50.
80 km a Nord di Posen, Febbraio 1945
Tolta quella difficoltà iniziale, Leonhard dimostrò una tempra d'acciaio, riprendendosi piuttosto rapidamente dai due anni di prigionia. Insieme, lui e Albert formavano un duo stranamente efficiente, e più si avvicinavano alla loro meta più ognuno diveniva sicuro di sé. Camuffati da fucilieri, potevano avvicinarsi ogni giorno un poco di più al fronte e marciare in pieno giorno, seguendo la strada che da Schneidemühl li avrebbe condotti nel Brandeburgo, a Küstrin, e di lì ognuno per la propria via.
Il ghiaccio e la neve cominciavano a lasciare il posto ai temporali, le notti si fecero meno fredde – anche se di poco – gli umori un minimo più sereni.
«Come sei finito in quel campo?» chiese Albert una mattina, approfittando della pioggia che li bloccava in un fabbricato industriale vuoto e in rovina.
Leonhard si fermò ad ascoltare il rumore della pioggia. «Io... ho ucciso la persona che amavo» rispose dopo un po', il volto rivolto all'acqua che scorreva sui vetri infranti.
«Ma... perché? Tua moglie? Non stavi tornando da lei?» insistette Albert in confusione.
«No, non mia moglie.» Leonhard finalmente si voltò a guardarlo e cercò le parole.
«Prenditi il tuo tempo.»
«Il mio matrimonio... è stato solo un favore a una donna in cerca di protezione. Io... amavo un'altra persona.»
«E perché... perché è morta?»
«Eravamo nemici, ecco perché.»
Albert si spremette le meningi ma si rifiutò di mettere insieme i pezzi, com'era intuibile dalla sua piccola faccia rotonda.
«Era un pilota inglese, che ho abbattuto in Francia. Lo catturammo, ma lui... provò a fuggire.» Leonhard fece una breve pausa, sospirò. «Non potevo lasciare che dubitassero di me, mentre lui... riponeva troppa fiducia nella persona sbagliata. Per colpa mia morì, e fu allora che non... non sono riuscito a trattenermi, a nascondere... Mi lasciarono seppellirlo coi dovuti onori. Poi scappai, prima che chi ci aveva visto testimoniasse contro di me. Ricordo ancora cosa disse il soldato che voleva consegnarmi alla Gestapo: che gli avrebbero concesso il trasferimento ai reparti di manutenzione.»
Albert si accigliò e aprì la bocca, ma rimase zitto e lo lasciò continuare.
«M'inseguirono per un anno e mezzo, prima a Berlino e poi in Pomerania, dove mi arrestarono. Sono stato trasferito un paio di volte, e ogni campo era peggiore del precedente. Non vuoi sapere le cose che ti fanno là dentro. Non farmele raccontare.»
Fuori tuonò.
«Perdonami» sussurrò Albert con voce flebile.
«Non compatirmi, lasciami sopportare le mie colpe in pace.»
Lontano tuonò ancora.
«Sono sicuro che chi ha causato tutto ciò verrà punito, alla fine di questo maledetto inferno.»
Leonhard lo guardò, con gli occhi umidi. «Non lo so, sinceramente non lo so.»
Continuarono a osservare la pioggia, con la sola compagnia dei ruggiti del cielo.
«Albert, perché cercavi quei russi, al campo?»
«Come?»
«Cercavi quella pattuglia in particolare, quando mi hai salvato, t'ho visto raccogliere qualcosa da uno dei corpi. Che cos'era?»
Albert allungò una mano alla tasca in cui conservava il suo tesoro. Per un attimo ignorò i ruggiti della campagna.
«Non ti riguarda» gli disse, e Leonhard non insistette e tornò a perdersi nelle gocce sui vetri.
Quando il sole s'alzò di quattro spanne dall'orizzonte, finalmente si mise in piedi e riprese il bastone che ancora, seppur non sempre, usava.
«Andiamo, ha quasi smesso.»
«Non ancora, continua a tuonare. Potrebbe riprendere da un momento all'altro.»
«Non sono tuoni.» Leonhard indicò verso Nord.
«Hanno ripreso l'attacco?»
«Prendi l'elmetto, ci rimettiamo in marcia.»
Abbandonarono il fabbricato e la strada in direzione di Stettino, camminando per tutto il giorno. Verso sera, stando accorti a tenersi abbastanza lontani dalle pattuglie, spiarono le colonne sovietiche in ritirata.
«A quanto pare non sono stati i russi ad attaccare» osservò Albert. «Sarà meglio tornare indietro, siamo troppo vicini.»
La mattina seguente l'offensiva riprese, e i sovietici riuscirono a riguadagnare il terreno perduto.
All'ora di pranzo i due trovarono un campo dove s'era combattuto quel mattino, ancora fresco del sangue versato, ancora seminato dei cadaveri dei soldati. Presero ciò che poteva tornare utile.
«Leonhard» gli disse Albert quando ebbero finito il loro sporco lavoro, «Quanto manca a Stettino?»
«Due giorni, se tutto va bene, forse tre» rispose Leo, cercando riparo dietro lo scafo di un panzer abbandonato.
«Allora temo sia arrivato il momento, per noi, di separarsi.»
Leonhard apparve impaurito e guardò la zona di morte davanti a loro. «Ma devo ancora superare il fronte.»
«Non lo fare, aspetta che siano loro a entrare in città.»
«E se si fermano?»
Albert scosse la testa e si guardò intorno per assicurarsi che fossero soli. «Allora ti conviene aspettare.»
«Non credo riuscirò.»
«Leonhard, attraversare la terra di nessuno è un suicidio.»
Il pomerano non rispose, e Albert cominciò a odiarlo.
«Ascoltami, dannazione: se sei ancora vivo un motivo ci sarà, ci deve essere. Non ti ho salvato solo per stare a guardare mentre ti lanci contro il filo spinato o su una baionetta. Non sarei stato condotto fino a te.»
«Albert...»
«Forse, Leonhard... forse non è tua moglie che cerchi, forse non è per lei che sei venuto qui. C'è sicuramente ancora qualcosa per cui vivere, da qualche parte su questa Terra, per la miseria!»
Leonhard si alzò e tese una mano a colpirlo, ma si trattenne. Aveva gli occhi velati, com'erano quasi ogni sera prima di addormentarsi. «Cerco quello che non potrò mai avere, maledizione! Perché non capisci? E se non lo posso avere, che senso ha allora?»
Albert abbozzò un sorriso, tenue, spento. «Sicuramente c'è, solo che ancora non lo sai, e ti danni perché pensi di saperlo, invece. Dio sa il disegno...»
«Dio è morto, Albert! È morto in Francia, è morto con quei bambini polacchi!»
Albert gli tirò un pugno.
Leonhard fu a tanto così dal battere la testa contro una delle ruote dentate del panzer. Atterrò sulle maglie divelte del cingolo distrutto e rotolò su se stesso, alzando le mani a proteggere il volto.
Albert lo afferrò per la giubba e lo rimise in piedi, gli lisciò l'uniforme e gli prese la testa tra le mani.
«Seguimi a Berlino allora, se non sai dove andare. Vedremo poi il da farsi.» Gli lasciò il volto e rimase in attesa di una risposta.
Leonhard rimase muto e poi, all'improvviso, lo abbracciò.
Albert lo sentì singhiozzare, e tra i singhiozzi udì un mormorio, un debole nome: «Charlie.»
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