46.

Potulizt, 20 km a Ovest di Bromberg, Gennaio 1945


Il prigioniero 25810 timidamente pose la testa fuori dalla baracca di legno. Come da sei mesi a quella parte, il sole per i primi secondi lo accecò, e lui subì senza fiatare, finché non riuscì finalmente a distinguere lo spiazzo imbiancato del Lager.

I Kapo passavano in rassegna i prigionieri che stancamente si radunavano davanti alla fila di baracche, urlavano insulti, colpivano coi bastoni i piccoli prigionieri tremanti. Nessuno s'opponeva, nessuno aveva la stazza per contestare l'ordine costituito.

25810 avanzò zoppicando, incerto sulle gambe scavate, e si mise in fila con gli altri, tra i suoi coetanei, in attesa dell'ispezione e della rasatura settimanale. Quando fu il suo turno, l'SS lo squadrò, rabbioso, e gli disse di stare fermo, per una buona volta. Era un volto nuovo, si rese conto il prigioniero, più anziano dei soliti aguzzini. 25810 non poteva farci niente, dondolava da quando il suo retto aveva conosciuto i manganelli della polizia di regime e delle stesse SS. Grazie al cielo non lo avevano più fatto, ma sopperivano con i pestaggi a cadenza quasi giornaliera. Il corpo denutrito gli cascava ormai sulle fragili ossa, scavato dalle piante dei piedi fino alle guance, sotto due occhi segnati dal tempo inclemente, d'un azzurro sincero, venato di bianco. Il prigioniero si portò una mano alla fronte, dove batteva in ritirata un pelo un tempo biondo ormai ridotto a una fine peluria sporca e ispida, e mormorò in tedesco le sue più umili scuse.

A fine ispezione, inaspettatamente, non si disposero per il taglio: gli occupanti di tutte le quaranta baracche del campo furono schierati in colonna e si ordinò loro di marciare. Ai coraggiosi che chiedevano per dove andare, i soldati rispondevano che li trasferivano a Kulmhof, a due giorni da lì, dove li avrebbero lavati.

Strano, considerando che fino a due giorni prima non si erano dati fiato per continuare a fucilarli.

Attraversarono la rete e il filo spinato passando per la porta principale – tra i pianti di molti, per l'emozione – e li portarono su un sentiero tra gli alberi che circondavano il campo.

La vegetazione nascondeva ogni cosa e copriva d'ombre ogni uomo e donna. Ogni tanto si sentiva uno sparo, non troppo lontano, e dopo il primo tra i presenti calò il silenzio, già soverchiante.

25810 marciava aggrappandosi alla spalla di chi aveva davanti, tutti troppo stanchi e affamati per guardarsi e confortarsi più di così. Scivolò su una radice, inciampò più volte, si raddrizzò e continuò a marciare, finché non poté più.

Lasciò andare la presa sul compagno, fece ancora qualche passo, vacillò per un secondo e si lasciò cadere, appoggiandosi a un tronco lungo il ciglio della strada, ansimante.

I prigionieri gli passarono accanto, senza far altro che lanciargli un fugace sguardo preoccupato o indifferente. I soldati gli ordinarono di alzarsi, ma quando capirono che non aveva più forza di andare avanti lo lasciarono perdere, sicuri che si sarebbe spento entro il tramonto. Non gli diedero nemmeno la misericordia col piombo, non ne valeva la pena.

La colonna passò fino alla sua retroguardia. Uno degli ultimi prigionieri uscì dai ranghi e gli si avvicinò, chinandosi un poco. «Alzati» gli disse innocentemente, «Dobbiamo andare.»

"Gesù, è solo un bambino" si disse lui.

Lo scricciolo lo guardava con grandi occhi verdi, carichi di fiducia. «Manca poco» continuò.

25810 gli carezzò una guancia. «Non posso più» gli rispose nel suo polacco stentato, «Vai avanti tu, per me.»

Il bambino gli tirò la camicia a righe, inutilmente. Le guardie lo fecero tornare nella fila, insieme agli altri piccoli polacchi – così tanti mandati lì per essere rieducati.

La foresta si svuotò, e 25810 rimase a guardare il sole alto a occidente e le nuvole che andavano imbiancando il cielo. Iniziò a nevicare, con fiocchi lievi che gli diedero calore e lo riportarono alla Berlino di anni prima, ai tigli innevati, agli aceri bianchi. Tornò a Pariser Platz. Tornò al suo Charlie, tornò all'ultima lettera scritta, chiusa da due atroci parole: "Non posso."

«Mi dispiace. Non te l'ho detto abbastanza. Mi dispiace, amore mio» mormorò Leo.

La neve si sciolse. I rumori della guerra si avvicinarono, ogni atroce minuto un poco più intensi. Una pattuglia di fucilieri gli si parò davanti. Gli fu avvicinata una borraccia alla bocca, da un giovane con la pelle bronzea. Quando videro che stentava a muoversi i quattro se ne andarono nella direzione da cui lui era venuto, e lo lasciarono lì nel fango.

Poco prima del tramonto, infine, lo vide: aveva poco di umano ormai, e molto di una scimmia. Il contadino lurido, dal profilo sottile, inizialmente quasi non lo notò; il viso smunto, col mento sfuggente nascosto da una barba ispida e scura, era puntato sulle orme nel fango, dirette a Ovest.

Quando s'accorse che quel sacco di ossa era vivo e lo seguiva con gli occhi, lo guardò. La guancia sinistra era attraversata da un profondo taglio incrostato, vagamente nascosto dai sudici capelli bruni.

Rimasero lì uno di fronte all'altro, senza nulla da dirsi, entrambi col loro pesante bagaglio.

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