano in massa le postazioni nemiche, quasi fossero insensibili al pericolo e al dolore. Una volta al campo, quando l'ubriachezza e l'adrenalina lasciavano il posto alla realtà, i lamenti e i pianti lo tormentavano fino all'alba del nuovo assalto.
In mezzo alle buche paludose davanti a Seelow era scampato alla morte più e più volte, e rimpiangeva a ogni occasione il servizio nella Wermacht. Quel pomeriggio fu finalmente concesso loro di riposarsi, e alla truppa furono distribuite nuove razioni. Almeno di quello non ci si poteva lamentare.
Il tenente venne a trovarli mentre perdevano tempo a guardare i trattori trainare pezzi d'artiglieria. «Tu, togliti l'elmetto» disse a Weinrich, che stava attento a non farsi mai vedere a capo scoperto.
Ovviamente Albert non capì, e lo fissò preoccupato, incerto sul da farsi.
Leonhard si toccò la fronte e provò a spiegarsi a gesti, ma ottenne solo di instillare ancor più paura nel corpo di Albert.
«Non siete polacchi, vero? Che siete, tedeschi? Cechi?»
«Tedeschi» rispose Leonhard. «Togliti l'elmetto, Albert. Prigionieri politici, signore.»
«E io come dovrei fidarmi di voi? Vi potrei far fucilare per spionaggio. Spie pietose per giunta, il tuo amico non parla né russo né polacco.»
«Questo prova che non siamo spie, signore. Io quel poco che so della vostra lingua l'ho imparato dagli altri prigionieri miei compagni. Vi prego, possiamo combattere, e vogliamo solo tornare a casa.»
«Combattere? Tu?»
Albert girava la testa a ogni frase, senza capire. «Leonhard, ci vogliono arrestare? Digli che mia moglie è comunista.»
«Non è il momento, Albert. Signore, non siamo nazisti, la mia matricola era 25810, internato a Potulitz per due anni, prigione che voi avete liberato.»
Il tenente si grattò il mento, e Albert pregò che non sapesse nulla dei quattro soldati morti nel campo.
«Dio, c'è una sola cosa che odio più dei tedeschi... Porta il tuo amico dal barbiere della compagnia, poi andate a scavare latrine.»
«Grazie, signore.»
«Non ringraziare me, ma i comunisti» concluse l'ufficiale con tono sprezzante. «Andate.»
Albert divenne improvvisamente docile mentre andavano dal barbiere, ma insistette e ottenne di farsi lasciare i baffi.
Il lavoro di zappa e di vanga si rivelò piuttosto inutile, e servì solo a spaccare le loro schiene e mandarli a letto spezzati.
Il mattino dopo li svegliò l'artiglieria, e la mattanza riprese con più vigore. La loro compagnia, malconcia e provata, fu spedita poco più a Sud a ripulire alcune sacche, e poi di nuovo indietro, in attesa che si chiudesse l'accerchiamento di Berlino, ormai battuta incessantemente dai bombardamenti aerei e terrestri.
Quella sera, prima di addormentarsi, Albert pregò ancora una volta di rivedere Agathe.
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